Nell’antichità alcune piante hanno accompagnato e sostenuto l’esistenza dei popoli del Mediterraneo: ad esempio, l’ulivo, la vite, il fico. A tal proposito, pensiamo per un attimo all’albero di fico nell’antica Grecia: i suoi frutti erano talmente preziosi per la povera gente, che le leggi annonarie dell’Attica proibivano l’esportazione di fichi. Da qui il termine “sicofante” dal greco συκοφάντης (σῦκον: fico e φαίνειν: indicare, mostrare), termine riferito a chi denunciava coloro che illegalmente esportavano o contrabbandavano i fichi.
Senza alcun dubbio, per l’uomo antico la presenza di alcune piante è talmente forte e significativa da essere innalzata alla dimensione mitologica e religiosa, addirittura sino alla gloria dell’Olimpo. Sicché Fedro, nelle sue Favole, ci offre un quadro in cui ad ogni divinità è abbinata una pianta:
«In tempi antichi, gli dèi scelsero degli alberi che tenevano sotto la loro tutela: il mirto per il suo profumo era dolcemente gradito a Venere; l’alloro, poiché sempre verde, ad Apollo; l’alto pioppo ad Ercole. Ma erano alberi sterili. Allora Minerva, preferendo l’olivo, stupendosi chiese agli dèi: “Perché scegliete degli sterili ed inutili alberi invece che alberi fruttiferi ed utili?”. “Perché temiamo – disse Giove – il vizio dell’avarizia da parte degli uomini”. “Io – rispose Minerva – non ho paura del vizio dell’avarizia. Infatti l’olivo è gradito a tutti per l’utilità dei frutti”. Allora il padre degli dèi e degli uomini disse: “Giustamente, o figlia, come dicono tutti, stolta è la gloria delle opere inutili”»[1].
Ecco, nella descrizione di Fedro, uno scorcio della tavola dei valori dell’antichità pagana: Venere rappresenta la bellezza in senso fisico, che inebria come un dolce profumo di mirto, ispirando eros e la poesia amorosa. Apollo rappresenta la bellezza in senso estetico-artistico, una bellezza che, come il sempreverde alloro, è perenne e non ingiallisce. Minerva, nata dalla testa di Giove (già adulta e armata di tutto punto!), rappresenta indubbiamente il valore della sapienza e della verità. Beninteso, una verità non in divenire, non in fieri, ma già fatta; non in potenza, ma in atto, tutta intera, tutta armata.
E c’è di più: oltre alla sapienza-verità, Minerva rappresenta il valore dell’utilità. Ecco perché lei disprezza le piante “sterili e inutili” [steleris et inutiles arbores] degli altri dèi, e preferisce l’ulivo che, per la sua preziosa utilità, è gradito a tutti gli uomini.
L’ulivo infatti, donato da Minerva all’umanità, non solo è simbolo di pace ma costituisce una grande ricchezza, perché utile per la preparazione dei cibi, come unguento per la cura del corpo e per guarire le malattie, oltre che come fonte di luce con le lampade ad olio. Da qui l’approvazione di Giove che, nella Favola di Fedro, sentenzia così: «Stolta è la gloria delle opere inutili [stulta enim est gloria inanium operum]».
Da considerare, inoltre, che Minerva e l’albero dell’ulivo richiamano alla mente uno dei più grandi eroi omerici: Ὀδυσσεύς, Odisseo, Ulisse.
Odisseo è il prototipo della gente di mare. Questo eroe è il padre di chi vive accanto o in mezzo al mare; è il padre di chi, nel grembo materno, è avvolto non già dal liquido amniotico bensì dall’acqua di mare.
Nell’antichità, essere “isolani” significava essere “doppi”, com’è “doppio” il mare. Infatti, l’acqua del mare è vita e morte; essa ti può dare da mangiare oppure ti può mangiare; essa può rappresentare un “isolamento” oppure una via di comunicazione.
E a questo punto il “doppio” si moltiplica in ciascuno dei due poli precedenti: così l’isolamento può significare una “chiusura”, ossia ottundimento fisico e mentale, ma può significare anche una “sicurezza”, un sentirsi al riparo da pericoli che provengono dall’esterno.
D’altra parte, la stessa comunicazione può significare “arricchimento”, grazie alla conoscenza di altri mondi, di altre tradizioni, di altre culture, ma può anche significare “impoverimento”, annacquamento, annichilimento della propria identità culturale, morale e politica. E si può ancora continuare nella sequela del “doppio”, quando la comunicazione può diventare scambio commerciale, accumulazione lecita di ricchezza, o al contrario può diventare pirateria, ladrocinio, accumulazione illecita di ricchezza.
Odisseo è il più puro modello del “doppio”, anzi potremmo definirlo “anfibio”: egli, infatti, si destreggia benissimo sia sulla terra sia sul mare; egli è sincero e bugiardo; è leale e ingannatore; è un artista della retorica, un tecnico della parola, un campione della persuasione, ma sa essere anche un brutale operatore della forza, della violenza sugli uomini e persino sugli dèi. Legato ai valori della famiglia e della comunità greca, sa invece diventare un pessimo modello di cinismo, di blasfemia, di una crudele religione della spada, senza dio e senza terra.
Il nostro eroe è legato alla dea Minerva. E mai legame fu più saldo e indissolubile fra il mortale Odisseo (astuto, saggio, freddo calcolatore) e l’immortale Minerva, dea guerriera e sapiente, tenace promotrice di ciò che è utile, sino al più bieco tornaconto, “mostruosamente” diversa dagli altri dèi dal momento che non conosce l’altro sesso sia perché è vergine [παρθένος], sia perché è nata per partenogenesi, vale a dire per una riproduzione senza fecondazione della cellula. E i due, Minerva e Odisseo, si incontrano persino nella preferenza verso l’albero di ulivo.
A tal proposito, giova sottolineare che l’eroe itacese, in vista delle nozze con Penelope, ha segretamente allestito il suo talamo nuziale sul ceppo ben radicato in terra di un ulivo secolare, circondandolo poi di muri di pietra per ricavare la stanza.
Insomma, fin da giovane Odisseo mostra una grande capacità nell’arte della lavorazione del legno. Egli è artifex, artigiano valente nel costruire opere di legno, ma, nel contempo, è artifex nell’ordire inganni, cioè maestro nel tramare intrighi in gran segreto.
Le sue opere di legno fanno tutt’uno con la sua figura e caratterizzano alcuni aspetti tipici della sua persona e della sua azione. E in lui sempre si può notare che l’artifex del legno si collega con l’artifex dell’inganno.
Vogliamo addurre qualche prova di ciò? Ebbene, lasciamo l’isola di Itaca dove Odisseo ha segretamente scelto un tronco di ulivo su cui costruire con il legno il suo talamo nuziale, e andiamo tosto sulla pianura di Troia, dove la città di Priamo resiste accanitamente ad un assedio che dura da troppo tempo. Sono ormai stanchi gli Achei, da troppi anni lontani dalle loro case e dalle loro famiglie. Morti i due più grandi eroi della guerra (il troiano Ettore e il greco Achille), il conflitto perde il suo slancio vitale, lo spirito dei combattenti si affievolisce, e gli eserciti si fronteggiano senza il primitivo impeto guerriero.
Per superare l’impasse logorante, gli Achei hanno l’uomo giusto – Odisseo –, che può conquistare la vittoria definitiva, sostituendo le armi di bronzo con una formidabile arma di legno: il famoso Cavallo di Troia. Solo così, mettendo da parte gli scontri leali sul campo di battaglia, l’Itacese progetta e costruisce un gigantesco cavallo di legno, come una macchina bellica realizzata per una guerra condotta con l’astuzia e con l’inganno.
E fu la fine ingloriosa della gloriosa città di Troia. Invitta sul campo di battaglia, Troia sarà vinta dall’astuto e subdolo Odisseo, uomo πολύτροπος, ossia «uomo d’ingegno molteplice»[2], versatile, capace di avere successo in diversi campi, nel suo doppio ruolo di artifex del cavallo di legno e di artifex di inganni e intrighi.
Dopo il saccheggio e l’incendio della città di Priamo, ha inizio per Odisseo il leggendario nostos (νόστος), ossia il viaggio di ritorno in patria, una sorta di peregrinatio circolare il cui scopo non è già quello di condurre l’eroe a una meta ignota, ad un porto mai visto, bensì è quello di riportarlo al punto di partenza, a Itaca, a casa. In verità, una casa fisicamente intesa (Itaca), ma anche una casa interiore che rappresenta la compiuta conoscenza di sé.
In un viaggio lungo e avventuroso, navigando verso l’ignoto, Odisseo affronta prove impegnative che lo costringono a misurarsi con i propri limiti e a superarli. Ragion per cui la circolarità dell’itinerario si caratterizza in funzione di un’acquisizione di esperienza e di conoscenza superiori. Del resto, il progresso è rilevabile e misurabile soltanto dal confronto con il punto di partenza, cioè facendo ritorno al luogo in cui egli possa conoscere la propria nuova identità.
Da questo punto di vista, il viaggio di ritorno in patria [ossia il nostos, νόστος] comporta il sorgere della nostalgia [nostos + algìa; νόστος + αλγία], ossia il doloroso desiderio di tornare a casa, di rim-patriare, per ritrovare le proprie radici e, soprattutto, sé stesso. Perciò il grande poeta tedesco Novalis, parlando della filosofia, potrà dire che «la filosofia è propriamente nostalgia, un impulso a essere a casa propria ovunque»[3].
Indubbiamente è forte la tentazione di accostare l’Odissea a quello che sarà, nel mondo moderno, il Bildungsroman, il “romanzo di formazione” che, attraverso le emozioni, le passioni, i dolori e le continue scoperte del protagonista, guarda al sorgere della persona, al suo itinerario di formazione-trasformazione verso la maturità. E tuttavia bisogna prendere le distanze da tale suggestione, che porterebbe a erronee conseguenze in capo storico, logico ed estetico. In verità, la “formazione” di Odisseo, il raggiungimento della sua autocoscienza, si realizza in una fitta trama di avventure, di miti, di mondi fantastici, di scontri fra il protagonista e gli dèi, i semidei e gli uomini, prima ancora che con sé stesso.
In altri termini, Odisseo deve affrontare maghe o mostri come i ciclopi, e deve resistere a diverse tentazioni, come quelle di Calipso o delle Sirene. Pertanto, durante quel periglioso viaggio, egli assume di volta in volta un particolare atteggiamento in base alla situazione concreta in cui si trova: la tenacia nel sopportare le avversità, l’astuzia nel superare gli ostacoli imprevisti (Polifemo), l’audacia nel valicare la sfera del conoscibile (la discesa negli Inferi), l’abilità retorica nel narrare le varie tappe del suo viaggio (il racconto ad Alcinoo).
Irrequieto, passionale, curioso, attratto dal fascino dell’ignoto, Odisseo è anche freddamente razionale nell’attendere pazientemente il momento favorevole [il kairós, καιρός], nel prendere una decisione o nell’escogitare il piano migliore. Sicché egli è certamente dotato di ragione, di intelletto [noùs, νοῦς], ma soprattutto è un campione di intelligenza operativa, di assennatezza pragmatica, di perspicacia, di prudenza [métis, μῆτις]. In quest’ultimo caso – e sarà il caso del Cavallo di Troia o del ciclope Polifemo – Odisseo è definito “molto astuto” [polýmetis, πολύμητις] oppure “molto abile” [polyméchanos, πολυμήχανος].
Ora, però, bando agli indugi! Partiamo assieme a Odisseo per il nostos, il viaggio di ritorno. Coraggio! Salpiamo l’ancora, diamo la vela al vento e puntiamo la prora verso il mare aperto, per giungere alla sospirata Itaca.
Ci accorgeremo presto che il nostos è tutt’altro che pacifico. Nel viaggio di ritorno, infatti, Odisseo conoscerà nuovi mondi, nuovi orizzonti, proverà nuove sensazioni e nuovi sentimenti, affronterà pericoli mortali, in un percorso che potremmo definire come l’itinerario della persona verso la maturità, o del carattere che si tempra nelle difficoltà.
Lasciato il territorio troiano, le navi di Odisseo fanno scalo a Ismara, capitale del regno dei Ciconi, in Tracia sulla costa del mare Egeo[4]. E qui si rivela apertamente il volto di pirata e di predatore del nostro eroe. Infatti, Odisseo e i suoi uomini saccheggiano la città, rapiscono alcune donne, per poi scappare sotto il contrattacco degli abitanti.
Dopo nove giorni di tempesta, Odisseo e i superstiti approdano nell’Isola dei Lotofagi, a sud dell’attuale Tunisia. Qui i Lotofagi (mangiatori di loto) accolgono bene i marinai greci ed offrono loro il dolce frutto del loto, inteso come “fiore dell’oblio”. Così l’Itacese conosce un tipo di droga, ossia un tipo di erba psicoattiva che fa perdere ogni ricordo del passato e della patria, nonché ogni preoccupazione per l’avvenire, non desiderando altro che restare in quel paese e nutrirsi del “fiore dell’oblio”. Pertanto, onde evitare che, persa la memoria e storditi dalla sensazione di felicità, i marinai possano dimenticare Itaca, Odisseo abbandona frettolosamente l’Isola dei Lotofagi.
«E chi di essi mangiava il dolcissimo frutto del loto,
non voleva più né riferire notizie e nemmeno partire;
ma lì insieme con i Lotofagi preferivano restare
a pascersi di loto e dimenticare il ritorno.
Costoro io con la forza alle navi li riportai, piangenti,
e trascinatili nelle concave navi, li legai sotto i banchi.
Poi agli altri fidati compagni ordinai
di fare in fretta a salire sulle navi veloci,
sì che nessuno, mangiando del loto, dimenticasse il ritorno»[5].
Nella successiva tappa del viaggio, il nostro eroe approda alla Terra dei Ciclopi[6]. Qui, volendo esplorare quel nuovo territorio, l’Itacese lascia alcuni uomini sulla nave e, con il resto dell’equipaggio, s’inoltra sino a scoprire l’antro buio e tetro di Polifemo e del suo gregge. Siamo all’inizio di un atroce episodio di violenza e di sangue: il ciclope Polifemo, un mostruoso gigante con un occhio solo, li intrappola con l’intenzione di mangiarli.
Ebbene, al di là della dimensione fantastica del mito, cosa significa avere un solo occhio? Per dare una risposta a questa domanda, ricordiamoci dell’antichissimo detto: “Gli occhi sono lo specchio dell’anima”. Fuor di metafora, si vuol dire che attraverso lo sguardo si possono percepire e comprendere le emozioni e gli stati d’animo degli altri. In breve, gli occhi hanno un ruolo significativo nella comunicazione non verbale, manifestando, ad esempio, gioia, tristezza, felicità, amore, paura, rabbia, persino odio.
Nell’innamoramento, gli occhi parlano, si parlano, si accarezzano, sospirano, e per mezzo degli occhi giunge un «effluvio» amoroso al cuore degli amanti. Ed è nel vero il divino Platone quando, nel Fedro, ci dice che gli occhi sono la porta dell’anima, giacché «l’effluvio del bello ritorna di nuovo al bello per mezzo degli occhi che sono la via dell’anima, col ritornare e dar vita alle ali nel suo passaggio, e le innaffia e le copre di penne con più vigore ed empie di amore anche l’anima dell’amato».
Per Platone, attraverso lo specchio degli occhi gli innamorati vedono rispecchiata quell’idea di bellezza che li fa vibrare all’unisono. Guardandosi negli occhi, gli innamorati “parlano”. E non smetterebbero mai di guardarsi, perché quell’effluvio che li rapisce li innalza in una dimensione atemporale. Sicché il presente si dilata e comprende in sé l’eterno. E gli occhi si parlano, e dicono: – Per sempre!
D’altronde, anche il sommo poeta Dante celebra gli occhi come la porta del cuore, quando Beatrice «dà per li occhi una dolcezza al core, che 'ntender no la può chi no la prova»[7].
E nella Divina Commedia, Dante presenta per la prima volta Beatrice con questo verso: «Lucevan li occhi suoi più che la stella»[8]. Gli occhi sono la porta del cuore; e Beatrice ha gli occhi pieni di luce, quella luce di cui Dante ha un assoluto bisogno per uscire dalla «selva oscura» e riprendere la «diritta via»[9].
E dal cielo di Dante ci sia concesso “scendere” al Novecento, con i versi dialettali di una bella poesia napoletana di Alfredo Falcone Fieni, “Uocchie c’arraggiunate” (1904), una poesia dedicata agli occhi neri di una fanciulla, occhi più splendenti delle stelle, occhi che parlano: «E chi ve po’ scurdá, uocchie c’arraggiunate senza parlà?», E chi vi può scordare, occhi che ragionate, che dialogate, che parlate senza parlare?
Ma gli occhi sono pure lo specchio dell’intelligenza, oltre che del cuore. Gli occhi dicono: – Ti ho capito; ci siamo intesi. Invece, quando difetta o manca l’intelligenza, gli occhi sono spenti, inespressivi.
Orbene, Polifemo ha solo un occhio. E quindi possiede un’intelligenza limitata; ha una prospettiva piatta, ristretta; difetta di quell’equilibrio che risulta dalla coppia degli occhi. Perciò il nostro Odisseo ha modo di conoscere un uomo che non è uomo. Proprio così: questo mostruoso gigante, con un occhio solo in fronte, non è un uomo!
Ma sorge inevitabile una domanda: – Che dire dell’aedo? Che dire del cantore che, nell’antica Grecia, veniva raffigurato quasi sempre come cieco? Siamo forse su un gradino ancora più basso di quello dei Ciclopi? Assolutamente no.
Proprio perché cieco, l’aedo usava gli occhi dell’anima per stare in contatto con la divinità e nel contempo usava gli occhi del cuore per “vedere” e cantare poeticamente le umane vicende. In breve, nella cecità dell’aedo non c’è l’irrazionale, bensì la “verità” della fantasia, della poesia, del sentimento. E, per dirla con Giambattista Vico, il vero poetico dell’aedo «è un vero metafisico, a petto del quale il vero fisico, che non vi si conforma, dee tenersi a luogo di falso»[10].
Ma torniamo a Polifemo con un solo occhio. Egli è consapevole di non essere un uomo, ma paradossalmente si crede un super-uomo, perché superbamente si illude di poter fare a meno degli dèi e degli uomini, anzi di essere al di sopra degli dèi e degli uomini.
In realtà egli è un sub-uomo, un ciclope, un bruto, una bestia. E lo sa bene Odisseo, quando, narrando la sua drammatica esperienza nella mitica Terra dei Ciclopi, scolpisce i caratteri negativi di questi mostri con un occhio solo:
«Alla terra dei Ciclopi tracotanti, privi di leggi,
giungemmo, che confidando negli dèi immortali
né piantano di loro mano piante né arano;
ma tutto nasce senza semina e senza aratura,
grano e orzo e viti, e queste producono
grossi grappoli e vino, col favore della pioggia di Zeus.
Non hanno assemblee per deliberare né leggi.
Ma abitano le cime di alte montagne
in spelonche incavate; e ognuno fa valere la sua legge
sui figli e le mogli, e non badano gli uni agli altri»[11].
Questi versi dell’Odissea saranno riportati da Platone nelle Leggi, come testimonianza di una costituzione patriarcale fra i Ciclopi, per cui ognuno di loro, pur non avendo leggi in comune, detta legge sui figli e la moglie: «Mi pare che tutti chiamino la costituzione in vigore a quel tempo “patriarcato”, e c’è anche ora in molti luoghi, sia presso i Greci che i barbari. E Omero dice anche che in qualche modo c’era nel governo dei Ciclopi»[12].
Tracotanti, i Ciclopi son privi di tutte le istituzioni e i fondamenti del consorzio umano. Non praticano l’agricoltura, non hanno una casa, si riparano dentro delle spelonche, vivono senza legge (sine iure), senza legami sociali (sine tribu), senza una casa (sine domo), vale a dire senza la sede dell’intimità familiare.
Sono questi, secondo Giambattista Vico, i «primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni»[13], giacché «nel gener umano prima surgono immani e goffi, qual' i Polifemi»[14].
In ultima istanza, Polifemo è un animale solitario, per nulla vicino al modello aristotelico dell’«uomo animale politico per natura [φύσει πολιτικὸν ζῷον]».
Ma, ben prima di Aristotele, troviamo già nell’Iliade occasione di riflessione su questo argomento. Il saggio Nestore, infatti, rivolgendosi a Diomede e a tutti i capi greci convocati da Agamennone, delinea i caratteri negativi di colui che pensa di alimentare conflitti e discordie fra i condottieri greci: «non ha legge o tribù, non ha focolare quell’uomo che vago è della guerra civile, ferace d’orrori»[15].
È bene notare che in questo brano dell’Iliade risaltano tre alfa privativi molto significativi e utili al caso nostro: ἀθέμιστος, senza legge; ἀφρήτωρ, senza tribù; ἀνέστιος, senza focolare.
Insomma, dicendola in latino, possiamo dire che, secondo Nestore, chi fomenta discordia in una comunità è un malvagio che non ha legge (sine iure), non ha società (sine tribu), non ha casa (sine domo). In tal modo, nell’Iliade si anticipano i fondamentali caratteri negativi che verranno attribuiti ai Ciclopi, e che abbiamo già considerato nella descrizione che ne fa Odisseo.
Pertanto Polifemo non conosce alcuna legge, che non sia quella del più forte, ovvero la sua. Calpesta bestialmente la legge dell’ospitalità, catturando i Greci, che ad essa si appellavano pacificamente, uccidendoli e divorandoli. È asociale, non ha vincoli sociali, non riserva alcun riconoscimento agli altri Ciclopi, se non per invocare aiuto nel momento del suo miserabile bisogno.
Inoltre, egli è senza morale, tranne quella del suo utilitaristico tornaconto. Stoltamente e superbamente si pone al di sopra di tutti, anzi crede di essere Tutto, laddove gli altri sono nessuno. E poi verrà sconfitto da Nessuno, che è migliore di lui.
Purtroppo, di questi enormi bestioni con un occhio solo è disseminata tutta la storia degli uomini.
Ma torniamo nella tetra spelonca di Polifemo, per assistere – impauriti e sconvolti – al confronto fra Odisseo e il Ciclope. Quest’ultimo chiede furbescamente allo sconosciuto navigatore il luogo dov’è ormeggiata la sua nave. Di rimando Odisseo, avendo ben fiutato il tranello del goffo e violento Ciclope, risponde con una menzogna: «La nave me l’ha fatta a pezzi Posidone Ennosigeo. La sbatté contro le rocce ai confini della vostra terra. La spinse verso un promontorio: dal largo il vento la portò»[16].
A questo punto, la bestialità di Polifemo prende il sopravvento sul gioco d’astuzia ingaggiato con lo sconosciuto navigante e, abbandonato ogni ritegno, afferra due compagni di Odisseo e li divora. Poi, finito l’orrendo pasto, si addormenta fra le pecore, come un animale fra gli animali. All’alba del nuovo giorno, il Ciclope sbrana altri due uomini dell’equipaggio e poi va fuori a pascolare il gregge, lasciando i poveri sopravvissuti nella spelonca come prigionieri.
Giunge così il momento del felice incontro fra l’astuzia di Odisseo e un albero di ulivo. Fatale è l’incontro con questo tipo di albero, che già abbiamo visto nella preparazione del talamo nuziale di Odisseo. Ora, nella spelonca, l’Itacese scorge un grosso tronco di ulivo:
«Presso un recinto, c’era a terra – del Ciclope – un grosso tronco,
ancora verde, di olivo. Lo aveva tagliato per portarlo con sé,
una volta seccato. Noi guardavamo e facevamo i confronti.
Quanto è l’albero di una nera nave a venti remi,
una nave da carico, larga, che varca il grande abisso del mare:
tanto lungo, tanto grosso quel tronco era a vedersi»[17].
Quel tronco di ulivo, se appositamente tagliato e ripulito, può diventare un’arma decisiva per accecare Polifemo nel sonno. Ecco nuovamente sorgere la doppia identità di Odisseo artifex del legno e di Odisseo artifex dell’inganno.
Giunta la sera, torna Polifemo nella spelonca e, sistemato il gregge nel recinto, uccide e sbrana altri due uomini dell’equipaggio. Resistendo all’orrore della scena, Odisseo porta avanti il suo progetto, ossia quello di ubriacare e poi accecare il Ciclope. Perciò gli offre del vino, che il bestiale gigante accetta volentieri. E poi costui ne chiede ancora; e per tre volte beve; e poi gli chiede il nome.
E in questo caso, ecco la famosa risposta di Odisseo:
«Nessuno è il mio nome; padre e madre
e tutti gli altri compagni mi chiamano Nessuno»[18].
[Οὖτις ἐμοί γ᾽ ὄνομα· Οὖτιν δέ με κικλήσκουσι
μήτηρ ἠδὲ πατὴρ ἠδ᾽ ἄλλοι πάντες ἑταῖροι].
Qui Odisseo rinuncia alla propria identità; qui si ha la prova suprema della sua astuzia nel nascondersi dietro un travestimento. In verità, nessun eroe omerico avrebbe mai nascosto il proprio nome e il patronimico di fronte a un nemico. Il priamìde Ettore è figlio di Priamo; il pelide Achille è figlio di Peleo; il telamonio Aiace è figlio di Telamone, l’atride Agamennone è figlio di Atreo. Insomma, il nome e il patronimico formano un’inscindibile unità con l’identità della persona, perché al nome si lega l’onore o il disonore in battaglia, perché perdere il nome significa cadere nell’anonimato senza gloria. E tuttavia Odisseo, pur cittadino di quel mondo omerico, paradossalmente si conferma Odisseo – il simulatore, il menzognero – nel momento in cui nega sé stesso, la sua stessa identità.
Ma attenzione: la sottigliezza dell’inganno dell’Itacese – e della stessa narrazione di Omero – sta proprio nel doppio significato della parola «nessuno» che, da un lato, indica il “niente” e, dall’altro, il nome di una precisa persona. Infatti Odisseo – da maestro della simulazione – sostiene il falso dicendo al Ciclope che il suo nome è “Οὖτις”, che tradotto dal greco antico letteralmente significa “Nessuno”.
Grazie a questa risposta, Polifemo promette di mangiare questo “Nessuno” per ultimo, dando così a Odisseo il tempo di preparare il palo di legno per accecarlo e poi fuggire dalla spelonca.
Ora, accanto a Odisseo, stanno la dea Atena-Minerva (l’intelligenza pragmatica, l’astuzia) e l’albero di ulivo:
«Nel punto in cui il palo d’olivo, pur verde com’era, nel fuoco
stava per accendersi ed emetteva un forte bagliore,
io lo trassi dal fuoco e lo misi vicino ai compagni che ai due lati
si posero: grande coraggio fu ispirato da un dio.
Afferrarono essi il palo d’olivo, puntuto in cima, e spingendo
lo fecero entrare nell’occhio; ed io, facendo forza da sopra,
lo giravo»[19].
Una volta accecato, Polifemo chiede aiuto agli altri Ciclopi, urlando che “Nessuno” con l’inganno gli ha provocato il dolore: «Miei cari, Nessuno mi uccide con l’inganno, non con la forza» [ὠ φίλοι, Οὐτίϛ με κτείνει δόλῳ οὐδὲ βίνφιν][20].
Gli altri Ciclopi credono che Polifemo sia ubriaco, e quindi tornano a dormire. In questo modo l’inganno di Odisseo ha funzionato. E funzionerà ancora, quando l’Itacese e i suoi compagni superstiti usciranno dalla spelonca sotto il ventre lanoso delle pecore.
Ormai fuori dalla spelonca, per i Greci trionfa la vita sulla morte, la libertà sulla prigionia. E Odisseo torna ad essere Odisseo, l’eroe astuto e ladro, intrepido navigatore e pirata. Infatti, nel mettersi in salvo sulla nave, egli non dimentica di razziare le pecore di Polifemo.
Ma, una volta in salvo sulla nave, giunge l’ora di celebrare il trionfo dell’intelletto sulla forza bruta, l’ora di assaporare la vendetta sul Ciclope, l’ora di infliggergli la suprema umiliazione: quella, cioè, di rivelargli la vera identità di chi lo aveva ingannato e sconfitto.
«Ma poi che fui distante quanto uno può farsi sentire gridando,
allora io parlai al Ciclope con parole di scherno:
“Ciclope, non era privo di bellico impulso quello
a cui tu volevi divorare i compagni nella cava spelonca,
con forza violenta. E su di te dovevano pur ricadere le tue azioni
malvagie, su te, sciagurato, che gli ospiti nella tua casa non avevi
ritegno a mangiarli. Per questo Zeus ti ha punito e gli altri dèi”.
Così dissi e quello allora si adirò nel suo cuore ancora di più»[21].
La prima rivincita di Odisseo è quella di rivelare che quel “Nessuno” prigioniero nella spelonca non era affatto un “nessuno”, un “uomo da nulla”, un uomo «privo di bellico impulso». E mentre l’empio Polifemo offende gli dèi e gli uomini, quel misterioso “Nessuno” si fa pio, attribuendo a Zeus il merito della sciagura subìta da Polifemo, punito per la sua empietà e per la trasgressione di ogni legge umana e divina.
Violentissima è la reazione di Polifemo, che lancia un enorme masso contro la nave greca. Ma Odisseo non arretra nel suo proposito di vendicarsi, di schernire e pungolare il Ciclope. Questa volta, finalmente, l’Itacese dichiara apertamente e completamente la propria identità, rivelando il proprio nome, accompagnato dal patronimico e dall’indicazione del luogo di origine.
Ma tutto ciò non basta: egli si riappropria del suo antico ruolo guerriero, aggiungendo orgogliosamente al nome Odisseo quell’epiteto di «distruttore di città» [Ὀδυσσεύς πτολιπόρθιος], che nell’Iliade aveva condiviso con Achille.
«Ciclope, se mai qualcuno degli uomini mortali
ti chiedesse dello sconcio accecamento del tuo occhio,
tu digli che ad accecarti è stato Odisseo distruttore di città,
il figlio di Laerte, che in Itaca ha la sua dimora»[22].
Cresce allora la furia bestiale di Polifemo e continua il duello a distanza fra i due. Alla fine, il Ciclope scaglia contro Odisseo un macigno e una maledizione [ἀρά]:
«Ascolta, Posidone, tu che tieni la terra, tu dalla chioma scura,
se davvero sono tuo, e tu padre mio proclami di essere,
concedi che non ritorni in patria Odisseo distruttore di città,
il figlio di Laerte, che in Itaca ha la sua dimora.
Ma se è suo destino che riveda i suoi cari e ritorni
alla sua casa ben costruita e alla patria sua terra,
tardi ci arrivi e male, dopo aver perduto tutti i compagni,
su nave straniera, e in casa trovi sventura»[23].
In verità, l’enorme macigno scagliato non colpirà il bersaglio, ma la maledizione lanciata da Polifemo ad Odisseo andrà invece a segno. E il dio Poseidone, padre del Ciclope, farà di tutto per perseguitare l’Itacese, ritardando e tormentando il suo viaggio di ritorno [nostos, νόστος] ad Itaca.
Prima di riprendere il viaggio con Odisseo, è opportuno soffermarci sul concetto di kénosis [κένωσις], di “svuotamento”, che nella nostra cultura domina bensì in campo teologico[24], ma che, mutatis mutandis, rischiara alcuni episodi dell’Odissea.
Nel poema omerico, troviamo per la prima volta il concetto di “svuotamento” nella terra dei mitici Lotofagi, dei mangiatori di loto inteso come “fiore dell’oblio”. Costoro, cibandosi solo di quest’erba, perdono la memoria e, con la memoria, ogni riferimento o legame con sé stessi e con gli altri.
Ecco, nella sua semplicità, la bella descrizione per bocca di Odisseo:
«i Lotofagi non meditavano la morte per i nostri
compagni, anzi diedero loro del loto, da mangiare.
E chi di essi mangiava il dolcissimo frutto del loto,
non voleva più né riferire notizie e nemmeno partire;
ma lì insieme con i Lotofagi preferivano restare
a pascersi di loto e dimenticare il ritorno.
Costoro io con la forza alle navi li riportai, piangenti,
e trascinatili nelle concave navi, li legai sotto i banchi.
Poi agli altri fidati compagni ordinai
di fare in fretta a salire sulle navi veloci,
sì che nessuno, mangiando del loto, dimenticasse il ritorno»[25].
Volendo solo «pascersi di loto», i Lotofagi vivono in un eterno presente senza passato e senza futuro. Afflosciati come burattini in uno stato di dolce e stupida esaltazione senza motivo e senza senso, essi vegetano da “vuoti” in una bolla di “vuoto”. Vuoto di memoria? Certamente, perché non ricordano nulla.
Ma tale vuoto dell’oblio è l’anticamera del vuoto interiore. Siamo perciò di fronte allo svuotamento [kénosis, κένωσις] dell’essere umano, a una dolce morte, a un maligno processo di alienazione, di smarrimento della dignità umana ridotta a un vuoto nulla, di penosa morte dell’autentica umanità. E i lotofagi sono dei morti che aspettano la morte.
Torniamo ora nella spelonca di Polifemo, per considerare una seconda kénosis, un secondo svuotamento.
Dopo aver visto l’orribile Ciclope fare scempio di alcuni uomini dell’equipaggio greco, Odisseo mette in moto la sua intelligenza pragmatica, la sua astuzia, e trova in un tronco di albero d’ulivo il mezzo per accecare Polifemo e poi fuggire. Ma, ad un certo punto, quando il Ciclope gli chiede il nome, ci troviamo di fronte a un altro Odisseo.
Infatti, non basta più essere l’Odisseo “molto astuto” [polýmetis, πολύμητις] e “molto abile” [polyméchanos, πολυμήχανος]. Ora Odisseo deve operare su di sé uno “svuotamento”, una kénosis [κένωσις]; ora egli è un umile “Nessuno”. Ed è proprio questo abbassamento e svuotamento, questa kénosis, questo atto di umiltà, a disorientare sia Polifemo sia gli altri Ciclopi accorsi alle grida di dolore e di rabbia del compagno.
Disorientato e ingannato da questa kénosis di uno straniero, da questo svuotamento umiliante operato da un “Nessuno” che si fa umile, Polifemo cade nel tranello di Odisseo. E solo alla fine sarà costretto ad ammettere il suo errore. Gli era stato preannunciato da un indovino che sarebbe stato accecato da uno straniero, e lui si aspettava che tutto questo avvenisse per mano di un uomo forte e bello, non già per mano di un miserabile Nessuno.
«Ma io mi ero sempre aspettato che un uomo grande e bello
arrivasse qui, e dotato di grande forza;
e invece è stato un uomo piccolo, un uomo da nulla e debole,
che l’occhio mi ha accecato, dopo avermi sopraffatto col vino»[26].
Povero Polifemo! Si aspettava che venisse ad accecarlo «un uomo grande e bello»; e invece lo accecò «un uomo da nulla», perché trovò un uomo che si fece nulla.
[1] Fedro, Favole, libro III, Favola XVII.
[2] Omero, Odissea, I, 1.
[3] Novalis, Opera filosofica, Einaudi, Torino 1993, p. 466.
[4] La Tracia è posta nell’estrema punta sudorientale della penisola balcanica.
[5] Odissea, IX, 94-102.
[6] Sin dall’antichità i Greci collocavano la Terra dei Ciclopi in Sicilia, ai piedi dell’Etna.
[7] Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare, «Vita Nova», XXVI.
[8] Inferno, canto II, 55.
[9] Inferno, canto I, 2-3.
[10] G. B. Vico, Scienza Nuova, XLVII.
[11] Odissea, IX, 106-115.
[12] Platone, Leggi, III, 680 b-c. Subito dopo, a conferma di quanto detto, Platone cita i versi dell’Odissea che noi abbiamo or ora riportati: «Non hanno assemblee per deliberare né leggi. Ma abitano le cime di alte montagne in spelonche incavate; e ognuno fa valere la sua legge sui figli e le mogli, e non badano gli uni agli altri».
[13] G.B. Vico, Scienza Nuova, sezione prima, metafisica poetica, cap. I.
[14] Ivi, LXVIII.
[15] Iliade, IX, 63-64.
[16] Odissea, IX, 283-285.
[17] Ivi, IX, 319-324.
[18] Ivi, IX, 366-367.
[19] Ivi, IX, 378-383.
[20] Ivi, IX, 408.
[21] Ivi, IX, 473-480.
[22] Ivi, IX, 502-505.
[23] Ivi, IX, 528-535.
[24] Basti ricordare la Lettera di san Paolo ai Filippesi, dove l’Apostolo porta a modello Gesù Cristo che, pur essendo nella condizione di Dio, svuotò se stesso per assumere la condizione di servo ed essere simile agli uomini (Vedi Lettera ai Filippesi, 2, 5-7. Il corsivo è mio).
[25] Odissea, IX, 92-102.
[26] Ivi, IX, 513-516.