Il 19 marzo è la “Festa del papà”. Se qualche volenteroso incosciente si mettesse a scavare nella montagna di regali, di cioccolatini, cuscini, portachiavi, dopobarba, cravatte, liquori ecc., potrebbe rischiare di trovare uno strano “reperto archeologico”: san Giuseppe.
Perché un “reperto archeologico”? Ma perché, nella dominante religione del consumismo, dell’usa e getta, del vuoto e del fatuo, non c’è posto per un vecchio con la barba e con gli attrezzi da falegname. Ci mancherebbe! Non sarebbe trendy.
E poi – diciamocelo chiaramente – in mezzo a tanti Kevin, Sean e Brad, quel nome “Giuseppe” puzza di muffa, sa di stantìo, di démodé, e quasi quasi crea imbarazzo in chi è costretto a nominarlo.
E la vogliamo dire tutta? In questo supermercato dei social, del virtuale spacciato per reale, del cretino naturale che si traveste da intelligente artificiale, del ritocchino al seno o alle labbra come elisir d’eterna giovinezza, dell’influencer che spezza l’eucaristico pane della verità ai suoi follower, in tutto questo luna park, il povero san Giuseppe viene ridotto a una logora immaginetta, a un ingiallito santino.
E tuttavia debbo confessare che sempre ho portato e porto questo nome “Giuseppe” con molto rispetto e un pizzico di orgoglio. E non tanto perché questo è il nome di mio nonno e di mio nipote, quanto perché due personaggi benevolmente legati a Gesù si chiamavano “Giuseppe”, in ebraico Yosèf, che significa “Yahvè accresca”.
Il primo dei due personaggi, certamente il meno conosciuto, è Giuseppe di Arimatea, a cui sono attribuite le cure funebri di Gesù. In effetti, nel contesto della passione e morte di Gesù, Giuseppe di Arimatea è menzionato nei quattro vangeli. Uomo ricco[1] e membro illustre del sinedrio[2], egli aveva un sepolcro nuovo scavato nella roccia, nei pressi di Gerusalemme. Giuseppe era discepolo di Gesù, però teneva nascosto questo legame per timore delle autorità ebraiche[3].
Una volta morto Gesù in croce, Giuseppe di Arimatea ebbe il coraggio di presentarsi a Ponzio Pilato per chiedere il permesso di dare sepoltura al corpo di Gesù. La cosa non era facile, anzi era pressoché impossibile sia per la severità della legge romana sia per l’ostilità del sinedrio. Eppure il buon Giuseppe ottenne il permesso: staccò dalla croce il corpo di Gesù, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose nel sepolcro di sua proprietà[4].
Il secondo personaggio, di gran lunga più importante, è Giuseppe di Nazaret, il “padre putativo” di Gesù. Di questa figura di uomo buono e giusto possiamo cogliere alcuni tratti nel Martirologio Romano, dove si legge: «San Giuseppe, sposo della beata Vergine Maria: uomo giusto, nato dalla stirpe di Davide, fece da padre al Figlio di Dio Gesù Cristo, che volle essere chiamato figlio di Giuseppe ed essergli sottomesso come un figlio al padre».
Ma, volendo rendere pieno merito a Giuseppe di Nazaret, bisogna fare un passo indietro nel tempo, per considerare il Giuseppe sposo di Maria (Ioseph sponsus Mariæ). Insomma, costui non nacque vecchio. Fu giovane, fu uomo vigoroso, e amò pienamente e sinceramente la giovane Maria. L’amò a tal punto che, disorientato e turbato per la gravidanza di Maria, decise di ripudiarla in segreto per non esporla all’accusa di adulterio e quindi alla morte per lapidazione[5].
Il dramma di Giuseppe non è da sottovalutare. Egli amava ancora Maria, ma proprio per questo cercava disperatamente una risposta all’inquietante interrogativo sulla gravidanza di lei e, nel contempo, cercava una via d’uscita per non esporla alla vergogna e alla lapidazione.
Mentre Giuseppe si arrovellava affannosamente su questo drammatico evento, «ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”»[6].
Destatosi dal sonno, Giuseppe – buono e fedele servo di Dio – fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa. Da quel momento, egli amò sia Maria sia il bambino, che lei portava in grembo. Anzi, per meglio dire, nella persona di Maria incinta egli amò il “tempio divino” che racchiudeva il divino bambino. E fu tenero marito e premuroso padre.
Sicché noi troviamo Giuseppe accanto a Maria in attesa di Gesù in viaggio verso Betlemme, poi durante il parto, e poi assieme a lei accanto al bambino deposto in una mangiatoia alla venuta dei pastori.
A questo punto Giuseppe non è soltanto lo “sposo di Maria” (sponsus Mariæ); ora egli è anche il “custode del Redentore” (Redemptoris custos).
Infatti, dopo otto giorni dalla nascita di Gesù, secondo la legge di Mosè avvenne la circoncisione del bambino, a cui Giuseppe impose il nome Gesù in obbedienza al volere di Dio. Quaranta giorni dopo, Giuseppe e Maria portarono Gesù a Gerusalemme per la presentazione del neonato al tempio. Qui il vecchio Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, recitando il bellissimo Nunc dimittis servum tuum, Domine[7], predisse un futuro glorioso per il bambino, segno di contraddizione e gloria del popolo di Israele.
Tra l’altro, Giuseppe fu ancora affettuosamente vicino a Maria e al bambino, quando fuggirono in Egitto. E fu ancora attivamente presente quando, avendo Gesù compiuto dodici anni, tutta la famiglia si recò a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Qui Gesù “si perse”; e i genitori affannosamente lo cercarono. Dopo tre giorni di ricerche, lo trovarono nel tempio, mentre discuteva con i dottori:
«Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini»[8].
Da notare che, proprio in questa occasione, l’evangelista Luca pone in risalto la doppia valenza della parola “padre”. Per Maria, infatti, la parola “padre” riguardava Giuseppe («tuo padre e io ti cercavamo»); mentre per Gesù dodicenne la parola “padre” riguardava Dio («io devo occuparmi delle cose del Padre mio»).
Poi Giuseppe scomparve dalle pagine del Vangelo, quasi a testimoniare che la sua “missione” – quella di “custode” di Maria e del bambino – man mano aveva ceduto il posto alla ben più grande e universale “Missione” di Gesù Σωτήρ, Salvatore dell’umanità, di Gesù il Cristo [χριστός], l’unto dal Signore, il Messia [māšīaḥ, μεσσίας].
Nondimeno, resta intatto il valore del ruolo esercitato da Giuseppe nel disegno divino. Gesù, infatti, nacque e crebbe in una famiglia, sotto l’occhio vigile e amoroso di Giuseppe e di Maria. E spettò al padre iscrivere il bambino all’anagrafe, provvedere al rito della circoncisione, imporgli il nome, presentare il primogenito a Dio, proteggere il bambino e la madre nella fuga in Egitto. Fu ancora Giuseppe che introdusse Gesù nella terra di Israele; fu Giuseppe che provvide a mantenerlo, a educarlo, a farlo crescere, vestendolo e dandogli da mangiare.
E quando la Chiesa aveva a cuore la difesa delle famiglie, sorsero voci autorevolissime a sottolineare l’alto compito di Giuseppe di Nazaret. Fu così con papa Leone XIII che, in una Enciclica del 1889, affermò: «Egli [Giuseppe] tra tutti si impone nella sua augusta dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell'opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde conseguiva che il Verbo di Dio fosse sottomesso a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell’onore e quella riverenza che i figli debbono al loro padre»[9].
E fu così anche con papa Giovanni Paolo II che, nell’Esortazione Apostolica Redemptoris Custos, affermò che «il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. È per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe […] passa attraverso il matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia»[10].
Adesso, però, è giunta l’ora di parlare di un terzo Giuseppe, il figlio di Giacobbe, uno dei personaggi più affascinanti e complessi dell’Antico Testamento. La sua splendida storia è il più lungo racconto del libro della Genesi. Una storia che involge sia la dimensione personale di Giuseppe con le sue luci e le sue ombre, sia la dimensione familiare con le tormentate relazioni tra fratelli, sia la dimensione geopolitica col sorgere di un rapporto fra l’Egitto, che era una delle grandi potenze di allora, e un piccolo gruppo di Ebrei nomadi.
Giuseppe figlio di Giacobbe è talmente importante da essere tuttora considerato con rispetto e con interesse dalle tre più importanti religioni monoteistiche: l’ebraica, la cristiana e la musulmana.
Giuseppe era l’undicesimo figlio di Giacobbe. Questi gli voleva particolarmente bene, sia perché era il primo figlio avuto con Rachele – unico vero grande amore di Giacobbe –, sia perché avuto in età avanzata, quando alla severità del padre si associa la tenerezza del nonno, sia per l’indole molto buona di Giuseppe.
Perciò «i suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente»[11].
A diciassette anni, Giuseppe raccontò in famiglia due sogni che lasciavano presagire la sua futura grandezza, ma che ovviamente inasprirono ulteriormente il malanimo dei fratelli. Ecco il sogno dei covoni:
«“Ascoltate il sogno che ho fatto. Noi stavamo legando covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni si posero attorno e si prostrarono davanti al mio”. Gli dissero i suoi fratelli: “Vuoi forse regnare su di noi o ci vuoi dominare?”. Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole»[12].
Col secondo sogno, Giuseppe riuscì a provocare anche la reazione del padre Giacobbe:
«Egli fece ancora un altro sogno e lo narrò ai fratelli e disse: “Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me”. Lo narrò dunque al padre e ai fratelli. Ma il padre lo rimproverò e gli disse: “Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io, tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?”. I suoi fratelli perciò divennero invidiosi di lui, mentre il padre tenne per sé la cosa»[13].
Prima di proseguire nel racconto, diciamo subito che i cristiani hanno visto in Giuseppe una “figura” di Gesù, una figura messianica, ossia una rappresentazione simbolica di Gesù, o meglio ancora una allegoria che pre-figura o pre-annuncia la vita del Gesù Messia e Salvatore.
Come Dio Padre mandò il Figlio fra gli uomini, così Giacobbe mandò Giuseppe presso i fratelli che erano lontani a pascolare il gregge. E come gli uomini accolsero male Gesù, così i fratelli di Giuseppe, già a vederlo da lontano, cospirarono contro di lui e pensarono di eliminarlo.
Ma poi i fratelli di Giuseppe decisero di non peccare di fratricidio e quindi di gettarlo soltanto in un pozzo asciutto nel deserto:
«Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con le maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua»[14].
Ecco, in questo episodio, appare il simbolo della tunica: Giuseppe fu spogliato della tunica, come Gesù sarà spogliato della sua, che verrà assegnata a sorte ai soldati:
«I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”»[15].
E si realizzò così quello che era stato predetto nel Salmo 22: «Si dividono le mie vesti, sulla mia tunica tirano a sorte»[16].
Ad un certo punto, mentre i fratelli stavano a desinare e l’innocente Giuseppe giaceva in fondo alla cisterna vuota, apparve all’orizzonte una carovana di Ismailiti [Arabi] i quali, tra le tante merci, portavano la mirra e altri aromi.
Così, per venti sicli d’argento, i fratelli vendettero Giuseppe ai carovanieri ismaeliti, che lo portarono in Egitto. Come, per trenta monete d’argento, l’apostolo Giuda tradirà Gesù e lo venderà al sinedrio[17].
Orbene, oltre a questo parallelo fra il prezzo del tradimento dei fratelli di Giuseppe e il prezzo del tradimento di Giuda, intendiamo qui porre l’attenzione sulla presenza degli aromi (e della mirra in particolare) nella storia di Giuseppe e in quella di Gesù.
In mezzo alla merce di aromi, Giuseppe – come merce acquistata per venti sicli d’argento – fu portato e venduto dai carovanieri in Egitto[18]. E poi, quando Giuseppe sarà al culmine della potenza come viceré dell’Egitto, saranno i fratelli a rendergli omaggio con doni di aromi[19].
D’altra parte, un omaggio di aromi renderanno a Gesù bambino i Magi, offrendogli l’incenso e la mirra, oltre all’oro: «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra»[20].
Ancora un parallelo: Giuseppe morì all’età di centodieci anni; il suo corpo fu imbalsamato e posto in un sarcofago in Egitto[21]. E se consideriamo che “imbalsamare” significa usare balsami e profumi, anche alla morte di Gesù si presenterà una simile situazione, quando Giuseppe di Arimatea e Nicodemo useranno circa trenta chili di una mistura di mirra e di àloe, per avvolgere il corpo di Gesù «con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura»[22].
Ma andiamo alla storia di Giuseppe, che è storia di sopportazione di fronte a forze avverse, storia di perdono fraterno, storia dell’intervento di Dio nelle vicende umane.
Il giovane Giuseppe, figlio di Giacobbe, fu portato in Egitto; e là venduto a Putifarre, un egiziano eunuco capo delle guardie del Faraone.
Da questo momento in poi lo scrittore biblico sottolinea in maniera martellante che il Signore, Dio, Yahvè era con Giuseppe. Ogni cosa riusciva bene al giovane figlio di Giacobbe, mentre abitava nella casa del suo padrone Putifarre; e tutto questo perché Yahvè era con Giuseppe: «Il Signore fu con Giuseppe: a lui tutto riusciva bene e rimase nella casa dell’Egiziano, suo padrone»[23].
Putifarre vide che Dio proteggeva il giovane ebreo, e quindi gli concesse piena fiducia e gli affidò il governo della casa: «Il suo padrone si accorse che il Signore era con lui e che il Signore faceva riuscire per mano sua quanto egli intraprendeva»[24].
Così, grazie alla saggezza e alla fedeltà di Giuseppe, la benedizione di Yahvè scese sulla casa dell’egiziano: «Il Signore benedisse la casa dell’Egiziano grazie a Giuseppe e la benedizione del Signore fu su quanto aveva, sia in casa sia nella campagna»[25].
Ma la fedeltà e l’onestà di Giuseppe furono anche causa di sue nuove sventure. Bisogna dire, a tal proposito, che il figlio di Giacobbe esercitava ormai un suo innegabile fascino su chi, uomo o donna, aveva modo di ammirare la sua saggezza, il suo bell’aspetto, la sua rettitudine, la sua eccellente capacità di conoscere e dirigere uomini e cose.
Purtroppo, fra tutte queste virtù di Giuseppe, la moglie di Putifarre rimase colpita soprattutto dal bell’aspetto [pulchra facie et decorus aspectu]. Dissoluta? Immorale? Forse. Di sicuro, però, la sventurata era moglie di un marito eunuco. E s’invaghì perdutamente di Giuseppe. D’altronde, allora (come oggi, come sempre) poteva essere facile procurarsi uno stallone, un palestrato; ma non era assolutamente facile imbattersi in un uomo di bell’aspetto, intelligente, leale ed abile nel districarsi nella vita pratica. Insomma, la sventurata merita un briciolo di comprensione nell’essersi abbandonata alla “insana passione” (si diceva così una volta!) per Giuseppe.
Costei lo tormentò varie volte. Sino a quando non gli propose esplicitamente di giacere con lei: «Un giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro, mentre non c’era alcuno dei domestici. Ella lo afferrò per la veste, dicendo: “Còricati con me!” [Dormi mecum]»[26].
Un netto rifiuto fu la risposta di Giuseppe, che fece appello ai suoi doveri verso Putifarre. Purtroppo, il buon Giuseppe non sapeva di cosa sia capace una donna innamorata, respinta e umiliata. Costei cercò vendetta, accusando Giuseppe di avere tentato di violentarla. E Giuseppe fece la fine che farà Ippolito alle prese con le voglie della matrigna Fedra, nella tragedia di Euripide. Tutti crederanno alla versione della donna.
Così Putifarre, sentita la versione della moglie, s’infuriò contro Giuseppe e lo gettò in prigione. Sembrava che tutto fosse crollato addosso al figlio di Giacobbe: ancora una volta, come quando era stato gettato in un pozzo dai fratelli, egli si trovò denudato di tutto e gettato in una orrenda prigione. Ma ancora una volta – sottolinea lo scrittore biblico – Yahvè fu con Giuseppe e lo aiutò a conquistare la fiducia e la stima del comandante del carcere, per cui il giovane si trovò a curare gli affari della prigione:
«Ma il Signore fu con Giuseppe, gli accordò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione. Così il comandante della prigione affidò a Giuseppe tutti i carcerati che erano nella prigione, e quanto c’era da fare là dentro lo faceva lui. Il comandante della prigione non si prendeva più cura di nulla di quanto era affidato a Giuseppe, perché il Signore era con lui e il Signore dava successo a tutto quanto egli faceva [Dominus enim erat cum illo et omnia opera eius dirigebat]»[27].
Nella stessa prigione capitarono il panettiere e il coppiere del Faraone. Avendo fatto entrambi un misterioso sogno, fecero ricorso a Giuseppe, la cui interpretazione si avverò: il coppiere fu graziato e reintegrato, mentre il panettiere fu impiccato.
Giuseppe, pur essendo innocente, restò in prigione per ben due anni; finché una notte il Faraone ebbe due sogni: quello delle sette vacche magre e delle sette vacche grasse; e quello delle sette spighe piene e delle sette spighe vuote:
«Due anni dopo, il faraone sognò di trovarsi presso il Nilo. Ed ecco, salirono dal Nilo sette vacche, belle di aspetto e grasse, e si misero a pascolare tra i giunchi. Ed ecco, dopo quelle, salirono dal Nilo altre sette vacche, brutte di aspetto e magre, e si fermarono accanto alle prime vacche sulla riva del Nilo. Le vacche brutte di aspetto e magre divorarono le sette vacche belle di aspetto e grasse. E il faraone si svegliò. Poi si addormentò e sognò una seconda volta: ecco, sette spighe spuntavano da un unico stelo, grosse e belle. Ma, dopo quelle, ecco spuntare altre sette spighe vuote e arse dal vento d’oriente. Le spighe vuote inghiottirono le sette spighe grosse e piene. Il faraone si svegliò: era stato un sogno»[28].
Interrogati invano tutti i maghi del regno, alla fine fu chiamato Giuseppe, il quale diede la sua spiegazione:
«Allora Giuseppe disse al faraone: “Il sogno del faraone è uno solo: Dio ha indicato al faraone quello che sta per fare. Le sette vacche belle rappresentano sette anni e le sette spighe belle rappresentano sette anni: si tratta di un unico sogno. Le sette vacche magre e brutte, che salgono dopo quelle, rappresentano sette anni e le sette spighe vuote, arse dal vento d’oriente, rappresentano sette anni: verranno sette anni di carestia. È appunto quel che ho detto al faraone: Dio ha manifestato al faraone quanto sta per fare. Ecco, stanno per venire sette anni in cui ci sarà grande abbondanza in tutta la terra d’Egitto. A questi succederanno sette anni di carestia; si dimenticherà tutta quell’abbondanza nella terra d’Egitto e la carestia consumerà la terra. Non vi sarà più alcuna traccia dell’abbondanza che vi era stata nella terra, a causa della carestia successiva, perché sarà molto dura”»[29].
Giuseppe aveva la meravigliosa capacità di interpretare i sogni. Ma era forse un indovino, un mago? Assolutamente no. Giuseppe era molto di più. Giuseppe possedeva la rara capacità di “vedere” dove gli altri non vedono, la capacità di vedere oltre la siepe, oltre l’orizzonte dell’uomo comune. Egli, dunque, non solo era “preveggente”, cioè dotato di lungimiranza, ma era anche “previdente”, nel senso che provvedeva in tempo a rifornirsi dell’occorrente per non subire i danni previsti. E queste sue meravigliose doti Giuseppe le manifestò al cospetto del Faraone, esponendo questi suoi saggi consigli:
«Il faraone pensi a trovare un uomo intelligente e saggio e lo metta a capo della terra d’Egitto. Il faraone inoltre proceda a istituire commissari sul territorio, per prelevare un quinto sui prodotti della terra d’Egitto durante i sette anni di abbondanza. Essi raccoglieranno tutti i viveri di queste annate buone che stanno per venire, ammasseranno il grano sotto l’autorità del faraone e lo terranno in deposito nelle città. Questi viveri serviranno di riserva al paese per i sette anni di carestia che verranno nella terra d’Egitto; così il paese non sarà distrutto dalla carestia»[30].
La proposta piacque al Faraone, che disse a Giuseppe: «Dal momento che Dio ti ha manifestato tutto questo, non c'è nessuno intelligente e saggio come te. Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo: solo per il trono io sarò più grande di te»[31].
Giuseppe, un misero ebreo (è bene non dimenticarlo!), aveva circa trent’anni, quando divenne – dopo il Faraone – l’uomo più potente del potente Egitto. La cosa sarebbe stata quasi impossibile per un egiziano; sicuramente miracolosa per un ebreo!
E sorge ancora un parallelo: Giuseppe, il figlio di Giacobbe, aveva trent’anni, quando iniziò a governare l’Egitto. Gesù, il Figlio di Dio, aveva circa trent’anni, quando iniziò il suo ministero pubblico, a partire dal suo battesimo nel Giordano ad opera di Giovanni Battista[32].
Durante i sette anni di abbondanza, Giuseppe visitò tutte le provincie d’Egitto e fece grandi provviste di grano. Nel frattempo, dal matrimonio con l’egiziana Asenat (figlia del sacerdote di On) Giuseppe ebbe due figli: il primogenito Manasse e il secondo Efraim.
Venne poi la carestia, che stese il suo nero mantello di fame e di morte non solo su tutto l’Egitto ma anche sui territori limitrofi. Col prolungarsi della carestia, il popolo cominciò a sentire i morsi della fame e prese a tumultuare per le strade sino alla reggia del Faraone.
A quel punto, «il faraone disse a tutti gli Egiziani: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà” [Ite ad Ioseph et, quidquid vobis dixerit, facite]»[33].
Andate da Giuseppe! E il previdente Giuseppe aprì tutti i depositi di grano, per la distribuzione e il razionamento.
Spinti dalla fame, vennero da Canaan in Egitto anche i fratelli di Giuseppe, i quali però non lo riconobbero. Li riconobbe Giuseppe, che però pensò bene di non rivelare la propria identità. Anzi volle metterli alla prova, quasi trattandoli da spie e ladri, e costringendoli a tornare una seconda volta. Alla fine, riconoscendo che essi si erano emendati dall’odio e dalla malvagità, si fece conoscere. E tutti li abbracciò col bacio dell’amore fraterno e del perdono:
«Allora Giuseppe non poté più trattenersi dinanzi a tutti i circostanti e gridò: “Fate uscire tutti dalla mia presenza!”. Così non restò nessun altro presso di lui, mentre Giuseppe si faceva conoscere dai suoi fratelli. E proruppe in un grido di pianto […]. Giuseppe disse ai fratelli: “Io sono Giuseppe! [Ego sum Ioseph!] È ancora vivo mio padre?”. Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli, perché sconvolti dalla sua presenza. Allora Giuseppe disse ai fratelli: “Avvicinatevi a me!”. Si avvicinarono e disse loro: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita […]. Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio. Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il territorio d’Egitto»[34].
Dopo aver perdonato i fratelli, il pensiero di Giuseppe andò al suo vecchio padre Giacobbe. Bisognava far venire in Egitto anche lui con tutti i figli dei figli, perché i figli di Israele sarebbero stati ospiti graditissimi in terra d’Egitto:
«Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: “Così dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto. Vieni quaggiù presso di me senza tardare. Abiterai nella terra di Gosen e starai vicino a me tu con i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, le tue greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi. Là io provvederò al tuo sostentamento, poiché la carestia durerà ancora cinque anni, e non cadrai nell'indigenza tu, la tua famiglia e quanto possiedi”. Ed ecco, i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniamino: è la mia bocca che vi parla! Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto avete visto; affrettatevi a condurre quaggiù mio padre”. Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui»[35].
Difatti, Giacobbe venne esultante in Egitto con tutti i suoi; e Giuseppe ottenne dal Faraone che loro abitassero la terra di Gosen, la più fertile di tutto l’Egitto. Lì si ebbe il commovente incontro fra Giuseppe e suo padre Giacobbe [Israele]:
«Arrivarono quindi alla terra di Gosen. Allora Giuseppe fece attaccare il suo carro e salì incontro a Israele [Giacobbe], suo padre, in Gosen. Appena se lo vide davanti, gli si gettò al collo e pianse a lungo, stretto al suo collo. Israele [Giacobbe] disse a Giuseppe: “Posso anche morire, questa volta, dopo aver visto la tua faccia, perché sei ancora vivo”»[36].
Grazie a Giuseppe, l’Egitto fu un paradiso per gli Ebrei. Dopo la morte di Giuseppe, l’Egitto sarà un inferno.
E la figura di Giuseppe giganteggia come trait d’union tra il libro della Genesi e il libro dell’Esodo.
Spesso mi son chiesto perché le Chiese cristiane non considerano Giuseppe come il quarto patriarca dopo Abramo, Isacco e Giacobbe. E la risposta si può trovare nell’episodio del roveto ardente, quando Yahvè disse a Mosè: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe»[37]. Qui spicca, infatti, l’assenza di Giuseppe nell’elenco dei patriarchi.
Ma poi ho trovato un’altra risposta, che consiste nella “diversità” di Giuseppe rispetto ai tre patriarchi precedenti.
Insomma, egli è l’archetipo dell’eroe atipico del Vecchio Testamento. E quando dico “atipico”, non intendo dire “irregolare”, bensì “originale”.
Ad esempio, Yahvè non parla mai con Giuseppe – come invece aveva fatto con Adamo, con Noè, con Abramo, con Isacco, con Giacobbe, e come farà con Mosè – l’Onnipotente Yahvè non si fa avanti per ordinargli cosa fare o per minacciare castighi e punizioni.
Però Yahvè gli è sempre vicino, lo protegge, lo sorregge.
Se poi consideriamo quella sorta di legge dello scavalcamento della primogenitura, per cui il fratello minore supera il fratello maggiore, ci accorgiamo che Giuseppe rispetta questa “legge”, ma in modo diverso, in modo originale.
Ad esempio, suo padre Giacobbe sottrasse la primogenitura al fratello maggiore Esaù ricorrendo alla menzogna e all’inganno. Giuseppe, invece, era superiore a tutti i suoi fratelli per motivi squisitamente oggettivi, non certo per furbizia o volontà malvagia. Egli, infatti, penultimo figlio di Giacobbe, superò tutti i fratelli per le sue qualità altamente positive e per il favore accordatogli da Yahvè.
Giuseppe – a differenza dei suoi fratelli, che non riuscivano a vedere al di là di una pecora – vedeva in profondità, leggendo il significato vero e profondo dei sogni, e in lontananza, superando la siepe della realtà empirica e scoprendo nuove verità con intelligenza e preveggenza.
Tutto questo provocava l’invidia e l’odio dei fratelli. Ma tutto questo sorgeva soprattutto dal fatto che chi ti sta vicino sta nell’ordinario, e non può cogliere lo straordinario.
Insomma, agli occhi dei fratelli, Giuseppe era e doveva rimanere uno come loro, un buon pecoraio rispettoso della legge dei padri. Come d’altronde, per i vicini di Gesù, questi doveva rimanere semplicemente il figlio di Giuseppe, il figlio del falegname.
Nemo propheta in patria, nessuno è profeta nella propria patria, nella propria città, nella propria famiglia. Sicché Gesù ebbe a dire: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua»[38].
Insomma, chi resta nel bozzolo dell’ordinario non riesce a cogliere lo straordinario che esiste in chi emerge ed ha un sia pur minimo successo. «Che cosa ha in più di me?», si chiede sempre colui che guarda con invidia e rancore ai progressi che tu stai facendo. E tu devi farti perdonare ogni piccolo passo avanti, che fai con fatica, da chi non ha mai faticato.
Senza volere sciorinare esempi di invidia covata contro chi ha grandissimi successi in campo economico o politico; volendo invece restare solo ai casi dei piccoli successi, nessuno degli invidiosi si è mai chiesto a prezzo di quanti e quali sacrifici un individuo sia arrivato a salire un solo modesto gradino nella scala sociale o professionale.
Orbene, la colpa è di Giuseppe? No, la colpa è dei fratelli. Come la colpa non è di Gesù, bensì di coloro che non hanno occhi per vedere i meriti altrui.
E perciò è bene tener presente l’ammonimento di Gesù: «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, affinché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi»[39].
A tal proposito, qualcuno, volendo deprezzare il valore di chi raggiunge dei traguardi, ebbe a dire: “Nessuno è grande agli occhi del proprio cameriere”. Ed il filosofo Hegel rispose icasticamente e giustamente: “È vero. Ma non perché il grande non sia grande, bensì perché il cameriere è cameriere”[40].
Ma torniamo alla “atipicità”, alla “originalità” di Giuseppe figlio di Giacobbe. Senza dubbio la capacità di interpretare i sogni è un fatto eccezionale, ma non unico. Tant’è che il caso di Giuseppe può essere accostato, nella Bibbia, a quello di Daniele che spiega il sogno al re Nabucodònosor[41].
L’originalità di Giuseppe stava invece nella sua fondamentale “politicità”. La sua prudenza, la sua accortezza, la sua elasticità, avevano una matrice politica in senso alto e nobile. E quando sembrava che Giuseppe confliggesse con le tradizioni dei padri, a ben riflettere ci accorgiamo poi che il suo confliggere altro non era che la grande capacità politica di smussare gli spigoli delle posizioni troppo rigide, di guardare alla sostanza delle cose concrete e particolari, più che alla forma delle regole astratte e generali.
Ed anche in questo Giuseppe pre-figura Gesù. Quest’ultimo, infatti, non nega la Legge mosaica, ma la vuole portare a compimento. E in questa prospettiva Egli confligge con l’interpretazione astratta della regola del sabato:
«Allontanatosi di là, andò nella loro sinagoga; ed ecco un uomo che aveva una mano paralizzata. Per accusarlo, domandarono a Gesù: “È lecito guarire in giorno di sabato?”. Ed egli rispose loro: “Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora, un uomo vale ben più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene”. E disse all’uomo: “Tendi la tua mano”. Egli la tese e quella ritornò sana come l’altra»[42].
Giuseppe ragionava e agiva da “politico”, e quindi non si chiudeva in un sarcofago di usi e costumi intangibili. Egli, da politico assennato, si misurava con i fatti; e giudicava politicamente il caso per caso. Perciò riusciva a conquistare la fiducia di chi gli stava accanto. Anche la fiducia di un egiziano che, in quanto tale, era lontanissimo dal mondo religioso dei figli di Giacobbe? Sì, anche la fiducia di un egiziano; anzi del re degli Egiziani: il Faraone.
Ed egli – figlio prediletto di Giacobbe e protetto da Yahvè, il Dio di Israele – “sapeva vivere”, “ci sapeva fare”, stando in mezzo al popolo egiziano che era disprezzato dai suoi padri, e arrivando a sposare una egiziana, Asenat, figlia di un sacerdote di On.
E c’è qualcosa di più politico dell’organizzazione per fronteggiare la carestia? Durante gli anni dell’abbondanza, Giuseppe aveva ordinato a tutti di portare nei depositi il grano in eccesso. A tutti, ma non alla potentissima casta sacerdotale dell’Egitto, quella casta grassa e parassita che avrebbe potuto congiurare contro di lui e portarlo a morte.
Da questo punto di vista “politico”, c’è un episodio molto significativo: lo splendido banchetto di Giuseppe con i fratelli in Egitto. Qui si nota chiaramente come l’intelligenza politica di Giuseppe stia attenta a rispettare la mentalità, i princìpi e le usanze di due mondi contrapposti, quello egiziano e quello israelita:
«Fu servito per lui a parte, per loro [i fratelli] a parte e per i commensali egiziani a parte, perché gli Egiziani non possono prender cibo con gli Ebrei: ciò sarebbe per loro un abominio»[43].
Infine, l’originalità di Giuseppe si manifestava ampiamente nella sua concezione di Yahvè come Dio-Provvidenza. Infatti, quando i fratelli temevano che Giuseppe si sarebbe vendicato e li avrebbe puniti per il male che loro gli avevano arrecato, Giuseppe, che li aveva già perdonati, li rassicurò (Non temete, Nolite timere) parlando loro di Yahvè: «Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso»[44].
Qui, per il grande Giuseppe, Yahvè non è tanto il Dio severo legislatore e giudice dei suoi padri, ma il Dio-Provvidenza che, nei suoi inesplorabili disegni, trae il bene dal male compiuto dagli uomini, e consola l’innocente vittima della malvagità umana. È il Dio-Provvidenza che – dirà un giorno Vico – trasforma le traversìe in opportunità, le tribolazioni in occasioni di riscatto e di bene.
Qui, per Giuseppe che perdona ed ama i suoi fratelli, Yahvè è il Dio misericordioso, il Dio del perdono e dell’amore fraterno.
Giuseppe visse felicemente in Egitto e morì all’età di centodieci anni. Prima di morire disse ai suoi fratelli: «Dio verrà certo a visitarvi e allora voi porterete via di qui le mie ossa»[45]. E la volontà-profezia di Giuseppe avrà il suo compimento, quando Mosè condurrà gli Israeliti fuori dall’Egitto, portando con sé la cosa più preziosa: le ossa di Giuseppe[46].
[1] Matteo 27, 57.
[2] Marco 15, 43; e Luca 23, 50.
[3] Giovanni 19, 38.
[4] Giovanni 19, 38-42.
[5] «Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (Matteo 1, 18-19).
[6] Matteo 1, 20-21.
[7] «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (Luca 2, 29-32).
[8] Luca 2, 46-52.
[9] Leone XIII, Quamquam Pluries, 1889.
[10] Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica “Redemptoris Custos”, 15 agosto 1989, § 7.
[11] Genesi 37, 4.
[12] Genesi 37, 6-8.
[13] Genesi 37, 9-11.
[14] Genesi 37, 23-24.
[15] Giovanni 19, 23-24.
[16] Salmo 22, 19.
[17] «Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: “Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?”. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento» (Matteo 26, 14-15).
[18] Genesi 37, 28.
[19] Genesi 43, 25-26.
[20] Matteo 2, 11.
[21] Genesi 50, 26.
[22] Giovanni 19, 40.
[23] Genesi 39, 2.
[24] Genesi 39, 3.
[25] Genesi 39, 5.
[26] Genesi 39, 11-12.
[27] Genesi 39, 21-23.
[28] Genesi 41, 1-7.
[29] Genesi 41, 25-31.
[30] Genesi 41, 33-36.
[31] Genesi 41, 39-40.
[32] «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo […] Gesù, quando cominciò il suo ministero, aveva circa trent'anni» (Luca 3, 21-23). Sul battesimo di Gesù, vedi Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, p. 29 ss.
[33] Genesi 41, 55.
[34] Genesi 45, 1-8.
[35] Genesi 45, 9-15.
[36] Genesi 46, 28-30.
[37] Esodo 3, 6.
[38] Marco 6, 4. La stessa frase di Gesù è riportata anche in Matteo 13, 57; in Giovanni 4, 44; e in Luca 4, 24.
[39] «Nolite dare sanctum canibus neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne forte conculcent eas pedibus suis et conversi dirumpant vos» (Matteo 7, 6).
[40] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2001, p. 883. «Non c’è eroe per il suo cameriere e non perché quello non sia un eroe, ma perché questo è un cameriere. Con il suo cameriere l’eroe non ha a che fare come eroe, bensì come uomo che mangia, beve, si veste, cioè in generale nella singolarità del bisogno e della rappresentazione».
[41] Daniele 2, 27-45.
[42] Matteo 12, 9-13.
[43] Genesi 43, 32.
[44] Genesi 50, 20.
[45] Genesi 50, 25.
[46] «Mosè prese con sé le ossa di Giuseppe, perché questi aveva fatto prestare un solenne giuramento agli Israeliti, dicendo: “Dio, certo, verrà a visitarvi; voi allora vi porterete via le mie ossa”» (Esodo 13, 19).