A conclusione di ogni anno, mi torna in mente il leopardiano Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere.
Così, puntualmente, io cammino intirizzito su una strada spazzata dal tipico venticello, che sul viso passa come una lama gelida e tagliente. E qui incontro un anonimo viandante, un «passeggere», che martella un povero venditore di almanacchi con domande sull’anno vecchio che sta andando via e su quello nuovo che sta per arrivare. Il viandante-Leopardi gioca sadicamente col popolano come il gatto col topo, e pensa di avere ormai la meglio sul suo interlocutore, di dargli la zampata finale, quando però, alla domanda «Oh che vita vorreste voi dunque?», arriva inaspettata la risposta del venditore di almanacchi: «Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti».
Ecco, con questa risposta, la filosofia del povero diavolo si erge tutta armata contro la sofisticata filosofia dello scettico viandante. Con Dio non si fanno patti! Alla vita non si pongono condizioni! – questa filosofia popolare, semplice e maestosa, si contrappone al pensiero leopardiano che conosciamo pure nello Zibaldone: «Nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male che bene; e se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l'ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti».
Chiaro, no? Per il Recanatese, il passato ci presenta con certezza un bilancio in cui il male supera il bene. Pertanto, il calcolo razionale ci farebbe precipitare nello sconforto e nella voglia di farla finita, se non ci soccorressero l’ignoranza e l’illusione della speranza. Infatti, – sottolinea Leopardi – siamo ignoranti sul futuro e, per giunta, c’illudiamo e speriamo che le cose possano cambiare in meglio. Inganni, solo inganni! Sicché, nelle Ricordanze, dal singhiozzante petto del grande poeta erompe l’apostrofe contro la speranza, che c’illude e c’inganna: «O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età!».
Eppure dobbiamo riconoscere che la speranza – la Elpìs, come la chiamavano i nostri padri greci – un tempo era tenuta in gran conto e venerata. Addirittura Esiodo, nel poema Le opere e i giorni, ci svela che la Speranza-Elpìs fu l’unico dono divino a restare nel vaso di Pandòra, come estremo riparo consolatore per l’umanità.
E non a caso, nel mondo romano, si ripeteva: Spes ultima dea. In verità, quando si assiste al naufragio di tanti progetti, quando tante promesse si perdono nelle nebbie del passato, quando tanti pseudo-valori (bellezza, salute, ricchezza, potere politico, ecc.) svaniscono alla luce crepuscolare della vanità, quando la caduta degli dèi sembra travolgere il mondo (il nostro mondo!), ci resta ancora e sempre la dea Speranza, Spes ultima dea.
Ma la speranza non è solo una dea, giacché essa può essere intesa sia come l’oggetto dello sperare sia come la ragione dello sperare. In questo senso figurato l’Enea virgiliano può chiamare Ettore “sicura speranza dei Troiani”: O lux Dardaniæ, spes o fidissima Teucrum, O luce della Dardania, o sicura speranza dei Teucri.
Un tempo, nella nostra tradizione popolare (quando esistevano le tradizioni e il popolo!) imperava il detto: Finché c’è vita, c’è speranza. Ma, a voler cogliere il cuore della verità, bisogna capovolgere quel detto popolare in questo modo: Finché c’è speranza, c’è vita. Ebbene sì. La primazia spetta proprio alla speranza. Infatti, senza la speranza non ci sarebbe la vita o, peggio ancora, ci sarebbe una vita mutilata, una gran misera cosa. In altri termini, senza la speranza, avremmo da trascinare una non-vita, un non-senso, un inferno. E in quest’ultimo caso l’inferno dantesco è meravigliosamente concentrato nell’assenza della speranza: Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate. La condizione dei dannati è, infatti, l’assenza assoluta della speranza.
D’altronde, si può rendere la vita simile a un inferno, dove non c’è più speranza di tornare alla luce. Facile è scendere nell’Averno, notte e giorno la porta dell’oscuro Dite è sempre aperta; ma ritornare sui propri passi e uscire alla luce, qui sta l’impresa, qui la pena – disse la Sibilla Cumana a Enea.
Senza la speranza, la vita sarebbe dilaniata dalla disperazione. La disperazione? Sì, proprio lei, Monna Disperazione. Quella cupa signora che, silenziosa e inesorabile, ci sta accanto come un’ombra, pronta ad aggredirci e divorarci quando ci facciamo cogliere disarmati e vulnerabili, quando cioè le lasciamo un vuoto di speranza che lei subito va ad occupare.
Ma, è mai possibile concepire uno spazio vuoto nella vita e nel cuore dell’uomo? Direi proprio di sì. In verità, tanta gente s’illude di vivere una vita piena, laddove vive una vita vuota, una vita svilita a tal punto, da essere barattata a prezzi stracciati sul banco della droga, dell’alcool, o di altre demoniache assurdità.
Avete fatto caso? Tantissimi sono talmente vuoti da non avvertire alcun bisogno, se non quello di muoversi ininterrottamente, di non pensare, di dimenarsi, di consumare tutto, di consumare persino la propria vita e, quel che è peggio, persino la vita dei propri figli o dei propri genitori. Ossessionati da una fatale forza centrifuga, costoro escono fuori dal proprio centro interiore, si muovono continuamente come formiche impazzite, per non tornare mai più in sé.
Avevamo creduto che ormai non si facessero sacrifici umani. E invece, a guardar bene, tantissimi sacrificano stoltamente e cinicamente la vita propria e l’altrui, per la carriera, per il successo, per il potere, per il nulla, persino per la libertà…di poltrire e sfruttare il lavoro degli altri. Tantissimi si muovono come zombi, e sono morti che seppelliscono i loro morti.
Ma, guai se alla forza centrifuga dovesse subentrare quella centripeta; se alcuni di loro fossero costretti a fare un bilancio della propria vita; se qualcuno o qualcosa sbattesse loro in faccia le cose non fatte o mal fatte. Allora li vedresti girare disperati su sé stessi come trottole, li vedresti auto-centrarsi, per poi scaricare la colpa in periferia, ovvero sulla sfortuna, sul destino, sull’incomprensione altrui. E magari starebbero a frignare, ad assumere la comoda posa delle vittime stroncate dall’incomprensione di un mondo ottuso e meschino, a scimmiottare i ribelli ibseniani contro le ipocrite leggi della società, a darsi arie da generosi eroi caduti nella battaglia per i diritti…senza doveri. E se questa forza centripeta andasse crescendo, si aprirebbe allora il baratro della disperazione.
Beninteso, io non mi sogno di fare di tutta l’erba un fascio. E perciò riesco ancora a distinguere tra la disperazione di una coscienza moralmente malata e la disperazione di un povero «Renzo» dei giorni nostri, che viene vessato dai potenti tanto spietati quanto melliflui, dai prepotenti rozzi e minacciosi, persino dallo Stato, persino (horribile dictu!) da quegli stessi giudici che dovrebbero rendergli giustizia, anziché tradire il loro compito istituzionale. Riesco ancora a distinguere, e soprattutto ricordo quel che diceva Corrado Alvaro: «La disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». Ed io chioserei: non il dubbio, ma la certezza che vivere rettamente sia inutile.
Guai a quella società in cui serpeggia il dubbio o la certezza che sia inutile vivere onestamente! Peggio ancora, guai a quella società in cui si è spenta la debole fiammella della speranza. E purtroppo, in questo nostro mondo scristianizzato, in questo nostro mondo senza Dio e senza speranza, in questo mondo squallidamente imbullonato solo sul presente, è difficile trovare la luce salvifica di quella fiammella.
Senza dubbio possiamo dire che l’autentico cristiano (rara avis!) mantiene ancora in vita la fiammella della speranza; anzi, osiamo dire che egli si mantiene spiritualmente in vita, soprattutto grazie a quella fiammella. D’altronde, il Dio dei cristiani è il Dio della speranza, di una speranza operosa, di una speranza vissuta, di una speranza che trasforma l’anima e la visione della realtà.
«Il fondamentale atteggiamento della speranza – scrisse Giovanni Paolo II, nella Tertio millennio adveniente – da una parte, spinge il cristiano a non perdere di vista la meta finale che dà senso e valore all’intera sua esistenza e, dall’altra, gli offre motivazioni solide e profonde per l’impegno quotidiano nella trasformazione della realtà per renderla conforme al progetto di Dio».
Isaia aveva cantato profeticamente l’attesa del giorno sospirato: Mi gridano da Seir: «Sentinella, quanto resta della notte?» E il cristiano Paolo ci consola e risponde: «Siate lieti nella speranza», perché «la notte è avanzata e il giorno è vicino».
Certamente, fiumi d’inchiostro sono stati versati dal teologo e dal filosofo, per delucidare le tre virtù teologali (la fede, la speranza e la carità), che fondano ed animano la vita cristiana. Ma qui voglio gettare uno sguardo sulla speranza dell’uomo semplice, afflitto da dubbi e tormentato dalle ingiustizie, il quale, ieri come oggi, sente la voce del Dio della speranza che parla con parole eterne: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati». Sta qui il messaggio di speranza; sta qui la chiamata; sta qui l’incontro con la speranza che ti cambia la vita.
Speranza pigra e oziosa, in attesa di una ricompensa di là da venire? No di certo. E nemmeno speranza troppo umana, che grida vendetta e mobilita le forze materiali per costruire una nuova e perfetta città degli uomini su questa terra, dimenticando del tutto il primato dell’anima sul corpo, dello spirito sulla materia, della civitas Dei sulla civitas hominum, del Regno dei cieli sui regni della terra.
Insomma, la speranza cristiana non confonde Gesù con Bar-abbâ, né con Spartaco, né con Che Guevara. Non lo confonde, perché Gesù è l’umile Re dell’universo che indica la Via che conduce dal regno dei morti al regno eterno della Vita e della Verità; non lo confonde, perché Gesù è il Pastore che, anche quando siamo assolutamente soli al cospetto della morte, non ci abbandona alla disperazione, ma ci sta accanto, e ci consola e ci rassicura, guidandoci attraverso la nera vallata del male e della morte, per trovare la via maestra della vita. E in ciò sta la bellezza e la verità del Salmo 139: Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare,anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra.
A questo punto, sorge puntuale un’obiezione: ma allora la speranza cristiana ha una dimensione sostanzialmente individualistica e privatistica? Assolutamente no. La speranza cristiana riguarda me e nel contempo tutti. Se provo ad escludere o il me o il tutti, ho tagliato alla radice la speranza. Troppo egoistica sarebbe una speranza solo per me; troppo astratta una speranza per tutti senza di me. E qui mi soccorre Agostino che, pur avendo in un primo momento pensato a una fuga dal mondo e a una vita cristiana in solitudine, poi si trova di fronte alla verità evangelica che Cristo è morto per tutti.
Per conseguenza, ad ogni tentazione di chiudersi nella dimensione egoistico-contemplativa, sorge in Agostino la paura di trasgredire il Vangelo: Evangelium me terret, Mi spaventa il Vangelo. E quindi, nel Discorso 339, egli dirà apertamente:«Ho ricevuto una norma di vita: posso vivere come mi è stato ordinato, come mi è stato consigliato. Voglio mettere sotto sigillo ciò che ho ricevuto: perché devo render conto degli altri? Mi spaventa il Vangelo».
Non sono possibili una speranza ed una salvezza solo per me, escludendo gli altri; né sono possibili una speranza e una salvezza solo per gli altri, escludendo me. Insomma, la salvezza ha una sostanza comunitaria. Questa è la via maestra segnata da grandi figure come Agostino d’Ippona, Benedetto da Norcia e Bernardo di Chiaravalle, che all’istanza dei contemplantes non disgiunsero mai l’istanza dei laborantes. Troppo lontane queste figure per l’uomo di oggi? Ebbene, basta allora pensare ad alcune recenti figure di papi, per vedere riconfermata la virtù della speranza.
Papa Ratzinger ci ha consegnato un’importante enciclica sulla speranza (Spe salvi). E che dire della sensibilità di papa Bergoglio per la virtù della speranza? In questi tempi di dolore e di paura per il contagio da covid, Francesco esalta un altro e ben più nobile contagio: quello che «si trasmette da cuore a cuore, perché ogni cuore umano attende questa Buona Notizia. È il contagio della speranza: ‘Cristo, mia speranza, è risorto!’. Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non ‘scavalca’ la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio».
Ma è giunta l’ora di prendere congedo dai santi e dai papi, per andare a trovare un poeta francese, un poeta cattolico (cattolico a modo suo), che cantò le lodi della speranza. Mi riferisco con commozione a Charles Péguy che, nel 1911, compose Il portico del mistero della seconda virtù, dove la seconda virtù è appunto la speranza.
In quest’opera – scritta nei non rari momenti neri e difficili della sua vita – Péguy lascia la parola a Dio, che si esprime per bocca di Madame Gervaise in un lungo monologo sulla speranza. Fra le tre virtù teologali (la Foi, l’Espérance et la Charité, la Fede, la Speranza e la Carità) il poeta considera la Speranza come la virtù più gradita a Dio: «Si dimentica troppo, bambina mia, che la speranza è una virtù, / che è una virtù teologale, e che di tutte le virtù, e delle tre virtù teologali, è forse quella più gradita a Dio. / Che è certamente la più difficile, che è forse l’unica difficile, e che probabilmente è la più gradita a Dio».
Dio sa che la Fede e la Carità sono le virtù più conosciute e diffuse fra il popolo cristiano: «La fede, dice Dio, no, non mi sorprende. / Io risplendo talmente nella mia creazione / che per non vedermi realmente queste povere persone dovrebbero essere cieche». «La carità, dice Dio, non mi sorprende. / Queste povere creature son così infelici che, a meno di aver un cuore di pietra, come potrebbero non avere carità le une per le altre?»
È meravigliosa, invece, la speranza. Persino agli occhi di Dio è sorprendente il fatto che gli uomini riescano a nutrire la speranza per il domani, per l’avvenire: «Mais l’espérance, dit Dieu, voilà ce qui m’étonne. Ma la speranza, dice Dio, la speranza, sì, che mi sorprende». «Che questi poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio. / Che vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina. / Questo sì che è sorprendente ed è certo la più grande meraviglia della nostra grazia».
Ha del miracoloso che questa piccola speranza, cette petite espérance, sia così resistente ad ogni avversità: «Quale non dev’essere, dice Dio, la mia grazia e la forza della mia grazia perché questa piccola speranza, / vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti, ansiosa al minimo soffio, / sia così invariabile, resti così fedele, così eretta, così pura; e invincibile, e immortale, / e impossibile da spegnere; come questa fiammella del santuario».
Senza dubbio, il poeta francese è lontano dall’architettura agostiniana tracciata nel Manuale sulla fede, speranza e carità. Per Agostino, infatti, esiste un certo primato della carità ed esistono differenze fondamentali tra la fede e la speranza: 1) si può credere per fede anche in ciò che non si spera (il cristiano crede per fede nelle pene dell’inferno, ma non le spera, anzi le teme), ma non si può sperare in ciò in cui non si crede; 2) la fede riguarda il passato, il presente e l’avvenire, mentre la speranza mira all’avvenire; 3) la fede riguarda me e gli altri, mentre la speranza riguarda solo ciascuno di noi.
La poesia di Péguy crea l’immagine della speranza come virtù bambina, che sta in mezzo alle sue due sorelle maggiori (la Fede e la Carità). Una bambina piccola e forte, fragile e immortale: «Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza. / E non so darmene ragione. Questa piccola speranza che sembra una cosina da nulla. / Questa speranza bambina. / Immortale».
Le due sorelle maggiori tengono per mano, in mezzo a loro, la sorellina più piccola che sembra non essere in grado di avanzare da sola: «Ma la speranza non va da sé. La speranza / non va da sola. Per sperare, bambina mia, / bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, / ricevuto una grande grazia».
Tutto ciò genera nei cristiani una certa sottovalutazione della speranza, della virtù bambina che stenta a camminare e perciò dev’essere sostenuta: «Il popolo cristiano non vede che le due sorelle maggiori, non ha occhi / che per le due sorelle maggiori. / Quella a destra e quella a sinistra. / E quasi non vede quella ch’è al centro. La piccola, quella che va ancora a scuola. / E che cammina. / Persa fra le gonne delle sorelle. / E ama credere che sono le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano. / Al centro. / Fra loro due. / Per farle fare questa strada accidentata della salvezza».
E invece è proprio lei a spingere le due sorelle maggiori. È proprio lei a sorreggerle e a guidarle: «È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa. / Perché la Fede non vede se non ciò che è. / E lei, lei vede ciò che sarà. / La Carità non ama se non ciò che è. / E lei, lei ama ciò che sarà».
La piccola virtù della speranza vede ciò che non è ancora e che sarà. Ama quel che non è ancora e che sarà. Questa piccola speranza vive nel tempo futuro e nell’eternità. Sulla ripida e faticosa salita della vita, sembra che le due sorelle maggiori trascinino la piccola speranza, aggrappata a loro due. E sembra che lei, incerta ed insicura, si lasci trascinare. E invece, per Péguy, è lei a far camminare le altre due sorelle, a trascinarle, a rincuorarle. La virtù bambina procede nell’innocenza e va con sicurezza verso l’avvenire.
Ora, se dalla poesia passiamo al poeta, scopriamo che la stessa vita di Péguy è un inno alla speranza, un inno che acquista più valore, perché s’innalza dall’inferno di esperienze dolorose, da lunghi periodi di difficoltà, da sconfitte e da persecuzioni.
Come si fa, infatti, a trovare la forza di lavorare e di studiare, quando si nasce in una famiglia povera dell’Ottocento, nella campagna vicino Orléans? Quando tuo padre, un povero falegname, muore (per le ferite precedentemente riportate nella guerra contro i prussiani) pochi mesi dopo la tua nascita, e tua madre è costretta a lavorare impagliando sedie? Come si fa a non crollare, a non perdersi, se non hai la forza indomabile della speranza? Già allora il piccolo Charles mangia poco pane e tanta speranza, aiutando la madre e la nonna.
A 7 anni va a scuola ed è un allievo studioso e attento. In seguito, con una borsa di studio municipale, il giovane va al liceo inferiore. Nel 1891, con un’altra borsa di studio, passa al liceo Lakanal di Parigi. Nell’agosto 1894 è ammesso all’università (la prestigiosa École normale supérieure di Parigi!). Intanto il piccolo impagliatore di sedie di una volta fa ora incontri importanti: conosce, fra gli altri, il premio Nobel Romain Rolland e si lega d’amicizia col filosofo Bergson.
Durante l’Affaire Dreyfus, che spaccò in due la Francia di fine Ottocento, lo troviamo nobilmente schierato a favore dell’innocenza del capitano di origine ebraica Alfred Dreyfus. E diventa pure socialista! Ora, dico io: come si fa ad essere socialista nella Francia di fine Ottocento, come si fa a scrivere nel 1897 il dramma Giovanna d’Arco, se il tuo socialismo non è animato dalla speranza di una salvezza radicale, integrale ed estesa a tutti?
Purtroppo, Péguy è un socialista a modo suo, sui generis, un socialista anomalo. Egli si crede socialista, ma non è un politico e non ha la dura corteccia del politico. La sua adesione al socialismo sorge da uno slancio morale, più che da un calcolo politico. Perciò abbandonerà il partito, non appena vedrà il volto dei politicanti sotto la maschera della retorica parolaia e delle affermazioni generose. Infatti è forte il senso di delusione e di sdegno, quando il giovane Charles s’accorge che i partiti e gli uomini a fianco dei quali impegna tutte le sue energie per la realizzazione della “Repubblica socialista universale” vogliono bensì trasformare gli altri, ma non sé stessi, vogliono abbattere le vecchie strutture borghesi di oppressione, ma non le nuove strutture socialiste di potere. E ci vuole una grande forza morale e un grande amore verso la virtù della speranza, per resistere alla cortina di silenzio, di boicottaggio e di disprezzo che cala su di lui e sulle sue opere da parte dei potenti della destra e della sinistra.
Dopo essersi staccato dal socialismo ufficiale, nel 1907 Péguy approda alla fede cattolica. E sarà un cattolico sui generis, a modo suo! Perciò la cortina del silenzio e dell’isolamento continuerà a gravare sulle opere di un uomo che i cattolici respingeranno allo stesso modo dei socialisti. In effetti, il suo carattere appassionato e intransigente lo rende sospetto sia agli occhi della Chiesa, di cui egli critica l’autoritarismo, sia agli occhi dei socialisti, di cui critica l’anticlericalismo e l’opportunismo.
D’altronde bisogna riconoscere che Péguy – per la sua irrequietezza, per il suo orgoglio e per le sue impennate contro certi comportamenti o certi fatti – è un personaggio “scomodo”. Si aggiunga, infine, che il nostro poeta francese non è esente da contraddizioni e da colpevolezze. Ad esempio, accusa la Chiesa di dogmatismo e di autoritarismo e, nel contempo, non battezza i propri figli. E magari poi, quando il figlio minore si ammala gravemente e guarisce, va in pellegrinaggio per voto fino alla cattedrale di Chartres: un percorso di144 km in tre giorni.
Nel 1914, allo scoppio del primo conflitto mondiale, il quarantenne Péguy si arruola volontario e va in zona di combattimento. L’eterno piccolo Charles, il minuscolo impagliatore di sedie, di fronte alla minaccia tedesca, scopre la realtà della patria francese in pericolo. E trova la forza di opporsi al pacifismo dei cattolici e dei socialisti.
Colui che aveva marciato da pellegrino per centinaia di chilometri, ora marcia da soldato volontario. Il 5 settembre 1914, il primo giorno della battaglia della Marna, a Villeroy, il tenente Charles Péguy, della 276ª fanteria 19ª compagnia, all’attacco in testa ai suoi uomini, cade colpito in fronte. Aveva 41 anni.