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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

TE PIACE 'O PRESEPIO?

2023-12-15 11:28

Prof. Giuseppe Pezzino

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TE PIACE 'O PRESEPIO?

All’antivigilia di Natale, nel capolavoro di Eduardo De Filippo, l’anziano Luca Cupiello si dedica con eroica ostinazione alla composizione del presepio...

All’antivigilia di Natale, nel capolavoro di Eduardo De Filippo, l’anziano Luca Cupiello si dedica con eroica ostinazione alla composizione del presepio fra l’indifferenza della moglie e l’ostilità del figlio Tommasino. «Te piace 'o presepio?» chiede l’entusiasta Luca al proprio figlio. «No. Nun me piace. Voglio 'a zuppa 'e latte», risponde con irritata insolenza quel fannullone di Tommasino, che fugge sistematicamente il lavoro, riscalda il letto e insegue ardentemente il denaro.

Vai a dire a quel malacarne di Tommasino che il presepio nacque in Italia, grazie a san Francesco d’Assisi che, nel 1223 realizzò a Greccio, un paesino del Lazio, la prima rappresentazione della Natività, dopo avere ottenuto l’autorizzazione da papa Onorio III.

Il francescano san Bonaventura da Bagnoregio, considerato uno dei più importanti biografi di san Francesco, così descrive, nella Leggenda Maggiore, la nascita del presepio creato dal Poverello d’Assisi: «I frati si radunano, la popolazione accorre; il bosco risuona di voci, e quella venerabile notte [et venerabilis illa nox] diventa splendente di luci, solenne e sonora di laudi armoniose. L'uomo di Dio [Francesco] stava davanti alla mangiatoia [Stabat vir Dei coram præsepio], pieno di pietà, bagnato di lacrime, traboccante di gioia. Il rito solenne della messa viene celebrato sopra alla mangiatoia e Francesco canta il Santo Vangelo. Poi predica al popolo che lo circonda e parla della nascita del re povero [Prædicat deinde populo circumstanti de nativitate pauperis Regis] che egli [...] chiama il bimbo di Betlemme [puerum de Bethlehem]. Un cavaliere virtuoso e sincero, che aveva lasciato la milizia e si era legato di grande familiarità all'uomo di Dio, messer Giovanni di Greccio, affermò d’aver veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo bimbo addormentato che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno [beatus pater Franciscus, ambobus complexans brachiis, excitare videbatur a somno.

Il primo presepio fu, dunque, una sorta di rappresentazione vivente. San Francesco aveva messo in scena una grotta, una mangiatoia (in latino præsepium) col fieno e i due animali della tradizione: il bue e l’asino. Mancava ancora la Sacra Famiglia, ma, come abbiamo letto dal racconto di san Bonaventura, un cavaliere che assistette alla Messa celebrata in quel luogo vide Francesco prendere dalla mangiatoia un bambino bellissimo. Una visione mistica, questa, che si sarebbe resa reale, negli anni seguenti, con i presepi viventi.

Beninteso, la sacra rappresentazione del Natale da parte di san Francesco si colloca su un terreno già arato e coltivato, sul terreno, cioè, delle sacre rappresentazioni medioevali a carattere teatrale e di argomento religioso. In quel tempo, specialmente in Francia, si rappresentavano scene dalle Scritture sotto forma di sacro teatro. Pur non essendo ancora un’abitudine diffusa in Italia, è probabile che il Poverello d’Assisi fosse a conoscenza di queste “rievocazioni storiche”, anche se questo termine non dà il giusto risalto all’afflato religioso che simili riti avevano per il popolo, la cui vita era impregnata di sincera fede.

A tal riguardo bisogna dire che il primo luogo scenico del teatro medievale fu la chiesa intesa come spazio architettonico. Infatti, durante le funzioni religiose si misero in scena i passi del Vangelo commentati dal sacerdote. Queste rappresentazioni assunsero in seguito una propria autonomia, spostandosi infine al di fuori delle chiese. Quindi gli aspetti fondamentali del teatro medioevale furono la drammatizzazione, i motivi teatrali religiosi, una componente liturgico-didattica e lo sviluppo di una forma drammatica in lingua volgare invece del latino.

Nell’Italia medioevale, ad esempio, dalla lauda lirica nacque la lauda drammatica, nella quale l'autore dava voce direttamente ai suoi personaggi. Uno dei soggetti più frequenti della lauda era la Passione di Cristo e la sofferenza della Vergine Maria. Da questo punto di vista, è fin troppo noto fra’ Jacopone da Todi, autore di laude drammatiche, come la famosa Donna de Paradiso, nota anche come Pianto della Madonna.

Nel XIII secolo, con Donna de Paradiso, fra’ Jacopone ci offre l'esempio più famoso di lauda drammatica, nonché in assoluto la prima lauda drammatica costruita interamente sotto forma di dialogo (Gesù-Maria-Giovanni apostolo). Qui la Vergine Maria non coglie nella morte del figlio il sacrificio necessario per la redenzione dell’umanità, ma solo l'aspetto terreno di terribile sofferenza. Anche Cristo rivela attenzioni da figlio nei confronti di Maria (più volte la chiama “mamma” e la affida alle cure amorevoli di Giovanni); ma c'è in Gesù quella consapevolezza della sua missione salvifica che manca alla semplice donna del popolo.

Leggiamo alcuni versi della laude Donna de Paradiso, per cogliere quale voce possente, dolorosa e straziante fra’ Jacopone sappia dare al pianto di Maria:

 

«Figlio, l’alma t’è ’scita,
figlio de la smarrita,

figlio de la sparita,
figlio attossecato! 

Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio,

figlio e a ccui m’apiglio?
Figlio, pur m’ài lassato!

[…]

Ioanni, figlio novello,
morto s’è ’l tuo fratello.

Ora sento ’l coltello
che fo profitizzato.

Che moga figlio e mate
d’una morte afferrate,

trovarse abraccecate
mat’e figlio impiccato!».

 

Il presepio statico, invece, arriverà da lì a pochi anni (il più antico presepio ligneo rimasto è bolognese, risalente probabilmente al 1291; e a Roma ce n’è uno del 1289, opera di Arnolfo di Cambio), mentre la sua ulteriore evoluzione fino alla forma attuale giunse con la Riforma Cattolica, quando la sacra rappresentazione divenne un elemento fisso in tutte le chiese e si diffuse ben presto anche nelle case dei fedeli.

Autore di questa innovazione fu san Gaetano Thiene (1480-1547). Questi aveva avuto un’estasi durante una meditazione nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Durante quell’estasi mistica, san Gaetano ebbe la visione del parto della Madonna, prese in braccio il Bambinello appena nato, si rallegrò con la Vergine, ascoltò gli angeli cantare il Gloria e si unì ad essi, insieme al suono delle zampogne dei pastori accorsi in adorazione. A Napoli, san Gaetano Thiene iniziò a rappresentare la sua visione con statue e addobbi.

Bisogna, inoltre, dire che il nostro presepio non ha soltanto un inestimabile valore religioso, ma anche un valore identitario nel celebrare la tenerezza della Natività. Questo sentimento di commozione, dolce e profonda, che si prova nei riguardi del divino Bambino, costituisce l’elemento essenziale per comprendere il valore identitario del presepio: infatti, la rappresentazione della tenerezza della Natività è un elemento essenziale della nostra civiltà mediterranea, cattolica, italiana.

Da questo punto di vista, il mondo antico era stato generalmente indifferente, se non crudele, verso i bambini. In verità, è innegabile la tenerezza di Ettore per il figlio Scamandrio o quella di Enea per il figlio Ascanio, ma in entrambi i casi si tratta di un sentimento paterno.

Ma andiamo più da vicino al libro VI dell’Iliade, quando Ettore incontra la moglie Andromaca e il figlioletto. La guerra di Troia, il sangue, la crudeltà animalesca, il dolore, l’angoscia, la sofferenza, tutto ha il sapore della morte nel poema omerico. Eppure, tutto tace – le grida di guerra degli Achei e dei Troiani, e lo scalpitare dei cavalli, e il cozzare degli scudi, e l’affannoso lamento dei moribondi – tutto improvvisamente tace, per dare spazio e voce a un sentimento eterno e bello: l’amore. E qui giganteggia non già l’Ettore guerriero valoroso e generoso, bensì l’Ettore campione dell’amore: amore per la propria città, amore per la giovane moglie Andromaca, amore per il figlioletto Scamandrio, che i Troiani chiamavano Astianatte (difensore della città) in onore del padre.

Con questa scena d’amore sublime, gli eroi omerici vengono messi da parte; per un attimo si spengono le passioni di guerra, perché fiorisce una passione d’amore che dà luogo ad uno degli episodi più belli e più intimi dell’Iliade.

Prima di tornare al campo di battaglia, Ettore incontra la sua sposa e il suo bambino, «unico figlio dell’eroe troiano, bambin leggiadro come stella». Dopo il dolcissimo e commovente colloquio con Andromaca, l’eroe stende le braccia all’amato figlio, che spaventato emette un grido e nasconde il volto nel seno della nutrice, spaventato dalle tremende armi del padre e dal cimiero che «orribilmente ondeggia» di crini di cavallo sulla sommità dell’elmo. Sorride il padre, sorride anche la madre; e colmo di tenerezza, Ettore si toglie subito l’elmo e lo posa a terra.

Quindi, baciato con immenso affetto il figlio, cullatolo dolcemente tra le mani, lo alza al cielo, e supplichevole esclama: «Giove pietoso e voi tutti, o dei celesti, concedete che degno di me un giorno questo mio figlio sia lo splendore della patria, e diventi forte e potente sovrano dei Troiani. Vi prego: fate sì che qualcuno, vedendolo tornare dalla battaglia recando le armi dei nemici uccisi, dica: “Non fu così forte il padre!”; e il cuore della madre, nell’udirlo, esulti».

Purtroppo il piccolo Astianatte non conobbe soltanto la tenerezza paterna, giacché, espugnata Troia, cadde nelle mani lorde di sangue di Neottolemmo, che riuscì nell’impresa non facile di superare il proprio padre Achille nella crudeltà bestiale e sanguinaria. L’innocente Astianatte, infatti, venne ucciso da Neottolemmo, che lo gettò dalle mura di Troia affinché la stirpe di Priamo e di Ettore non avesse discendenza.

Difficilmente l’antichità conobbe sentimenti di tenerezza per i bambini. Il Medioevo invece, con l’introduzione del Mistero della Natività, porta alla nostra civiltà cristiana l’elemento della tenerezza per il Dio-Bambino, per il parvulus nato in povertà, in sofferenza e in umiltà. E bisogna aggiungere che lo stesso ideale cristiano di cavalleria trasforma il guerriero– un po’ predone, un po’ avventuriero, spavaldo e violento – nel paladino leale e disinteressato, votato alla difesa dei più deboli, e soprattutto dei bambini e delle donne, verso le quali l’amore diviene cortese, sublimato e accostato al modello celeste della Vergine Maria.

La stessa rappresentazione di san Giuseppe ci presenta, da un canto, il lavoratore che rivaluta il lavoro in una società antica che aveva assegnato l’otium ai padroni e il negotium ai plebei; dall’altro, ci offre l’immagine del patriarca timorato di Dio, servo buono e fedele dell’Onnipotente, uomo di pietas, di fides e di gravitas. D’altronde, san Giuseppe porta un nome che emana amore, benevolenza, protezione verso Gesù. Lo sposo di Maria, ama e protegge il bambino Gesù in tante occasioni che comportano anche il rischio della vita. E Giuseppe è anche il nome di un autorevole membro del sinedrio, un uomo buono e giusto, un discepolo di Gesù in attesa del regno di Dio: costui, chiamato Giuseppe d’Arimatea, ottiene da Ponzio Pilato il cadavere di Gesù e lo depone nella propria tomba di famiglia.

Ad ogni modo, possiamo dire che il presepio costituiva uno dei tratti caratteristici del mondo cristiano, poiché già i nostri padri del Medioevo si riconoscevano in quella rappresentazione sacra. Da allora le chiese si riempirono di presepi. E la rappresentazione della Notte Santa fece la sua comparsa nelle dimore dei nobili e dei ricchi borghesi. Ben presto il presepio vestì i panni del costume locale, e il suo scenario ideale assunse i tratti dei bassi napoletani, dei borghi appenninici o dei carrugi genovesi. Insomma, il presepio diventò non solo una rappresentazione sacra della Natività, ma anche una rappresentazione di se stessi, dei propri paesi, dei propri borghi, dei propri mestieri, trasfigurando anche il più umile paesino in una Betlemme e ogni casa in una grotta della Natività del Bambino Gesù.

Ma c’è di più: infatti, grazie alla “rivoluzione” di san Gaetano Thiene, il presepio si riempie di personaggi. Pertanto, se il presepio di Francesco d’Assisi era ancora teatro sacro, ora, con la svolta impressa da san Gaetano, in quel teatro avviene “la rottura della quarta parete”, per cui gli attori sono consapevoli di essere osservati, e si riferiscono sostanzialmente al pubblico nella loro recitazione. E non si tratta soltanto dei Re Magi o dei pastori; ora il popolo mette in scena se stesso, accogliendo nella scena anche il tratto profano, il tratto comico, perfino il triviale.

Si creano così due specie di piani: quello elevato, nobile, sacro, che rappresenta la scena della Natività; e quello inferiore, profano, con scene popolari spesso umoristiche e con una miriade di personaggi che rappresentano i costumi e i mestieri del popolo. A mo’ d’esempio, mi piace ricordare qualche personaggio del presepio siciliano: u zzu Innaru, un vecchietto infreddolito che si riscalda davanti al fuoco; u susi Pasturi non dormiri cchiù, un pastorello dormiglione che stenta ad accogliere il miracolo della Notte Santa; u Spavintatu dda stidda, il primo che avvista la stella cometa, rimanendo turbato, sbalordito, quasi pietrificato.

E adesso? Ormai da molto tempo sono state aperte le ostilità contro il presepio, anche se il povero Luca Cupiello resiste caparbiamente nel comporre ogni anno il suo presepiuccio. D’altronde, in un’Europa fortemente scristianizzata, che nel progettare la sua propria Costituzione ha rinnegato le sue radici cristiane, che meraviglia può destare l’indifferenza o l’ostilità verso la rappresentazione della Natività? Un’Europa che vuole vietare la parola Natale e i nomi cristiani di Giuseppe e Maria, un’Europa che a colpi di circolari burocratiche lancia direttive per sostituire il pericoloso “Buon Natale” con il più opaco, inclusivo e neutro “Buone Feste”, è un’Europa che suscita il riso, la pena, l’indignazione, la rabbia, il cordoglio, per un continente dominato dal cupio dissolvi, dal folle desiderio di autodistruggersi.

Invano Giovanni Paolo II il Grande, nel suo libro Memoria e identità, ci ammonì che l’Europa non potrebbe mai dirsi tale senza la consapevolezza delle proprie radici cristiane. Invano ci esortò a non dormire sugli allori per avere vinto il nazismo e il comunismo, come se ormai il male fosse stato spazzato via definitivamente dal mondo. E ci indicò profeticamente i rischi mortali dell’ideologia di mercato e del neoliberismo. Infatti, l’utilitarismo, l’individualismo, e la mercificazione negano la spiritualità dell’uomo valorizzato dalla Chiesa, corrompono la natura dell’individuo come parte inscindibile dalla società e negano il ruolo delle collettività come agenti della volontà divina e della provvidenza. 

Ho accennato poc’anzi alle “ostilità” nei confronti del presepio. Beninteso, in questo caso il presepio rappresenta un bersaglio per colpire la nostra storia, la nostra cultura, la nostra coscienza di uomini moderni e cristiani. E gli strali lanciati contro il presepio sono vari e variopinti. Provo perciò a elencarne solo alcuni, traendoli dall’ampia faretra che molti portano a tracolla.

C’è sempre un motivo rivoluzionario o progressista – in alcune scuole, fra alcuni docenti, fra alcune famiglie – il quale motivo fa sì che sempre meno scuole preparino i presepi. C’è sempre qualche maestra che lancia l’ideona di un presepio democratico e antifascista. C’è sempre qualche chierico che, in frenetica estasi di accoglienza, riempie il presepio di canotti e salvagente, per poi cantare Bella ciao al posto di Tu scendi dalle stelle. C’è sempre l’intellettuale che, per malintesa laicità, propone di buttare a mare i segni di un patrimonio culturale e religioso concentrati nel presepio, come se, per ipotesi assurda, dovessimo proibire la lettura dell’Iliade o dell’Eneide, di Platone o di Aristotele, perché parlano di divinità ormai superate in un mondo in cui quasi tutti sono ormai pagani.

Contro il presepio si scaglia pure il signor cafone che, imitando goffamente i signori al caviale, liquida la questione con la profonda e originale motivazione che “il presepio è roba provinciale”. E questo tapinello vuol fare il moderno, vuole impancarsi a maître à penser: così, al posto delle luci del presepio, preferisce mettersi in testa le corna di renna con le luci a led.

 

 

 

 

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