L’altro giorno, a Catania, mi è capitato di percorrere a piedi via Francesco Crispi, nel tratto che lambisce “u Chianu ‘e malati”, ovverosia piazza Giovanni Bovio. Tornato a casa ho pensato, alquanto sconfortato, che ormai soltanto quattro catanesi sapranno dov’è “u Chianu ‘e malati”, e forse un po’ più di quattro sapranno chi era Giovanni Bovio.
Bovio, chi era costui? – si sarebbe chiesto don Abbondio. Diciamo che Giovanni Bovio fu professore di Filosofia del diritto all’Università di Napoli nella seconda metà dell’Ottocento e fu anche deputato del Regno d’Italia nello schieramento repubblicano.
Per dirla tutta, debbo aggiungere che io, da modesto melomane, conosco Giovanni Bovio soprattutto perché fu il padre del grande Libero Bovio, uno degli artefici (assieme a E. A. Mario, Ernesto Murolo, Ferdinando Russo e Salvatore Di Giacomo) dell’epoca d’oro della canzone classica napoletana. Un’epoca tra Ottocento e Novecento, che vide fiorire a Napoli un’illustre schiera di poeti, parolieri e musicisti, i quali lasciarono una preziosa eredità a tenori del calibro di Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Giuseppe Di Stefano, Tito Schipa, Placido Domingo, José Carreras e Luciano Pavarotti. Chi, infatti, non ha mai gustato una canzone napoletana classica, eseguita da uno di questi tenori?
E c’è bisogno di ricordare che persino il “vate” Gabriele D’Annunzio – vissuto a Napoli negli anni 1891-1893 – ebbe modo di accostarsi alla canzone napoletana e all’ambiente letterario partenopeo?
Siamo a Napoli nel 1892, seduti a un tavolino del famoso “Caffè Gambrinus”, luogo di ritrovo di tanti letterati e artisti, quando ad un tratto la nostra attenzione viene attirata dal parlare infervorato di due giovanissimi ed eleganti signori. Sono due poeti: uno è napoletano, ha 26 anni, e si chiama Ferdinando Russo; l’altro è pescarese, ha 29 anni, e si chiama Gabriele D’Annunzio.
Il primo, da napoletano purosangue, sostiene che solo un napoletano può e sa scrivere versi nella nobile lingua partenopea; il secondo, pur essendo abruzzese, sostiene la tesi opposta; e addirittura cita Benedetto Croce come esempio vivente di un “napoletano” nato in Abruzzo.
Nasce subito una vera e propria sfida, che D’Annunzio accetta volentieri. Si dà il caso che davanti al “Caffè Gambrinus” passi una giovane signora che non lascia indifferenti per la sua eleganza e per la sua bellezza. È la scintilla che accende l’ispirazione poetica “napoletana” del pescarese D’Annunzio. Da qui i celebri versi dannunziani 'A vucchella [La boccuccia], che poi saranno musicati dal maestro Francesco Paolo Tosti. E sarà un successo notevolissimo. Basti pensare che il grande tenore Enrico Caruso fece conoscere 'A vucchella in tutto il mondo, per non citare tutti gli altri tenori che la collocheranno nel loro repertorio.
Questo per dire che – nell’epoca d’oro della canzone napoletana, tra fine Ottocento e la prima metà del Novecento – si può ben parlare di vera e propria poesia nella canzone napoletana. Ovviamente bisogna saggiamente considerare che anche in quel periodo non tutta la produzione “canzonettistica” coincideva con la poesia, come d’altronde nel Trecento non tutti poetavano come Dante o come Petrarca.
Posta questa opportuna premessa, sorge la questione se la poesia dialettale napoletana sia veramente arte e se, in caso affermativo, sia arte di secondo livello nell’Olimpo della poesia.
Al primo quesito hanno risposto affermativamente schiere di critici e di studiosi. Per il secondo quesito, ovvero se la poesia dialettale sia arte di secondo livello, bisogna affermare che nella sfera dell’arte non esiste una poesia superiore e una poesia inferiore, per il semplice fatto che la poesia (qualunque poesia) o è poesia o non è poesia, giacché essa ha come categoria di giudizio e come valore il Bello in opposizione al disvalore Brutto. Insomma, nel giudicare dei versi qualsiasi, bisogna bensì considerare se sono belli o brutti; e non già se sono espressi in latino o in italiano o in turco o in dialetto napoletano.
Ma, quando si ha vera poesia? Si può rispondere: quando un artista avverte un’autentica ispirazione, e con forza espressiva trasfigura liricamente una immagine (un fatto, un incontro, un ricordo, un oggetto, ecc.) in un’autentica poesia, che è sintesi e compenetrazione di immagine e di suono (lingua). E, beninteso, questa sintesi di immagine e di lingua costituisce una unità inscindibile nell’atto del poetare.
Però tu mi dici che in quei versi dialettali qualcosa non va, qualcosa suona male, qualcosa stride? Bene! Allora quei versi in dialetto non sono opera d’arte, non sono poesia, sono versi brutti. E la colpa non è del dialetto, ma di un difetto di ispirazione e di espressione, e quindi di mancanza di bellezza estetica.
Ciò comporta, come indicherà magistralmente Benedetto Croce nel 1903, l’eliminazione del vecchio pregiudizio che gravava sulla poesia dialettale, considerata di secondo livello sol perché dialettale[1].
Una prova che alcune canzoni dell’epoca d’oro della canzone napoletana toccarono le vette della poesia? Si vada a vedere che fior di artisti, di intellettuali, di giornalisti ecc., abbiamo fra gli autori di canzoni napoletane. Basta per tutti un nome: Salvatore Di Giacomo, che il Croce collocò fra i maggiori poeti italiani ed europei.
Al Di Giacomo autore di fama mondiale di celebri canzoni napoletane si associa il Di Giacomo poeta di respiro europeo. E se non bastasse il giudizio di Benedetto Croce, rimandiamo alla monografia del 1908 di Karl Vossler[2], agli scritti di Luigi Russo, fino a quelli di Francesco Flora che, nella sua Storia della letteratura italiana, destinò un posto di grande rilievo al poeta napoletano Salvatore Di Giacomo.
Ma torniamo a Libero Bovio, che ci donò preziose perle di canzoni napoletane come Tu ca nun chiagne, Reginella, Chiove, ‘O Paese d’o sole, Lacreme napulitane e la grandiosa Passione.
A tal proposito, mi preme andare al 1929, l’anno che vide i Patti Lateranensi tra l’Italia fascista e la Santa Sede; vide Stalin proporre la cacciata di Trotsky dal Politburo; e soprattutto vide il crollo della Borsa di Wall Street e l’inizio della gravissima crisi economica mondiale.
Ebbene, in quell’anno così carico di storia, Libero Bovio – se è lecito paragonare le cose piccole alle grandi [si parva licet componere magnis, cantava il poeta Virgilio] – scrisse i versi Zappatore, poi musicati da Ferdinando Albano.
Questa canzone fu lanciata per la prima volta dal “canzonettista” Gennaro Pasquariello, una celebrità che meritò il seguente lusinghiero giudizio del poeta Ferdinando Russo: «Dire che Gennaro Pasquariello è il maestro della canzonetta è troppo poco. Più che il maestro, lo si può chiamare l’ispiratore, l’animatore di questo genere d’arte, nel quale, non soltanto non teme rivali, ma non potrà avere continuatori. Lo imiteranno, e forse anche bene; però dovranno tutti prodigargli quell’ossequio che è merito dei sommi. Chi non può rassegnarsi ad accettare questo mio giudizio, non è un artista».
La figura un po’ tozza, il faccione da napoletano gaudente, una voce bellissima, Pasquariello è il dominatore delle scene della canzone napoletana. E l’accoppiata Gennaro Pasquariello-Zappatore fu garanzia di popolarità di quella canzone. Così, l’anno dopo, fu realizzata anche una “sceneggiata” che ebbe un successo talmente grande, da durare sino ai nostri giorni.
D’altronde, tantissime canzoni italiane o napoletane, pur non sfociando nella traduzione teatrale della sceneggiata, erano allora delle piccolissime “commedie”, in cui le strofe costituivano gli atti teatrali e dove i personaggi si muovevano attorno a un tema appassionante. Citiamo, ad esempio, qualche canzone di questo tipo: Reginella (1917); Vipera (1919); Balocchi e profumi (1928); Signorinella (1931); Signora Fortuna (1935).
Ma, che cos’è la “sceneggiata”? Per saperlo, anzi per capirlo, bisogna portarsi a Napoli, la città che è un immenso e bellissimo teatro, dove ogni palazzo signorile, ogni vicolo, ogni “vascio” offre lo scenario per mille e mille attori, i quali si inventano e creano il copione della vita. Che cos’è 'o vascio? È necessario saperlo.
‘O vascio, italianizzato “il basso”, indica una misera abitazione napoletana al piano terra che, affacciata direttamente sulla strada, è generalmente costituita da una sola stanza, che prende luce ed aria soltanto dall’ingresso. Ovviamente quest’unica stanza costituiva sia la camera da letto, sia la cucina, sia tutto. Quindi i membri di una famiglia (allora sempre numerosa) si ammassavano in quello spazio limitato. In tali condizioni, gran parte delle attività della famiglia si svolgeva sulla strada, davanti alla porta: stendere i panni, giocare, persino consumare il povero pasto su una sedia ['a seggia], che fungeva da “tavolo da pranzo”. Molto spesso 'o vascio era adibito ad attività commerciale dove la padrona di casa, dall’ingresso o dalla finestra, vendeva un po’ di tutto, dal ghiaccio alle sigarette di contrabbando.
All’albeggiare, i membri della famiglia sciamavano per le strade, “arrangiandosi”, ossia inventando un mezzo o un modo per guadagnare qualcosa. Inutile dire che “il basso” presentava una condizione malsana sia per la mancanza dei più elementari servizi igienici sia per la promiscuità di persone ammassate notte e giorno in una sola stanza.
Per avere un’idea, basta gustare la magnifica descrizione di un’insuperabile Titina De Filippo in “Filumena Marturano” di Edoardo:
«Avvoca', 'e ssapite chilli vascie... I bassi... A San Giuvanniello, a 'e Virgene, a Furcella, 'e Tribunale, 'o Pallunetto! Nire, affummecate... addò 'a stagione nun se rispira p' 'o calore pecché 'a gente è assaie, e 'a vvierno 'o friddo fa sbattere 'e diente... Addò nun ce sta luce manco a mieziuorno... Chin'e ggente! Addò è meglio 'o friddo c' 'o calore... Dint' a nu vascio 'e chille, 'o vico San Liborio, ce stev'io c' 'a famiglia mia. Quant'èramo? Na folla! Io 'a famiglia mia nun saccio che fine ha fatto. Nun 'o vvoglio sapé. Nun m' 'o rricordo! ... Sempe ch' 'e ffaccie avutate, sempe in urto ll'uno cu' ll'ato... Ce coricàvemo senza di': “Buonanotte!” Ce scetàvemo senza di': “Bongiorno!”».
A tal proposito bisogna aggiungere che nel 1949, in pieno dopoguerra, venne fuori una simpaticissima canzone napoletana (versi di E. A. Mario e musica di Mario Giuseppe Cardarola) intitolata ‘O vascio.
La canzone ci parla di un giovane napoletano innamorato di una bella vasciajola, ossia di una ragazza povera che abita in un vascio di un quartiere napoletano. L’amore, si sa, porta in paradiso e fa vedere fiori anche dove ci son solo pietre. E Sthendal ci insegnò che l’innamoramento trasforma un povero ramoscello secco e pieno di sale, nelle miniere di Salisburgo, in un verde ramoscello tempestato di brillanti. Così, agli occhi del giovane innamorato, ‘o vascio si trasforma nella migliore reggia, dove vive la bellissima principessa, figlia di un re masterascio [mastro d’ascia, falegname] e di una regina ‘mpagliasegge [impagliatrice di sedie]:
No, ‘stu vascio
nun è vascio,
è ‘na reggia. È ‘a meglia reggia.
E sissignore, ‘o pate è masterascio.
E sissignore, ‘a mamma è ‘mpagliasegge
Orbene, tornando al cuore del nostro tema, diciamo che la sceneggiata napoletana è uno spettacolo teatrale popolare, parlato e cantato, che si ispira a una determinata canzone.
Bisogna dire, però, che in questo contesto storico-culturale lo Zappatore rappresenta una sorta di “eccezione” non solo rispetto ai temi tipici della sceneggiata (l’amore, l’onore, la gelosia, il tradimento, la malavita, ecc.), ma anche rispetto al classico “trìpode” dei protagonisti [isso (lui), essa (lei) e 'o malamente (il cattivo)].
Infatti, nel caso dello Zappatore, si ha un solo «protagonista» (il contadino) che, incontrastato, si rivolge all’«antagonista» (il figlio avvocato, che sta sempre nell’ombra e nel silenzio) e al «coro muto» degli orchestrali e dei partecipanti al ballo.
A tal riguardo, cominciamo col sottolineare che il protagonista non appartiene ad alcun ceto cittadino partenopeo, men che meno a quel basso ceto che talora scivola nel sottoproletariato urbano, ora volgare, ora cinico, ora fatalista, che avrebbe meritato la sprezzante qualifica di “canaglia” [la canaille] da parte di un Voltaire o di un Marx.
Il protagonista, infatti, è ben diverso. Egli vive e lavora nelle campagne napoletane, ma non è un piccolo proprietario, è soltanto un “proletario” della terra; insomma un “cafone”, anzi nu cafone 'e fora, come avrebbe detto l’abate Galiani.
Questo protagonista, che giganteggia per tutta la vicenda sia sul piano teatrale sia su quello morale, è un modesto lavoratore [fatecatore, faticatore] che, fra indicibili stenti e miseri risparmi, faticando e sudando giorno e notte, togliendosi il pane di bocca, riesce a fare studiare il proprio figlio sino a farlo diventare avvocato.
E qui appare inesorabile la dea Ingratitudine: il figlio avvocato, una volta trapiantato in città, una volta raggiunto il successo professionale, economico e sociale, non solo calpesta il debito di gratitudine verso i genitori, ma anzi li trascura sino al punto di non cercarli più neppure con una lettera.
Ma alziamo il sipario e facciamo entrare l’anziano protagonista:
Felicissima sera
A tutte 'sti signure 'ncruvattate
E a chesta cummitiva accussì allera
D'uommene scicche e ffemmene pittate!
Una sera, mentre nella casa di un affermato avvocato si fa festa, si balla e si sfoggia eleganza, irrompe un povero contadino. La sua età porta i segni del tempo e del lavoro duro e faticoso, ma il portamento non è affatto dimesso, bensì semplice e dignitoso, con quella solennità che è dato trovare nel contadino meridionale.
Il suo saluto amaro, “Felicissima sera”, non è rivolto singolarmente e direttamente al figlio ingrato, ma a tutta l’allegra e spensierata comitiva [cummitiva] composta da uomini eleganti e donne truccate [uommene scicche e ffemmene pittate]. Il figlio sta in mezzo al gruppo, ma non fiata, non si fa avanti, perché rimane sorpreso e vigliaccamente paralizzato. Ma anche per il cuore del padre, il figlio avvocato è soltanto un anonimo pezzetto di folla festante.
Perciò, senza esitazione, il contadino procede lentamente con una certa aria di sfida: il suo occhio tiene spietatamente sotto mira lo spettacolo del ballo. Lo sguardo serio e severo mette a fuoco quella fiera della vanità, quel tripudio di allegria [alleria], che offende il dolore e la miseria di tanti esseri umani.
E qui sorge il confronto-conflitto fra i signori in frac [fracchesciasse] e il contadino che invece indossa un mantelluccio di panno grezzo e ruvido. Da questo punto di vista, spicca un altro confronto: mentre i signori sono venuti in carrozza, lui è giunto a piedi sino a Napoli, e poi ha raggiunto la casa del figlio, pagando un posto su un carro pubblico con panche di legno [ô sciarabballo[3]].
Ma, si sta ballando? Nessun problema – dice il contadino –, senza chiedere il permesso ballo pure io [senza cercà 'o permesso, abballo i' pure].
Chesta è 'na festa 'e ballo!
Tutte cu 'e fracchesciasse 'sti signure
E i', ca sò sciso 'a copp' ô sciarabballo,
Senza cercà 'o permesso, abballo i' pure.
Di fronte allo stupore degli invitati che ancora osservano questo sconosciuto pezzente, il contadino, indossata la maschera del sarcasmo, finge spavalderia e insolenza: – Chi sono? sono uno che ha aperto la porta ed è entrato. Non ho altro da aggiungere; non ho alcunché da spiegare.
Chi sò?
Che ve ne 'mporta!
Aggio araputa 'a porta
E sò trasuto ccà.
E poi, prendendo forza e incoraggiando gli altri a suonare e a ballare, il contadino finge di essere pronto a partecipare alla festa di ballo:
Musica, musicante!
Fatevi mordo onore!
Stasera 'mmiez'a 'st'uommene aligante
Abballa un contadino zappatore.
Stupefatti e sconcertati, ammutoliti e incuriositi, i festeggianti si vanno chiedendo fra di loro chi sia mai questo intruso, questo insolente cafone col fango negli scarponi, che puzza di stalla e che osa insozzare la casa di un noto e rispettato avvocato.
Ancora con tono di sfida, il contadino – sconosciuto agli altri, ma ben riconosciuto dal figlio – non rivela la sua identità e, rivolgendosi agli orchestrali che si erano fermati, li incita, con l’autorità del dominus, del padrone di casa, a riprendere a suonare, a farsi molto onore [fatevi mordo onore!] in quella particolare serata di ballo in cui, come vedremo, cozzano il dolore e la gioia, il lutto e la festa, la follia della morte e il folleggiare del ballo.
Qui continua il confronto-conflitto fra il rozzo contadino zappatore e quegli uomini eleganti [uommene aligante] che hanno smesso di ballare.
Poi d’un tratto il protagonista si rivolge al figlio. Ma – beninteso! – non lo chiama per nome. Sarcasticamente lo chiama “signore avvocato”, un po’ per non rivelare agli altri la propria identità di padre, e un po’ per umiliare il figlio, ossia per sottolineare la “distanza morale” e l’estraneità affettiva che intercorrono fra l’avvocato e il contadino, giacché l’avvocato non merita più di essere chiamato per nome, come si usa con un figlio.
Ora il ritmo si fa crescente; ora il contadino svergogna il figlio che si vergogna del padre: – Signore avvocato, dice il contadino, voi non avete alcun motivo di provare vergogna [scuorno] di me. Io sono orgoglioso della mia onestà, del mio essere un lavoratore povero, perché onesto, che possiede e che rispetta un suo codice d’onore.
Io, per farvi diventare un “signore”, non ho rubato, ma ho zappato e continuo a zappare notte e giorno! Invece voi, signore avvocato, dietro la maschera del galantuomo, dell’uomo per bene, dell’uomo che maneggia i codici e le leggi, voi avete rubato. Sì, proprio così, da ingrato avete rubato non solo il mio denaro, ma anche la vita mia e quella di vostra madre.
No, signore avvocato,
Sentite a mme, nun ve mettite scuorno
Io, pe' ve fà signore, aggio zappato
E stò zappanno ancora, notte e ghiuorno.
Già sono trascorsi due anni, due lunghi anni, che “vossignoria” non scrive e non manda neppure un rigo a casa mia. In verità, col suo ignobile silenzio verso i genitori, col suo disprezzo verso coloro che gli hanno dato la vita e gli hanno permesso di fare la bella vita, l’avvocato, che non scrive loro neppure un rigo, ha purtroppo scritto l’atto di morte dei genitori:
E sò dduje anne, dduje,
Ca nun scrive 'nu rigo â casa mia.
Si 'ossignuria se mette scuorno 'e nuje,
Pur'io mme metto scuorno 'e 'ossignuria!
A questo punto, parlando di vergogna [scuorno], s’innalza il livello del confronto-conflitto: l’avvocato si vergogna di suo padre contadino, povero e con i calli alle mani, impresentabile agli occhi di un mondo di signori ricchi di denaro? Ebbene, il contadino si vergogna di suo figlio ingrato, che ha abbandonato i genitori dopo essere stato allevato e “mantenuto”; si vergogna di suo figlio indegno di stare nel mondo dei lavoratori poveri di denaro, ma ricchi di morale, di onore e dignità.
Pian piano il contadino solleva il velo del mistero che copre la verità. Ora egli non è più un estraneo, un intruso, un insolente. Sappiano bene gli invitati – anzi questa “gente”, 'sta ggente, come sprezzantemente li definisce il contadino – che io sono un parente e, in quanto tale, rivendico i miei diritti.
Chi sò?
Dillo a 'sta ggente
Ca i' songo 'nu parente
Ca nun 'o può caccià!
Musica, musicante!
Ca è bella ll'alleria!
I' mò ve cerco scusa a tuttuquante
Si abballo e chiagno dint' â casa mia.
Ma, si sta ancora a perdere tempo? Tornate a suonare e a ballare! Ed ora chiedo scusa a tutti quanti voi, se io ballo e piango dentro la “mia” casa.
Ecco, il velo si solleva ancora un po’. Prima il contadino ha detto di essere un parente; ora, sottolineando l’assurda coesistenza degli opposti fra il ballare e il piangere [abballo e chiagno], proprio ora rivela, anzi proclama, che egli è il padrone di casa [dint' â casa mia].
A questo punto viene drammaticamente evocata la figura della madre morente, di una povera vecchia contadina, devastata da una vita di faticoso lavoro e dall’immenso dolore per la mancanza del figlio che, nel suo cuore di madre, rimane pur sempre il suo bambino, la sua creatura, la sua “gioia”. Sì, la sua “gioia”, come lo chiamava da piccolo e come continua a chiamarlo ora sul letto di morte.
Qui si fa fatica a vedere, nella figura della madre morente, solamente l’immagine cristiana della Mater dolorosa. Qui bisogna andare a ritroso sino alla tragedia greca, per cogliere il nero lutto di una madre, avvolta nel nero scialle contadino [arravugliata dint' ô scialle niro], di una madre che, pur divorata diuturnamente dal dolore, continua a sperare nel ritorno del figlio.
A sperare che egli torni, per prendersi l’unica cosa che lei non gli ha ancora dato: l’ultimo respiro [ll'urdemo suspiro].
Mamma toja se ne more.
'O ssaje ca mamma toja more e te chiamma?
Meglio si te 'mparave zappatore,
Ca 'o zappatore nun s' 'a scorda 'a mamma!
Te chiamma ancora "Gioja"
E, arravugliata dint' ô scialle niro,
Dice: "Mò torna, core 'e mamma soja,
Se vene a piglià ll'urdemo suspiro".
Mamma tua sta morendo [Mamma toja se ne more]. Notevole è l’uso della parola “mamma”, molto più tenera, più calda, più intima, più dolce, della parola “madre”. La sventurata sta combattendo con la morte. E resiste, perché ha il farmaco della speranza, perché spera di rivedere per l’ultima volta il figlio. Solo questo la tiene ancora in vita, una vita di stenti, di sacrifici, di totale e fedele donazione di sé a favore del marito e del figlio.
In quell’istante, di fronte al dolore della donna morente e alla turpe ingratitudine del figlio, il contadino viene travolto dalla pietà per la moglie e dallo sdegno per il freddo cinismo del figlio.
E allora le lacrime del contadino vengono sopraffatte da un’ira omerica, che va montando sempre più e che esplode in uno sfogo di rabbia e di risentimento, in uno sfogo che sa di rimpianto, di pentimento e di rimprovero: – Sarebbe stato meglio se io ti avessi insegnato a fare lo zappatore [Meglio si te 'mparave zappatore], perché lo zappatore non dimentica la mamma [ca 'o zappatore nun s' 'a scorda 'a mamma!].
Forse ha sbagliato il contadino a non tenere il figlio legato alla terra, a non farlo “faticare”[4], a non inchiodarlo a una zappa come a una croce? O forse ha fatto male a mangiare pane e fatica, a bere sudore e lacrime, per fare studiare un figlio cinico ed egoista? Forse. Però di sicuro c’è solo il fatto che 'o zappatore nun s' 'a scorda 'a mamma, che chi zappa la terra non dimentica la propria madre.
Siamo dunque caduti nell’abusata retorica dell’amore materno? O, peggio ancora, siamo forse di fronte al fenomeno del “mammismo”, ossia al fenomeno del figlio maschio che subisce il condizionamento protettivo della madre e per conseguenza vive sempre in una situazione di subordinazione affettiva verso costei? Forse. Ma, di grazia, se è esistito ed esiste il “mammismo”, con quale logica e con quale faccia si può sproloquiare che la nostra società, fin dai tempi di Adamo, è stata solo e sempre patriarcale?
Fuor di celia, noi riteniamo che, per il contadino, la “dimenticanza della madre” significhi soprattutto la “dimenticanza” della famiglia, delle proprie radici, del piccolo mondo contadino, che è tutto il mondo. In altri termini, qui si rimprovera al figlio un particolare atto del dimenticare, che è l’oblio dei propri veri interessi, delle proprie priorità, dei propri affetti.
E questo oblio significa pure alienazione di sé, della propria “natura” e del proprio mondo di valori contadini, che il figlio compie a favore del mondo cittadino, preferendo l’avere e l’apparire rispetto all’essere.
Da questo punto di vista, la “dimenticanza della madre” è una “colpa” in senso religioso perché, nella “religione” contadina, equivale a un atto di “empietà”, a un sacrilegio.
Pertanto non ci pare il caso di arricciare il naso, per mostrare disapprovazione e disgusto al solo leggere la parola “mamma”, perché un tempo – con buona pace dei rivoluzionari a tempo perso e a senso unico – nel mondo contadino si aveva generalmente rispetto, persino venerazione, da parte dei figli e del marito verso la figura della madre.
Frattanto, nella sceneggiata Zappatore siamo ormai al redde rationem. Ormai è giunta l’ora di far cadere la maschera, di sollevare tutto il velo che copre la verità:
Chi sò?
Vuje me guardate?
Sò 'o pate, i' songo 'o pate
E nun me pò caccià!
Finalmente, agli occhi degli astanti, si svela il volto angosciato e angosciante del contadino: – Sono il padre, io sono il padre [Sò 'o pate, i' songo 'o pate]. E tu non mi puoi cacciare!
A quale legge si appella il contadino, nel rivendicare il suo diritto a restare in quella casa e a non esserne cacciato? Non certo alla legge degli uomini, non certo al tribunale della società (il foro esterno), non certo al diritto, non certo alle “leggi scritte”, perché in tal caso il figlio avrebbe titolo e potere di cacciarlo.
Ma il contadino si appella alla legge morale, al tribunale della coscienza (forum conscientiæ), alla sfera interiore (il foro interno) di ogni singola persona, a quelle “leggi non scritte” (gli ἄγραπτα νόμιμα) che ancora oggi invoca Antigone contro Creonte, o Filumena Marturano contro Domenico Soriano.
E, secondo la legge morale, il nostro contadino afferma il suo diritto a restare in quella casa; ad essere dominus in quella casa, che è la “sua” casa, giacché l’avvocato ha potuto comprarla solo grazie ai sacrifici e al lavoro dei genitori.
Pertanto, bando agli indugi e ai sotterfugi. Diciamo chiaramente pane al pane e vino al vino. Riveliamolo agli invitati e, soprattutto, ricordiamolo all’ingrato figlio: – Sì, è vero, esclama il contadino, io sono un uomo di fatica ['nu fatecatore], non sono né uomo di studi, né un proprietario terriero, né un mantenuto parassita. Sì, è vero. Io sono un uomo povero; e zappo la terra notte e giorno, e mangio pane e pane [e magno pane e pane], pane senza companatico. Ma tutto questo, secondo la mia legge morale, mi fa onore e ti fa onore.
Proprio questa è l’inoppugnabile sentenza del tribunale della coscienza morale. E, forte di questa sentenza, il contadino, portando avanti le braccia ancora forti, ha l’autorità morale di ordinare al figlio di inginocchiarsi e baciare quelle mani piene di calli, che gli hanno permesso di diventare un facoltoso avvocato:
Sò 'nu fatecatore
E magno pane e pane!
Si zappo 'a terra, chesto te fa onore!
Addenocchiate e vasame 'sti mmane!
Qui cala il sipario sulla sceneggiata. Si sarà inginocchiato il figlio? Avrà chiesto perdono? Avrà baciato, e benedetto, e inondato di lacrime, quelle mani laboriose e martoriate dalla zappa? Questo non è dato saperlo. E, tutto sommato, non ci interessa.
Quello che pare evidente e indiscutibile è il fatto che il contadino zappatore emerge come un gigante di fronte a un figlio che è un nano, anzi un nulla. L’uno è un gigante di moralità nei confronti della famiglia e della società; l’altro è moralmente un nano, un ingrato, un egoista, che passa con indifferenza sopra il dolore e la fatica dei propri genitori.
Morale della favola? Francamente non mi interessa. E tuttavia mi sia concessa qualche postilla.
Riconosco che su determinate canzoni di allora (per cristiana pietà, non voglio parlare di certe canzoni di oggi!), e in particolare sul genere teatrale della “sceneggiata”, incombe il pericolo della retorica, l’assillo di raggiungere la popolarità ad ogni costo, anche a prezzi di svendita, anche a furia di pigiare su un certo tasto dell’emozionante e del commovente, che alla lunga suona vuoto e falso. Perciò vorrei che non mi si scambiasse per un fans di Mario Merola.
Ma, tutto ciò premesso e ammesso, debbo confessare che non accetto la liquidazione sommaria di questo genere di espressione artistica. In verità, mi lascia perplesso la vecchia e intramontabile critica che un tempo, con aria di spocchiosa superiorità, bocciò senza appello come “strappalacrime” ogni canzone, ogni rappresentazione teatrale, ogni film, che non rispettasse i parametri del serioso, dello snobismo intellettuale, del freddo e rigido razionalismo, dell’aristocrazia rivoluzionaria a parole.
E fu una carneficina indiscriminata. Fu una condanna sommaria e senza appello, senza distinguere le autentiche emozioni dalle finte lacrime, i sentimenti del popolo dalla vuota retorica.
Oggi, in mezzo a tanta gente che per tutta la vita sta a cercare la felicità senza avere il tempo per lavorare, e che magari la felicità l’ha trovata nell’alcool e nella droga; fra tantissimi individui-atomi che reclamano sempre e solo ogni sorta di diritto, senza mai accettare uno straccio di dovere verso sé stessi e verso gli altri; oggi voglio andare controcorrente.
Oggi voglio onorare la memoria di milioni di esseri umani che – per lor signori di ieri e di oggi – non avevano un nome, non avevano diritti, ma avevano solo doveri, erano carne da macello da mandare a combattere o a lavorare; erano “ciechi” perché analfabeti, perché non sapevano né leggere né scrivere.
Mi riferisco forse alla massa anonima che popolò la storia dolorosa dell’umanità? Assolutamente no, sia perché è umanamente impossibile sia perché solo un Dio buono e misericordioso potrebbe riportare in vita quegli individui che furono fantasmi già in vita.
Mi riferisco, invece, ai padri dei nostri padri che – come il verghiano Jeli il pastore – si chiudevano nella loro inesorabile ignoranza e andavano ripetendo: «Io non ne so nulla; io sono povero»[5]. E mentre al circolo dei nobili e dei galantuomini “si ammazzava il tempo” giocando a carte o parlando di donne e di affari, nelle campagne o nelle miniere di zolfo “ci si ammazzava di fatica” per un tozzo di pane.
Era gente modesta, ma onesta. Gente umile, ma dignitosa. Gente povera di denaro, ma ricca di industriosità. Gente che conosceva la fame e le ristrettezze, ma nel petto custodiva una scintilla di orgoglio e di fierezza.
Erano poveri lavoratori di qualunque povero mestiere: nella campagna, sul mare, nella muratura, nelle miniere, nei porti. La loro lingua? Quella materna; poi quella della strada; e poi quella dell’ambiente di lavoro. Insomma, sempre e solo il dialetto.
All’alba si svegliavano per andare a lavorare; la sera, quando i signori e le signore uscivano dai teatri, loro tornavano a casa spezzati dalla fatica. E a volte, a tavola, cascavano dal sonno e piegavano il capo sul piatto di minestra.
Non conoscevano né Mazzini né Marx. Non avevano coscienza di classe, erano solo poveri. E per loro non c’era un Dio dei poveri. Avevano però una religione: la religione del lavoro, della casa, della famiglia. E la religione tradizionale? Su quella pesava un’atavica diffidenza verso i preti [i parrini], la cui unica fatica – dicevano loro – era quella di alzare un’ostia! E poi quel predicare bene e razzolare male dei preti, li portava a esclamare con sfiducia: – I parrini fannu perdiri a fidi![6]
[1] Cfr. B. Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. III, Laterza, Bari 1973, p. 69 sgg.
[2] K. Vossler, Salvatore Di Giacomo. Ein Neapolitanischer Volksdichter In Wort, Bild Und Musik, 1908.
[3] Il termine "sciaraballo" è una delle tante parole del napoletano nate dalla deformazione della traduzione di una francese. In questo caso si tratta di "char-à-bancs", letteralmente "carro con panche", che indicava la diligenza. Al contrario dei nobili, che avevano carrozze private più o meno grandi, lo "sciaraballo" era usato soprattutto da popolani e contadini che, dalle zone periferiche, si spostavano in città.
[4] “Faticare” nel doppio significato napoletano di “lavorare” e di “penare” di “far fatica a”. Per cui non è raro il caso di sentire un napoletano che esclama: S’a da fatica’ pe’ fatica’. Si deve penare per lavorare.
[5] G. Verga, Jeli il pastore, “Vita dei campi”, 1897.
[6] «I preti fanno perdere la fede!».