Oggi tu mi chiedi – con malcelata ironia – dove sia finito l’uomo prometeico che sfidava gli dèi, l’uomo sicuro di sé, della sua scienza e della sua tecnica, l’uomo che superbamente si autoproclamava signore dell’universo. So bene, cara Myriam, che nelle tue parole non c’è alcun desiderio di tornare alle palafitte, e neppure alcuna stolta pretesa di negare gli innegabili meriti della scienza e della tecnica. Però, in questi dolorosi e interminabili giorni di paura, d’incertezza e d’angoscia che stanno scuotendo l’intero pianeta, in quest’incessante rosario di morte che rimbomba su tutta la terra, tu giustamente mi ricordi il frammento 231 di Blaise Pascal sulla fragilità dell’uomo: «Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo, un vapore, una goccia d’acqua bastano ad ucciderlo».
Che dire? Quest’uomo stolto e arrogante – che, in nome di un malinteso progresso, ha riso in faccia a Dio, ha inflitto indicibili sofferenze ai suoi simili e ha devastato il pianeta – ora quest’uomo ha paura, trema insicuro, ha perso ogni certezza, tranne questa: il virus corre silenzioso e veloce a portare la morte, senza fare distinzione di razza, di sesso, di censo e di classe.
Vivaddio! la peste non fa distinzioni: «A chi la tocca, la tocca», rispondeva monotonamente il povero Tonio, svigorito nel corpo e nella mente, alle domande insistenti e inutili di Renzo. La peste colpisce quel meschinello di Tonio così come colpisce il potente don Rodrigo! La peste porta con sé il giorno del redde rationem, della resa dei conti, quando un malfattore e sopraffattore come don Rodrigo – che per tutta la vita ha creduto di deridere Dio e gli uomini, perché i suoi dèi protettori stavano a Milano – dovrà fare i conti con la maledizione di fra Cristoforo: «Ho compassione di questa casa: la maledizione le è sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà rispetto a quattro pietre e a quattro scherani. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine per darvi il diletto di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! voi avete sprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurato quanto il vostro, e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e quanto a voi, sentite bene quello che io vi prometto. Verrà un giorno...».
Rapida ed invisibile, la morte sta in agguato. Come sempre, d’altronde. Ma in questi mesi nessuno può far finta di niente, nessuno può dire: io non l’ho vista; io sono al sicuro; a morire c’è sempre tempo.
E sta proprio qui l’«assurdità» del male. La peste, infatti, non guarda in faccia nessuno; la peste si fa beffe di tutto ciò che è importante per l’uomo: ricchezza, potere politico, vigore fisico, gerarchia, eccellenza intellettuale, genio artistico. Ebbene, tutto questo tempio – dedicato a Mammona e costruito sulla sabbia – crolla come un castello di cartapesta. Assurdo? Irrazionale? Certamente assurdo, se misuriamo i fatti secondo la logica umana del potere, della disuguaglianza e della sopraffazione. Ma coerente con la logica della peste, che non ha deferenza per nessuno e falcia vittime fra i potenti e fra i miserabili.
Così, dopo avere stilato a giorni alterni il certificato di morte di Dio; dopo avere sghignazzato sul divino e sul bisogno del sacro, ora vogliamo trascinare Dio in tribunale, vogliamo processarlo per diserzione: dove sei, – gli chiediamo nel nostro severo interrogatorio – dove ti nascondi vigliaccamente, mentre tanti innocenti muoiono? E sta proprio qui la nostra «assurdità»! Ma come, non eravamo rimasti d’accordo che Dio è morto?
In effetti ha proprio ragione Montaigne, nel chiedersi retoricamente: «Che cosa si può immaginare di più brutto che esser codardo nei confronti degli uomini e spavaldo nei confronti di Dio?» (Saggi, libro II, cap. 18). Sul piedistallo della nostra scienza, al riparo momentaneo della morte, quante volte abbiamo fatto i gradassi con Dio!
Avevo sedici anni, quando Jurij Gagarin, il primo uomo a volare nello spazio, concluse con successo la sua missione di portata storica. E ricordo ancora il sapore canzonatorio di questa battuta attribuita, chissà su quale fondamento, a quel celebre cosmonauta sovietico: «Quando ero nella spazio, non ho incontrato Dio». Allora risi anch’io, ragazzotto impettito e sfrontato, ammirando il coraggio di quell’eroe comunista, che ci aveva squadernato una lampante “prova scientifica” sulla non esistenza di Dio.
Qualcuno, meno spiritoso, ribatté che il compagno Gagarin non aveva incontrato Dio nello spazio, sol perché lo aveva sempre incontrato (onnipotente e onnisciente) a Mosca, nel Politburo del Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione sovietica.
Poi, con l’andare del tempo, m’imbattei sullo schermo televisivo in una donna di alto livello scientifico, Margherita Hack. Sapevo del suo valore intellettuale, sapevo pure del suo ateismo e conoscevo le sue prese di posizione politiche. Mi era molto simpatica Margherita Hack, con quegli occhi chiari e penetranti, con quella sua simpatica sciatteria nel vestire e nel pettinarsi, con quella parlata da toscanaccia, anzi con quell’espressione da “maledetto toscano”, capace di definire sbrigativamente “bischerate” tutte le idee e le azioni da lei non accettate.
Ma, quando liquidava la religione come una “bischerata”, e discuteva di Dio con quel fare orgoglioso e superbo, a tratti irriverente, che contraddistingue certi toscani come il dantesco Farinata degli Uberti, allora mi si stringeva il cuore. E confesso che mi angustiavo non già per quello che diceva in riferimento al Dio di milioni di rispettabilissimi credenti (padronissima di dire le sue bischerate, avrebbe detto lei!), bensì per come lo diceva («e ꞌl modo ancor m’offende», sospirava Francesca da Rimini) ridacchiando senza umiltà e, soprattutto, senza rispetto per la sua stessa statura culturale.
Ci eravamo illusi, ahinoi, di aver detronizzato Dio, occupando “legittimamente” il suo posto. Eravamo sicuri di avere ribaltato il senso della millenaria historia ecclesiastica di matrice cristiana: vale a dire, non più Dio che si fa uomo; ma l’uomo che si fa Dio! E per secoli abbiamo cullato il sogno del nostro vecchio antenato Adamo: essere sicut Deus, essere come Dio. Ed ora – come il nostro Adamo dopo la biblica disobbedienza – siamo in preda alla paura, ci nascondiamo e vigliaccamente cerchiamo un capro espiatorio («La donna, che tu mi hai posto accanto, mi ha dato il frutto dell'albero e io ne ho mangiato») su cui addossare le nostre colpe.
Ad ogni modo, giusto mi pare il tuo richiamo a Jean-Paul Sartre a proposito di una “filosofia della crisi”. Col suo saggio del 1943, L’essere e il nulla, Sartre gioca sul divario fra la coscienza e la realtà oggettiva, fra l’essere per sé e l’essere in sé, per poi scoprire il fallimento dell’uomo, questo «Dio mancato», che sconta il suo sogno di auto-trascendersi e giace nell’insicurezza e nella problematicità. Grande successo dell’esistenzialismo in generale, e di quello sartriano in particolare? Senza dubbio, dal momento che il pensatore francese dà voce alle filosofie minori, perdenti, pessimistiche, contro le grandiose filosofie ottimistiche e vincenti.
Così, sotto i colpi dell’inarrestabile penna sartriana, si dissolve la fede laica nella ragione. Crolla rovinosamente l’ottimismo della Ragione cartesiana e illuministica; va in frantumi l’ottimismo della Ragione hegeliana; soccombe l’ottimismo della Ragione positivistica. Una volta respinta ogni pretesa di spiegare razionalmente la realtà nella sua interezza, di dare un senso alla storia e alla vita, non resta che un desolato orizzonte di finitudine, d’incertezza e di rischio.
D’altronde, già nel 1938, con il romanzo la Nausea, Sartre fa assumere al protagonista una sorta di “coscienza infelice” sull’assurdità del tutto: lo svolgimento storico è inutile e senza senso; la libertà, invece di essere una conquista o un vanto, è solamente una maledetta condanna; gli altri, i nostri simili, sono per noi l’inferno in terra.
L’«individualità sana», che trovava l’affermazione di sé nel sentirsi parte di un Tutto, ora degenera nell’«individualità malata» che oscilla paurosamente tra l’assurdità dell’Essere e l’abisso del Nulla. Senza dubbio, dopo l’atroce esperienza di due guerre mondiali, non è facile né mantenere la fede negli ideali che rischiarano il cammino dell’umanità, né nutrire la speranza di realizzare sogni e progetti di affratellamento e di comune progresso. In verità, è molto più facile abbandonarsi al pessimismo, soffermarsi sul “voltastomaco” che ti procura la vita, scegliere il ruolo del ribelle solitario e incompreso.
In questo clima malsano e mefitico, generato dallo scoppio di due conflitti mondiali e dall’irrompere di tre totalitarismi, prosperano quasi per reazione la filosofia e la letteratura della crisi. Basti pensare a due romanzi che escono quasi contemporaneamente nel secondo dopoguerra: La peste (1947) di Albert Camus; e La pelle (scritto tra il 1944 e il 1945, ma pubblicato nel 1949) di Curzio Malaparte. Due capolavori ben diversi fra loro, di due scrittori ben distanti per temperamento artistico, per formazione culturale e per esperienza politica; e tuttavia entrambi accomunati da una rara percezione del male e dell’assurdo. Tu pensa che, addirittura, il romanzo di Malaparte inizialmente doveva portare il titolo La peste, e che, soltanto dopo la pubblicazione della Peste di Camus, si giunse alla decisione di intitolarlo La pelle.
Il romanzo di Albert Camus narra di una peste scoppiata a Orano, seconda città dell’Algeria francese, e scandaglia efficacemente la psicologia e la reazione degli abitanti in preda alla paura del contagio e al terrore di essere allontanati, evitati e separati dai propri cari. La pietà non è più possibile! Stanchezza, indifferenza, sfinimento, incuria per se stessi, balzano sulla scena come protagonisti di un teatro di morte. Si sta in bilico, in tempo di peste, tra sospetto e terrore. Si sta in bilico persino con la propria coscienza.
Alla fine, anche la peste degrada nella città di Orano, si attenua, e poi sembra scomparire. E la vita riprende a scorrere tra gli oranesi. Il paese è in festa, tutti ballano, ma le solitudini restano. Tutti vogliono credere che la peste può venire e se ne può andare senza che il cuore dell’uomo ne sia stato modificato. Ma può essere così? Si può attraversare il male impunemente, senza ferite insanabili, senza cicatrici permanenti? Anche perché, nella trasfigurazione lirica di Camus, la peste non è soltanto il morbo, ma è anche la guerra, il male, la morte.
Anche Napoli, nello stile immaginoso di Curzio Malaparte, è attanagliata dalla peste negli anni della seconda guerra mondiale: l’occupazione tedesca, i bombardamenti aerei, la miseria, la fame, son questi i sintomi di una “peste” che ha radici e prodromi lontani. E qui la creazione fantastica si sposa con la narrazione crudamente realistica di un Malaparte che, in qualità di ufficiale italiano di collegamento con il Comando anglo-americano, ebbe veramente modo d’indagare sul campo, di conoscere di prima mano la tragedia di una città martoriata dalla guerra, liberatasi dal giogo tedesco durante le gloriose quattro giornate tra il 27 ed il 30 settembre1943. Basti pensare che, dall’entrata in guerra sino al 1943, Napoli fu sottoposta dagli anglo-americani a continui bombardamenti aerei a tappeto, sempre durissimi e a volte indiscriminati, che provocarono la morte di non meno di venticinquemila innocenti civili e la distruzione di un ingente patrimonio artistico e culturale.
Su questa città, permettimi una mia rimembranza: ogni volta che torno a Napoli, i miei passi vanno verso luoghi a me cari e familiari. Per prima cosa approdo sulla piazza del Gesù Nuovo, con l’obelisco barocco dell’Immacolata e con la chiesa del Gesù, segno tangibile, quest’ultima, della disgrazia del principe Ferrante Sanseverino e del trionfo dei gesuiti. Costoro, entrati in possesso di palazzo Sanseverino, lo sventrarono ignominiosamente, senza alcuna pietà per le splendide sale e per i giardini, e sulle macerie fecero costruire l’attuale chiesa che di palazzo Sanseverino mantiene soltanto la facciata a bugne.
Chissà se per uno scherzo del destino o per un volontario disegno umano, con quella facciata a bugne aleggia ancora sulla piazza il fantasma di palazzo Sanseverino e del suo principe Ferrante, che pagò la sua opposizione all’Inquisizione con l’esilio e con la confisca dei beni. Stona quella facciata troppo laica e alquanto lugubre con lo spirito di un tempio cristiano; ma paradossalmente s’intona armoniosamente con lo spirito laico e il potere politico dei gesuiti di allora.
Da piazza del Gesù vado su via Benedetto Croce, dove mi aspetta palazzo Filomarino, che ospita l’Istituto italiano per gli studi storici e la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce. In questo palazzo abitò il filosofo, che ogni giorno vedeva dal balcone o incontrava per strada il suo amico Peppino Moscati, oggi san Giuseppe Moscati, le cui reliquie sono custodite nella chiesa del Gesù. «Peppino non ti capisco – diceva Croce al celeberrimo ed umile medico Moscati, che frettolosamente andava in chiesa – perché corri tanto? Dove vai? Che speri di raggiungere...? Tutto viene a tempo». E poi, rientrando, diceva alla sua domestica: «Fossero tutti così i cattolici, tutti come don Peppino!».
Peppino era un’autorità e una celebrità in campo medico: tutta la città, la Napoli dei nobili e quella dei poveri, faceva la fila per farsi visitare. Un giorno un collega, che l’aveva accompagnato per una visita, gli fece notare, a nome della categoria, che il suo disinteresse per il denaro li metteva tutti in difficoltà. Ma la risposta di Moscati – impastata di dialetto napoletano – fu assai espressiva: «Peppì, scusate: ‘lla ce sta ‘na mamma che piange per la salute del figlio e vuie me venite a parla’ ‘e solde!».
Dal balcone di palazzo Filomarino, Croce vedeva pure la torre campanaria del Monastero di Santa Chiara. E, proprio da via Benedetto Croce, io entro in questo monastero dove, ogni volta che varco la soglia, mi assale il ricordo del suo scheletro incendiato e devastato dal bombardamento del 4 agosto 1943. Secoli di storia e di arte bruciati dalla guerra! E allora mi torna in mente, con dolce prepotenza, la canzone composta nell’immediato dopoguerra e cantata per la prima volta, nel 1945, da un giovanissimo Giacomo Rondinella:
Dimane?...Ma vurría partí stasera!
Luntano, no... nun ce resisto cchiù!
Dice che c'è rimasto sulo 'o mare,
Che è 'o stesso 'e primma... chillu mare blu!
Munasterio 'e Santa Chiara...
Tengo 'o core scuro scuro...
Ma pecché, pecché ogne sera,
Penzo a Napule comm'era,
Penzo a Napule comm'è?!
Il Munasterio 'e Santa Chiara fu ricostruito, perché gli uomini costruiscono, gli uomini distruggono, e gli uomini ricostruiscono. Ma torniamo alla Napoli di Curzio Malaparte.
Nel romanzo di Malaparte, la peste di Napoli è la morte, la miseria, la fame. È l’incontro-scontro di due illusioni: quella dei “liberatori” che, secondo Malaparte, muoiono inutilmente per liberare l’Europa; e quella dei “liberati”, che invano sperano in un riscatto umano, morale e civile. Due illusioni, che naufragano in un maleodorante pantano dove tutto si riduce a mercato: dal mercato nero al mercato della prostituzione femminile, dal mercato della dignità sino al mercato della prostituzione minorile. Un viaggio, quello di Malaparte, nell’inferno della vita quotidiana napoletana e dell’umiliazione morale e fisica di un popolo martoriato.
Tutto questo mi porta a riassaporare la bellezza e la profonda verità dei versi che, nel 1925, scrisse Eugenio Montale! Voglio regalartene una quartina:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Il miracolo della poesia è quello di trasfigurare in un’intuizione lirica quello che il filosofo chiamerebbe il concetto dell’esistenza come dolore e come destino di morte. E questo miracolo poetico viene effettuato anche da Cesare Pavese, con una poesia pubblicata nel 1951, a un anno di distanza dal suo suicidio:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Si tratta di una struggente lirica d’amore scritta per la bella e affascinante attrice americana Constance Dowling, che Pavese amò disperatamente di un amore non corrisposto. Così la morte è una presenza costante nella vita, quasi un ospite ingombrante e indesiderato, qualcosa della cui ombra non possiamo mai liberarci. Qualcosa che non si esaurisce soltanto nel momento in cui si manifesta, ma che permea l’intera esistenza. Non concede tregua il pensiero della morte, segna ogni esperienza di vita. E gli occhi dell’amata saranno il mezzo tramite il quale arriverà la morte.
Gli occhi della donna amata mi portano alla lirica stilnovista: penso, ad esempio, al sonetto di Guido Guinizzelli, Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo, dove gli assalti dell’amore passano attraverso lo sguardo dell’amata, e provocano, come un fulmine, scompiglio e morte.
Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo
che fate quando v’encontro, m’ancide:
Amor m’assale e già non ha riguardo
s’elli face peccato over merzede,
Per li occhi passa come fa lo trono,
che fer’ per la finestra de la torre
e ciò che dentro trova spezza e fende.
E penso pure al celebre sonetto di Guido Cavalcanti, Voi che per li occhi mi passaste ’l core, dove è ancora lo sguardo femminile a parlare di amore e di angoscia, a trafiggere il cuore e a distruggere la vita del poeta innamorato:
Voi che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.
E’ vèn tagliando di sì gran valore,
che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore.
Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr’ occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco.
Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto,
che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco.
Pavese, dunque, riprende il topos della lirica stilnovista e lo porta alle sue estreme conseguenze: gli occhi dell’amata non provocano angoscia per la loro capacità di trasmettere amore e sconvolgere l’animo del poeta innamorato, ma sono messaggeri di morte, anzi sono i mezzi attraverso i quali la morte guarda, per l’ultima volta, la sua vittima.
Ad ogni modo, ritorna sempre inquietante la domanda: perché la morte?
È la domanda che si pone anche Giovanni Pascoli, di fronte alla morte come male e, in certe occasioni, come male causato dalla malvagità umana. È il caso della poesia, X agosto, che il poeta compose in memoria di suo padre Ruggero, assassinato in circostanze misteriose, in un agguato, il 10 agosto 1867, mentre sul calesse tornava a casa.
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla arde e cade,
perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
Una poesia, questa, dal periodare frantumato, così come il dolore frantuma l’anima del poeta. Lontano è il Dio provvidente, che regola i destini degli uomini; anzi è assente, di fronte al male inflitto dai malvagi agli innocenti. Ma Cristo è presente, anzi occupa un posto centrale in tutta questa poesia: tra le spine cade esanime la rondine uccisa; e come in croce, col corpo trafitto di spine, essa rivolge al cielo il cibo-dono per i suoi rondinini; e un dono portava alle sue bambine quell’uomo ucciso che, in punto di morte, seppe perdonare. Ecce homo! – c’è da esclamare percorrendo la via crucis dell’umanità, in questa celebre poesia.
Piange solo un «cielo lontano» su «quest’atomo opaco del Male». Sì, ma soffre con noi, e tribola per noi, il Dio-uomo, il Christus patiens che, innocente, viene incoronato di spine, inchiodato alla croce, e che, dopo aver chiesto perdono per i suoi carnefici, offre al cielo il dono supremo della sua vita per la salvezza dell’umanità.
Permane l’enigma della vita e della morte, nessuno può stracciare il sudario del Christus patiens, del Cristo che soffre sino alla fine dei secoli. E invano cercheremmo in Pascoli la gioiosa consolazione di un Christus triumphans, che sconfigge il dolore e la morte.
Quanto meno, mia cara, queste interminabili giornate di lockdown ci aiutano a riflettere sul male di vivere e sul senso della vita. Indubbiamente l’epidemia di coronavirus passerà. E, com’è inevitabile, essa lascerà i suoi postumi, con alterazioni temporanee o definitive sia nel corpo che nell’anima. Ma sta a noi, come ci ha insegnato Giambattista Vico, volgere le «traversìe» in «opportunità», ovverosia trarre dalle avversità alcune occasioni favorevoli.
In breve, questa dolorosa ma necessaria esperienza di distanziamento sociale ha certamente rappresentato una «traversìa» in campo esistenziale e psicologico, oltre che sociale, economico e politico. In questi mesi, infatti, abbiamo avuto la sensazione di vivere non più nella nostra casa, ma in un bunker, nella spasmodica attesa di un nemico invisibile e mortifero; abbiamo visto le nostre bellissime città diventare a un tratto delle necropoli immerse nel silenzio e nella mestizia; abbiamo dovuto trasformare freneticamente ogni centro abitato in un immenso lazzaretto.
Per giunta, abbiamo accettato con senso di responsabilità etico-politica che si pervenisse a uno stato di emergenza, alla riduzione delle libertà personali e collettive; e perciò dobbiamo vigilare, affinché lo stato di emergenza non si trasformi in uno stato d’assedio o in uno stato di polizia in elegante doppiopetto e fazzoletto da taschino.
E, in tema di «traversìe» da trasformare in «opportunità», dobbiamo riflettere, alla luce di questa esperienza drammatica, sul concetto di “alterità” come sostanza della nostra soggettività. Dobbiamo insomma chiederci seriamente non solo che cos’è l’altro per noi, ma anche che cosa siamo noi per l’altro, quando il contagio fa scattare meccanismi di autodifesa e di esclusione, quando la malattia viene quasi addossata come una colpa sulle spalle del contagiato.
Ma, sempre a proposito di «traversìe», dobbiamo vigilare sull’aggravarsi della «individualità malata», ovvero su quelle patologie di un individualismo, che già era aggressivo e diffuso nelle società opulente ben prima del virus, e che ora rischia di trasformarsi in un individualismo melanconico, che vuol restare lontano dalle relazioni sociali e si abbandona dolcemente al complesso del nido o della capanna.
A questi rischi fa fronte l’«individualità sana» che, in piena quarantena e distanziamento sociale, non ha mai fatto mancare piccoli grandi gesti di solidarietà verso il vicino sofferente e solo; per non parlare di quell’«individualità sana» che notte e giorno ha combattuto e combatte negli ospedali contro il virus, per salvare vite umane, per alleviare le sofferenze degli agonizzanti, sacrificando gran parte degli affetti familiari, immolando persino la propria vita.
E, per carità!, non chiamiamoli “eroi”, se questo vuol significare tacitare la nostra cattiva coscienza e gabbare il prossimo, erigendo per gli “eroi” un monumento che dura l’espace d’un matin, come direbbe il poeta François de Malherbe.
Per decenza, non chiamiamoli eroi, se poi, fra qualche mese, torneremo a eroicizzare, e magari a divinizzare, lo strapagato cantante, circondato da una massa di forsennati che ululano, strepitano e piangono in preda all’eccitazione, o lo straricco calciatore, allegramente accompagnato da un corteo di belle ragazze, di parrucchieri e di tatuatori.
Sono invece esseri umani, questi nostri “eroi” silenziosi e mal pagati. Sono la determinazione storica di quella «individualità sana», che afferma se stessa senza negare la comunione col Tutto. Sono l’espressione pura e semplice, senza fronzoli retorici e senza secondi fini, dell’attività morale che s’incarna in alcuni individui che lavorano per il rinvigorimento della Libertà, per l’affermazione del Bene, per la promozione della Vita.
«Viva chi vita crea!», ci ricorda ancora Goethe. E la vita promuovono ed innalzano non solo le grandiose figure morali di donne e di uomini, che in questi mesi “straordinari” stanno lavorando negli ospedali, ma tutti coloro che, per i dodici mesi “ordinari” dell’anno, faticano nelle campagne, nei cantieri, nelle officine, negli uffici, nella ricerca scientifica, negli ospedali, nelle scuole, sia a dispetto di quelli che, in questi stessi luoghi di lavoro, poltriscono e rubano la paga, sia malgrado la noncuranza, gli ostacoli e l’ostilità di certi gruppi dominanti, che pensano solo ad assaltare la diligenza.