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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

Invidia

2023-06-19 14:35

Prof. Giuseppe Pezzino

Invidia

Mi han sempre detto che una mela al giorno toglie il medico di torno. Però ieri, sbocconcellando lentamente una golden, mi sono ricordato che in latin

Mi han sempre detto che una mela al giorno toglie il medico di torno. Però ieri, sbocconcellando lentamente una golden, mi sono ricordato che in latino la parola malum ha un doppio contenuto semantico: da un canto, significa mela (il frutto, appunto!) e, dall’altro, significa male, disgrazia, sventura.
Pertanto mi è venuto naturale fare una rapida carrellata – tra religione, mito e fiaba – sulle nefaste conseguenze della mela. Ho ripensato perciò a Eva, a Paride e a Biancaneve. Nei tre casi, ho notato che la causa principale di quelle vicende disastrose fu una sola: l’invidia!
Vediamo un po’. Nella descrizione biblica (Genesi 3, 1-5) il maligno serpente, invidioso di Dio e della felicità di Adamo ed Eva, li induce a disobbedire a Dio, nonostante i due abbiano a disposizione tutto quello di cui hanno bisogno. Adamo ed Eva mangiarono la mela…e fu l’inizio della fine!
Nel mito greco del giudizio di Paride, si narra che Giove, avendo concesso Teti in sposa a Peleo, abbia riunito tutti gli dèi dell’Olimpo tranne Eris, la Discordia, la quale, invidiosa nei confronti degli altri invitati, sopraggiunge e getta nel mezzo del banchetto una mela d’oro con scritto “alla più bella”. Bisogna ammetterlo: la perfida dea Discordia seppe seminar zizzania. Infatti, quale donna (seppur dea) non cede alla debolezza di sentirsi la più bella? Sicché Minerva, dea della sapienza, Giunone, moglie di Giove, e Venere, dea della bellezza, si contendono la mela d’oro in uno scontro senza esclusione di colpi. Chi sarà la più bella delle tre?
Giove, come tutti i maschi, non si assume la responsabilità di questa scelta, lasciando così l’onere del difficile giudizio al bel Paride, un pastore troiano (in realtà figlio del re Priamo) che sta placidamente pascolando il gregge nelle campagne della Troade. Per invogliarlo a decidere, Minerva gli promette il sapere, Giunone il potere e Venere l’amore con la donna più bella del mondo.
Insomma un tipico esempio di voto di scambio!
Così, in un vorticoso mulinello di seduzioni, le tre dee cercano di sedurre il bel Paride, futuro seduttore di Elena, moglie di Menelao re di Sparta. Come sappiamo, il bello e fatuo Paride si lascia sedurre dalla promessa di sedurre Elena, e perciò assegna a Venere il “Premio Mela d’Oro”.
Vai a fidarti dell’imparzialità delle giurie di ogni tempo e di ogni specialità (da Paride al Nobel, dal Premio Viareggio al Leone d’oro, dall’Oscar a Miss Italia).
A questo punto sette simpatici nanetti, spalleggiati dai fratelli Jacob e Wilhelm Grimm, bussano alla mia porta. Di che si tratta? La regina, matrigna di Biancaneve, prova invidia per la giovinezza e la bellezza della figliastra e, non sapendo come ammazzare il tempo, chiede allo specchio chi è la più bella del reame. Come al solito lo specchio risponde: «Biancaneve». A questa parola, la sfaccendata regina freme per la collera. Poi grida: «Biancaneve deve morire, dovesse costarmi la vita». Si chiude in una stanza segreta, dove nessuno può entrare, e prepara una mela velenosissima.
Biancaneve morde la mela e muore, gettando nello sconforto i Sette Nani e gli animali del Bosco Incantato.
Come si può ben notare, la miscela mela+invidia provoca effetti catastrofici nei tre casi sopra illustrati: 1) il Paradiso Terrestre, in attesa di risorgere oggi per la coppia Fedez-Chiara Ferragni, tramonta per la coppia Adamo-Eva; 2) il pastore Paride, costretto poi a combattere una lunghissima guerra e a spupazzare una costosissima Elena, vede svanire il dolce e idilliaco paesaggio degli erbosi pascoli della Troade; 3) per Biancaneve si scioglie come neve (è il caso di dirlo!) al sole la magica felicità del Bosco Incantato, e la poverina dovrà aspettare il bacio del Principe Azzurro (squallido maschilismo!) per rinascere.
Insomma, sarà vero che la mela toglie il medico di torno, ma è anche vero che porta un mare di guai!
Ora, però, lasciamo il mondo della religione, del mito e della fiaba, per tornare alla nostra realtà e guardarci negli occhi, chiedendoci: che cos’è l’invidia?
Aristotele, nella Retorica, definisce l’invidia come «un dolore causato da una buona fortuna che appare presso persone simili a noi». In altri termini, si tratta di un sentimento spiacevole e penoso, che si prova a causa di un bene (ricchezze, oggetti, posizione sociale, ecc.) o di una qualità (la bellezza, l’intelligenza, il successo in amore, ecc.) che appartengono a un altro e che l’invidioso non possiede, ma vorrebbe per sé.
Purtroppo, in ciascuno di noi si nasconde e dorme la mala bestia dell’invidia. Essa sembra non esistere; e sembra risparmiarci le sue maligne attenzioni. Ma, quando si sveglia, allora essa ti schiaffa in faccia quel tremendo confronto con l’altro, con uno migliore di te; e ti rode il cuore giorno e notte, ti tormenta, ti fa impazzire dal dolore, ti fa diventare cattivo, e ti spinge persino a fare del male alla persona da te invidiata.
Tutto questo lo sa bene il romagnolo Guido del Duca che, confessando la sua sfrenata invidia, così si presenta a Dante nel girone degli invidiosi: «Fu il sangue mio d’invidia sì riarso / che se veduto avesse uomo farsi lieto, / visto m’avresti di livore sparso» (Purg. XIV, 82-84). Ha proprio ragione Dante: l’invidia brucia le vene dell’invidioso, quando vede un altro godere di un bene, fosse pure un attimo di gioia. 
Da questo punto di vista, ho sempre letto il mito di Prometeo come la tragedia dell’invidia. Il titano, invidioso della potenza dell’Olimpo, ruba il fuoco agli dèi e lo consegna agli uomini. La feroce punizione di Giove non si fa attendere: Prometeo viene incatenato, mentre ogni giorno un’aquila gli squarcia il petto e gli dilania il fegato, che gli ricresce durante la notte. Un supplizio eterno per Prometeo invidioso. Il supplizio di Prometeo è il supplizio di ogni uomo, il cui fegato viene eternamente dilaniato dall’invidia rapace!
Ebbene, tutti possono provare invidia, anche se non tutti lo ammettono. Guardiamo al maschile: «Invidioso io? Del suo successo? Ma per favore! Hai visto bene quell’ometto di cui io dovrei essere invidioso?» Volgiamoci al femminile: «Invidiosa io, di quella lì? Della sua bellezza? Ma per favore! Hai visto bene quella sua aria volgare? Hai visto quel suo seno che la fa tanto una mucca svizzera?» Oppure: «Hai visto bene quel suo petto magro e vizzo che la rende simile a un palo?»
Non vogliamo ammetterlo, e invece il veleno dell’invidia ci guasta l’anima: «Ma cos’ha quello più di me?» «Perché lei sì e io no?» È un inferno per invidiosi e invidiati. Ad esempio, chi non ha mai visto una donna imbruttita da una vecchiaia precoce (la vecchiaia è sempre precoce!) stare accanto a una donna giovane e bella? Fateci caso: è una guerra d’invidia sotterranea, combattuta a colpi di stilettate velenose con le parole e, soprattutto, con lo sguardo pieno di disprezzo, di superiorità, di ostilità.
Peggio ancora se una donna, oltre ad essere bella, è pure intelligente. Bella e intelligente? No, non è possibile! Una donna bella è sempre un’oca senza cervello, soprattutto per le altre donne invidiose. Magari quella donna bella fa funzionare la sua rispettabile intelligenza, lavora sodo, raggiunge un traguardo nello studio, nel lavoro, nella vita…e subito però senti dire con malizia e invidia: «Ma ci credi? Chissà a che prezzo ha raggiunto il successo!»
Purtroppo, guai ad avere un minimo di successo! Gli invidiosi non te lo perdonano. Ecco perché un uomo navigato come Cicerone raccomanda di non ostentare eccessivamente i frutti, sia pur meritatissimi, del successo: «Poiché gli invidiosi sono parecchi e il vizio dell’invidia è molto comune e diffuso, infatti una posizione sicura e brillante inevitabilmente suscita invidia, bisogna sforzarsi di abbassare negli altri l’impressione della fortuna, mostrando che questa fortuna, la quale tiene un posto tanto alto nell’opinione degli uomini, è impregnata di fatiche e di sofferenze» (De Oratore, II, 210).
È noto che lo sguardo maligno dell’invidia non risparmia nessuno: ad esempio, provano invidia i ragazzi o le ragazze di fronte a chi ottiene un 30 e lode («Capirai, fa la gatta morta con il professore!») o di fronte a chi è fidanzato («Che gusti! Pur di avere una sottana accanto, si mette pure con una cozza!»); provano invidia persino gli anziani verso quelli che ricevono più visite da figli e nipoti nelle case di riposo («Quella lì è sempre circondata da parenti! Ma sono tutti sfaccendati? Mio figlio e mia nuora, invece, mi cercano raramente perché lavorano dalla mattina alla sera!»).
D’altronde, il morso dell’invidia era ben conosciuto e temuto sin dall’antichità. Per sant’Agostino, l’invidia è un vizio diabolico, una peste dell’anima, che il vero cristiano deve respingere: «Ti chiedo se non è vero che, quando il tuo vicino comincia ad arricchirsi, a innalzarsi socialmente, avvicinandosi a te, tu non temi che ti raggiunga e ti superi. Eppure tu dici di amare il tuo prossimo come te stesso. Ma io non intendo parlare delle persone invidiose. Dio tenga lontano la peste dell'invidia dall'animo di tutti, e tanto più dei cristiani: essa è un vizio diabolico [vitium diabolicum] di cui solo il diavolo è colpevole, colpevole senza possibilità di espiazione. Quando infatti il diavolo fu condannato, non fu accusato di adulterio o furto o rapina ma di invidia, perché, caduto lui in peccato, provò invidia per l'uomo che era ancor saldo nella sua integrità. L'invidia è dunque vizio diabolico [Invidentia diabolicum vitium est], che è però generato dalla superbia: questa è detta madre dell’invidia» (De disciplina christiana, 7. 7).
L’invidioso lavora generalmente in silenzio e nel sottosuolo. Non può ammettere il suo sentimento di invidia, perché equivarrebbe ad un’ammissione d’inferiorità. Va bene, dunque, qualche frasetta velenosa ma, per il resto, il lavoro sporco viene appaltato all’occhiata maligna, a quello che rozzamente si chiama “malocchio”.
Spesso il malocchio dell’invidioso si tramuta in maldicenza. E allora è tutto un parlar male alle spalle dell’invidiato. Così, in assenza della vittima, l’invidioso diventa una schifosa vipera che s’insinua nei posti di lavoro, nei salotti, nelle passeggiate, fra i tavolini dei bar o nei corridoi dei palazzi del potere. «La sai l’ultima su Tizio?» e giù una cascata di malignità, di falsità e di fango sulla testa dell’invidiato che, assente, non può difendersi.
Lo stesso papa Francesco non usa mezzi termini a proposito della maldicenza. E sottolinea che «su questo punto, non c’è posto per le sfumature. Se tu parli male del fratello, uccidi il fratello. E noi, ogni volta che lo facciamo, imitiamo quel gesto di Caino, il primo omicida della storia». Parole dure e pesanti come pietre, queste di papa Francesco, che chiamano in causa la coscienza e la condotta di ognuno di noi, cristiani compresi.
Ovviamente, la maldicenza dell’invidioso trova mille orecchie bramose di accogliere veleno, trova mille cervelli vuoti che aspettano di essere riempiti di sterco, trova mille invidiosi pronti ad ascoltare, a far finta di scandalizzarsi, a sghignazzare, a dare man forte all’invidioso maldicente.
E se improvvisamente dovesse apparire la vittima della maldicenza? Nessun problema. Si cambia discorso, si accoglie la vittima con finta naturalezza, la si circonda di falsi complimenti, mentre altri si scambiano occhiate di complicità con sorrisini di disprezzo o di commiserazione. Insomma, è il trionfo dell’invidia, della falsità e della malvagità.
Ma il peggio arriva dopo, quando il fioretto della maldicenza cede il posto alla sciabola della calunnia. E se l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, bisogna ammettere che il calunniatore è stato creato a immagine e somiglianza del diavolo! Il calunniatore, infatti, è un immondo mostro, dal cuore di pietra e dal cervello sopraffino, che ordisce inganni, che propala menzogne e false accuse, per attribuire una colpa, un peccato o un reato ai danni di una persona innocente.
Come tutti sanno, nel primo atto del rossiniano Barbiere di Siviglia c’è una bellissima aria cantata da un basso (don Basilio) che è un capolavoro di musica e di pensiero: si tratta del brano La calunnia è un venticello. Qui il maestro di musica don Basilio ci spiega, con aria da cattedratico, cosa sia la calunnia; e ci rivela seriosamente come la calunnia nasca pian piano e come via via acquisti sempre più forza, insinuandosi nella mente delle persone: La calunnia è un venticello / Un’auretta assai gentile / Che insensibile, sottile, […] / Va ronzando, va ronzando / Nell’orecchie della gente / S’introduce, s’introduce destramente / E le teste ed i cervelli / Fa stordire e fa gonfiar.
Poi la calunnia prende sempre più forza; e dai cervelli va ad appestare ogni casa, ogni luogo, sino ad assumere le micidiali dimensioni di una tempesta che mette paura: Prende forza a poco a poco, / Vola già di loco in loco, / Sembra il tuono, la tempesta / Che nel sen della foresta / Va fischiando, brontolando, / E ti fa d’orror gelar.
Infine, in un progressivo aumento di musica e parole, la calunnia e il crescendo rossiniano raggiungono un climax da far sussultare gli spettatori: Alla fin trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia, / E produce un’esplosione / Come un colpo di cannone.
Senza dubbio la calunnia rovina la vita del calunniato; e purtroppo arriva a portare anche la morte, quando s’insinua nella mente la follia della gelosia e il sospetto del tradimento.
A tal proposito, ricordo ancora le sere d’inverno trascorse nella casa dei miei nonni paterni, assieme a zii e cugini attorno al braciere ('a conca). Di solito era mio nonno Giuseppe, per la sua grande capacità narrativa e affabulatrice, a raccontare alcuni avvenimenti (i fatti successi, diceva lui in dialetto), che in noi destavano attenzione, meraviglia e commozione. Ma solo in una determinata e rara occasione prendeva a narrare mia nonna: quando il discorso scivolava sulle tragedie che poteva provocare la calunnia. Allora ci raccontava la dolorosa storia di Ianu e Maridda.
Ianu era un povero garzone di stalla che lavorava in una massarìa della Piana di Catania. Tornava a casa a Ramacca ogni quindici giorni, il povero e onesto giovane. Sapeva poco della vita del suo paese ed un giorno i parenti gli proposero di sposare Maridda, una giovinetta seria e laboriosa. L’accordo c’era e il matrimonio si fece. Quello che poteva ridursi a un matrimonio di convenienza divenne invece amore, tenerezza rusticana, attaccamento reciproco: Ianu e Maridda vivevano nell’attesa d’incontrarsi ogni quindici giorni, quando il giovane innamorato tornava dalla Piana. Così Maridda versava lacrime di gioia, quando lo poteva riabbracciare, e lacrime amare, quando lui doveva ripartire.
Un giorno, a Ramacca, l’invidia partorì la calunnia, che cadde inesorabile sulla moralità e la condotta della giovane e onestissima sposina. La voce cominciò a girare in paese, sino ad arrivare all’orecchio di Ianu. Sulle prime, egli rimase incredulo e disse a sé stesso e agli altri che quella voce era una falsità e che lui avrebbe messo la mano sul fuoco riguardo alla fedeltà di Maridda. Invece, col passare dei giorni, il fuoco della gelosia e del sospetto avvampò nel cervello e nel cuore di Ianu. E se fosse vero? E se, durante la mia lunga assenza, lei…no, non ci voglio credere! Però, l’altro giorno, lei era strana al ritorno dalla casa di sua madre. Ma era andata veramente da sua madre? Non lo so. So di sicuro che c’è un tizio che passeggia troppe volte davanti a casa mia. Ianu non disse «casa nostra», disse «casa mia». Ormai quel possessivo stava ossessionando il povero giovane. Mia la casa, mia la moglie, mentre qualcuno ha violato la mia casa, il mio letto e mia moglie.
Il sospetto si tramuta così nella certezza del tradimento; e tutte le parole e tutti i movimenti dell’innocente Maridda si imprimono nel cervello di Ianu, come falsità per celare perfidamente il tradimento. Giorno e notte la furia della gelosia divora il cuore del giovane, che ormai precipita nella follia.
Una notte, Ianu decide di farla finita. Trovarono poi il corpo esanime dell’innocente ragazza sul letto che aveva visto la felicità di due sposi fedeli. Sgozzata da una rasoiata, con la testa adagiata sul guanciale intriso di sangue, Maridda sembrava dormire, ma aveva per sempre finito di sognare.
Questi sono i frutti velenosi della calunnia. Ma, turiamoci il naso e osserviamo da vicino un calunniatore. Un nome? Un esempio? Il personaggio di Iago nella tragedia Otello, di William Shakespeare. A dispetto del titolo, in questa tragedia shakespeariana è Iago il protagonista, e non già Otello. L’«onesto Iago» (così lo chiamano tutti, credendo alle sue false apparenze) è la personificazione della fredda ragione al servizio del male; è l’archetipo della ragione calcolante che mira soltanto alla realizzazione di fini egoistici e immorali.
Esiste il diavolo? Certo che esiste. E Iago è la perfetta personificazione del diavolo: egli è invidioso e geloso, diabolico e astuto. La sua natura assolutamente malvagia trova motivo di accendersi di invidia e di rabbia per una mancata promozione: Otello, infatti, nomina Cassio come suo luogotenente, preferendolo nettamente a Iago. A questo punto si accende lo sdegno nel petto di Iago.
La sua è una rabbia “fredda”, mai furiosa, mai esplosiva; è una rabbia calcolata e implacabile, che architetta un piano di vendetta contro Otello. Iago nutre una profonda invidia nei confronti di Otello, ma bisogna riconoscere che la sua smisurata invidia investe tutti.
In questa tragedia shakespeariana, l’invidia è all’origine di tutti i mali; e proprio l’invidia, in un susseguirsi di azioni e sentimenti, porterà a un tragico epilogo: la folle gelosia di Otello e la morte dell’innocente Desdemona.
Così, sfruttando la fraterna amicizia tra Cassio e Desdemona, Iago fa in modo che Otello possa impazzire di gelosia nei confronti della giovane moglie, da lui amata con passione e di cui si fida ciecamente. Il malvagio calunniatore, l’onesto Iago, inizia a far credere ad Otello che il rapporto tra i due sia fin troppo intimo, insinuandogli nella mente il sospetto del tradimento. Ed è proprio questo semplice sospetto che pian piano rende furioso Otello, portandolo a compiere il gesto estremo, di cui si pentirà amaramente.
Nel famoso monologo di Iago, Shakespeare ci dipinge il diavolo travestito da amico: Io odio il Moro… Si è anche bisbigliato, qua e là, che egli mi abbia sostituito nel dovere coniugale tra le mie lenzuola. Non so quanto sia vero, ma per un semplice sospetto del genere io agirò come avessi certezza. Di me egli si fida; e tanto meglio agiranno su di lui le mie macchinazioni. Cassio è un bell’uomo… Vediamo un po’… Prendergli il posto, e far culminare il mio piano in un colpo doppio…Ma come? Come? … Ecco… Fra un po’ di tempo, potrei stillare nell’orecchio di Otello che Cassio è troppo in intimità con sua moglie. Cassio ha un aspetto e un carattere soave, che sembran fatti apposta per far sospettare gli uomini e per far girare il capo alle donne. ll Moro è d’indole semplice e franca. Crede onesti quegli uomini che appena lo sembrano. E si farà menare per il naso docilmente come un somaro. Ho trovato… L’idea c’è. Poi l’inferno e la notte porteranno alla luce questo parto mostruoso.
Il diabolico e invidioso Iago è un antagonista subdolo e ingannatore, e per questo motivo ancor più temibile e pericoloso. Si finge amico di tutti, quando in realtà il suo obiettivo è distruggere quello che ha intorno, avvelenare la felicità degli altri, annientare ciò che di leale e buono c’è nelle persone. La vita ci porta a volte a cambiare idea, atteggiamento, forse anche carattere. Otello diviene, da soldato coraggioso e forte, un assassino geloso e insicuro. Iago no, non cambia mai. Egli rimane sempre il diabolico e invidioso Iago, che usa la scaltrezza solo per fare del male. Egli è il cinico manipolatore di cervelli e il falsificatore di notizie, mai pentito e sempre crudele.
Proprio così, Iago è il Male travestito da Amicizia. Purtroppo, l’onesto Iago sa benissimo scendere dal palco, per percorrere le vie della vita reale, appestando così l’esistenza delle persone. E molti di noi hanno avuto a che fare con le false amicizie.
Si aggiunga che l’invidia può esplodere anche in famiglia, persino tra fratelli. Per invidia, infatti, Caino uccide suo fratello Abele, prediletto da Dio (Genesi 4, 3-12). Per invidia, i figli di Giacobbe vendettero il loro fratello Giuseppe, prediletto dal padre (Genesi 37, 12-28).
E che dire dell’invidia nella politica? Su ciò, senza scendere nello scantinato della politica attuale, lasciamo parlare un’ammirevole figura politica, Pier della Vigna, che tenne «ambo le chiavi del cor di Federigo» e che conobbe a fondo quale perfida e volgare «meretrice» fosse l’invidia di corte. Egli ricorda a Dante come l’invidia infiammò contro di lui gli animi dei cortigiani e dello stesso imperatore, al punto da spingerlo al suicidio: «La meretrice che mai da l’ospizio / di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune e de le corti vizio, / infiammò contra me li animi tutti; / e li ’nfiammati infiammar sì Augusto, / che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. / L’animo mio, per disdegnoso gusto, / credendo col morir fuggir disdegno, / ingiusto fece me contra me giusto» (Inf. XIII, 64-72).
Proprio così: la meretrice invidia, «morte comune e de le corti vizio», non distoglie mai il suo sguardo di puttana («li occhi putti») dai luoghi del potere politico («l’ospizio di Cesare»).
In verità, l’invidia è un inferno non solo per l’invidiato, ma anche per l’invidioso. L’invidia, infatti, genera nell’invidioso non solo dolore, ma anche tristezza, come dice san Tommaso: «Nessuno si sforza di raggiungere una cosa in cui si sente troppo manchevole. Per cui quando in questa viene superato, non prova invidia. Se invece la sua deficienza non è molta, allora gli pare di poter raggiungere quel bene, e così tenta di raggiungerlo. Per cui se i suoi tentativi vengono frustrati dal prevalere della gloria altrui, se ne rattrista. Ed è per questo che gli amanti degli onori sono più portati all’invidia. Come pure sono invidiosi i pusillanimi: poiché essi stimano grande qualsiasi cosa, e per qualunque bene capitato a un altro pensano di aver subìto un grave insuccesso» (Summa Theologiæ, II-II, q. 36, a.1).
Ma l’invidia diventa un maligno piacere, sottile e raffinato, quando l’invidioso vede cadere l’invidiato. «Hai saputo che Tizio non è stato più eletto al Senato?» «Nooo, – risponde ipocritamente l’invidioso – non me lo dire! Ma veramente? Ci sto rimanendo di sasso. Ma com’è possibile che un tipo rampante e vincente come Tizio sia stato sconfitto?» Stupore e afflizione di facciata, mentre dentro di sé l’invidioso va facendo salti di gioia e gode come un riccio. A tal proposito, ha proprio ragione un proverbio francese: «Le malheur des uns fait le bonheur des autres: La sfortuna degli uni fa la felicità degli altri».
In riferimento allo stesso concetto, i tedeschi usano il termine Schadenfreude per indicare il piacere che l’invidioso prova di fronte alle disgrazie altrui. E perciò Arthur Schopenhauer giustamente distingue fra invidia, che è un vizio umano, e Schadenfreude, che è un vizio diabolico: «Neid zu fühlen ist menschlich, Schadenfreude zu genießen teuflisch: Provare invidia è umano, godere della Schadenfreude è diabolico».
Ammettiamolo, siamo sinceri! Se il mio nemico politico viene travolto da scandali, io provo un diabolico godimento, provo Schadenfreude. Se la mia collega giornalista, direttrice di un qualsiasi telegiornale, viene retrocessa, io provo Schadenfreude. Se negano la lode alla tesi di laurea di quel secchione di Gianfilippo, io provo Schadenfreude. E così via godendo.
A questo punto, però, è doverosa una chiosa a margine. Attenzione, bisogna saper distinguere! Bisogna saper distinguere, cioè, tra la malefica invidia e la sacrosanta indignazione.
Chi, ad esempio, si indigna per un’ingiustizia subìta, non è invidioso verso chi gode di privilegi ingiusti e immeritati, semmai ne è la vittima; chi si lamenta per la bocciatura ad un concorso che si scopre essere stato truccato a favore dei figli idioti di padri disonesti o padrini mafiosi, non è invidioso verso i vincitori idioti, semmai ne è la vittima; chi reagisce disperatamente contro le malvagie pretese degli eterni don Rodrigo, non è invidioso di un potente mascalzone, semmai ne è la vittima.
Da questo punto di vista, a mio modesto avviso, il fratello maggiore del “figliol prodigo” non è mosso da invidia, bensì da sete di giustizia. Proprio così: una sete di giustizia umana, la sua, di giustizia terrena quanto si vuole, che può sembrare invidia al cospetto dell’infinita e misteriosa misericordia divina, ma che, su questa terra, è invocazione di un diritto conquistato col sudore, con l’obbedienza e col silenzio.
Di grazia, soffermiamoci per un attimo su questa bellissima parabola evangelica (Luca 15, 11-32), senza alcuna pretesa di proporre una sia pur minima lettura teologica. Due fratelli tornano a casa: il minore torna, dopo avere sperperato la parte del patrimonio paterno negli ozi, in banchetti e prostitute; il maggiore torna, come ogni sera, dal lavoro nei campi, dove arricchisce, dall’alba al tramonto, il patrimonio paterno senza mai pretendere nulla per sé. Il minore – il figlio prodigo, che ha dilapidato una fortuna nelle dissolutezze – si pente, va a chiedere perdono al padre, che lo accoglie con amore e dice ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
E cominciano a far festa…senza però pensare minimamente al fratello maggiore che si sta spezzando la schiena nei campi, senza neppure avvertirlo, senza chiamarlo a partecipare alla gioia e ai festeggiamenti con musiche e danze.
Ma facciamo parlare il Vangelo: «Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare [Indignatus est autem et nolebat introire]».
Si badi bene, l’Evangelista scrive: «Egli si indignò»! Egli, quindi, non è invidioso del fratello minore. Egli è indignato! Egli si sente vittima di ingiustizia. In breve, si sente offeso dal padre, che non lo ha minimamente pensato, neppure quando ha ordinato i festeggiamenti; si sente offeso dal padre, che lo ha lasciato marcire nei campi mentre tutti si davano a banchettare, suonare e danzare.
Da precisare ancora: dopo la partenza del fratello minore con la quota di eredità anticipata, egli era rimasto solo ad affrontare quotidianamente le fatiche di un durissimo lavoro, per accrescere il patrimonio del padre. Ora il fratellino, spossato dalla deboscia e dalla fame, ritorna pentito e non si vergogna di farsi festeggiare (seduta stante, con l’anello al dito e il vestito più bello!) a spese del patrimonio del padre e del lavoro del fratello. 
E il buon padre? Soltanto dopo quella reazione del figlio maggiore, il padre lascia momentaneamente la festa ed esce per supplicarlo di entrare. Ma egli risponde a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso».
Per me, questa non è invidia, è bensì una legittima rivendicazione di giustizia.
Famosa e bella è la risposta del padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Secondo il cuore di padre, bisognava far festa. Giustissimo.
Bastava, però, mandare almeno un biglietto di invito al figlio fedele, al lavoratore silenzioso, che stava a faticare onorando il genitore e impinguando il patrimonio paterno. Non dico di mandargli un capretto per controbilanciare il vitello grasso, questo è troppo; ma un biglietto piccolo piccolo, questo sì!

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Prof. Giuseppe Pezzino

2023-12-15 10:28

All’antivigilia di Natale, nel capolavoro di Eduardo De Filippo, l’anziano Luca Cupiello si dedica con eroica ostinazione alla composizione del presepio...

LIBERTÀ E LIBERAZIONE
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Prof. Giuseppe Pezzino

2023-10-26 08:31

Un giorno il mio vecchio amico Iacopo – tra il provocatorio, l’ingenuo e il malizioso – mi scrisse: «Ciao Prof. ti va di celebrare il 25 aprile? [...]»

Invidia

Invidia

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-19 14:35

Mi han sempre detto che una mela al giorno toglie il medico di torno. Però ieri, sbocconcellando lentamente una golden, mi sono ricordato che in latin

A proposito di speranza

A proposito di speranza

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-19 14:32

A conclusione di ogni anno, mi torna in mente il leopardiano Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere.Così, puntualmente, io cammino in

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Quinta ed ultima parte)

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Quinta ed ultima parte)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 09:41

Ma torniamo al re che, il 1° giugno 1940, a dieci giorni dalla nostra entrata in guerra, appare a Ciano rassegnato, ma non disperato. Egli, infatti, m

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte IV)

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte IV)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 09:38

Il 3 maggio 1938, Hitler e i vertici del Terzo Reich (il delfino di Hitler, Rudolf Hess; il numero due del nazismo, Hermann Göring; il ministro degli

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte III)

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte III)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 09:37

In un primo momento sembra, si spera, che il delitto Matteotti possa travolgere il governo Mussolini. Ma storicamente dobbiamo prendere atto che è una

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte II)

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte II)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 09:33

Dopo anni di guerra, dopo la vittoria del 1918, si aspettava la pace. Si vagheggiava un avvenire di ricostruzione e di concordia nazionale. E invece V

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte I)

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte I)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 09:32

«Viviamo proprio in un bel porco mondo», disse amareggiato il vecchio re Vittorio Emanuele III al suo aiutante di campo. Era il 23 dicembre 1947, a du

OGGI, 25 LUGLIO 2020

OGGI, 25 LUGLIO 2020

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 09:31

Oggi, 25 luglio 2020, ore 16, 30, mentre mi vado collassando nella mia stanza senza condizionatore né ventilatore, penso a Mussolini nel fatidico 25 l

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte III) BENEDETTO CROCE: PIETRA DELLO SCANDALO

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte III) BENEDETTO CROCE: PIETRA DELLO SCANDALO

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 09:30

Con la scomparsa di Giovanni Gentile, il 15 aprile 1944, e di Benito Mussolini, il 28 aprile 1945, potrebbe sembrare che Benedetto Croce, avendo perdu

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte II) LA MACELLERIA MESSICANA

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte II) LA MACELLERIA MESSICANA

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 09:29

Dopo la significativa presenza di Giovanni Gentile al ministero dell’Istruzione (dal 1922 al 1924), ovvero dopo la Riforma Gentile realizzata in due a

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte I)

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte I)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-16 11:37

Con finta ingenuità mi chiedi perché mai io ricorra all’espressione “Manicomio Italia”, quando debbo affrontare seriamente le questioni del nostro «be

Il Male di vivere

Il Male di vivere

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-16 11:36

Oggi tu mi chiedi – con malcelata ironia – dove sia finito l’uomo prometeico che sfidava gli dèi, l’uomo sicuro di sé, della sua scienza e della sua t

VANITAS

VANITAS

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-16 11:35

Hai ragione da vendere, cara Myriam, nel lamentare la forzata separazione sociale in questi dolorosi e interminabili giorni di emergenza planetaria. Q

VECCHIO, DIRANNO CHE SEI VECCHIO

VECCHIO, DIRANNO CHE SEI VECCHIO

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-16 11:34

Ieri eravamo quattro amici al bar, e mi han detto che un noto comico prestato alla politica aveva partorito non già una barzelletta, bensì una bella p

DOLCETTO O SCHERZETTO

DOLCETTO O SCHERZETTO

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-02 11:32

Fanno tenerezza queste generazioni evergreen, che giocano a santificare e adorare la zucca vuota. Per loro fortuna, non hanno conosciuto la morte nell

AAA CERCASI MAESTRO

AAA CERCASI MAESTRO

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-02 11:30

Bisogna ammetterlo, caro Marco. Magari con tristezza, però bisogna ammetterlo: siamo nelle mani (ben curate) della influencer Chiara Ferragni. Siamo q

ELOGIO DI DON ABBONDIO

ELOGIO DI DON ABBONDIO

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-02 11:25

E sissignore! Don Abbondio non è nato con un cuor di leone. E con ciò? Qual è il problema? Di grazia, si facciano avanti tutti quei "cuor di leone" ch