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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte I)

2023-06-17 09:32

Prof. Giuseppe Pezzino

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte I)

«Viviamo proprio in un bel porco mondo», disse amareggiato il vecchio re Vittorio Emanuele III al suo aiutante di campo. Era il 23 dicembre 1947, a du

 «Viviamo proprio in un bel porco mondo», disse amareggiato il vecchio re Vittorio Emanuele III al suo aiutante di campo. Era il 23 dicembre 1947, a due giorni dal Natale. Un Natale particolare, perché il re stava in esilio in Egitto, e aveva modo di constatare che gli omaggi natalizi, una volta numerosissimi e a cascata, ora si erano vistosamente assottigliati.
In altri tempi, il Natale era un tripudio di messaggi augurali tra le teste coronate d’Europa e fra i potenti del mondo. Era l’occasione per ricevere al Quirinale ministri e autorità militari e civili, che facevano anticamera per ossequiare devotamente il re d’Italia. Ora, invece, un gelido silenzio avvolge due vecchi (Vittorio Emanuele III e sua moglie Elena) in una casa gettata lì, nelle campagne egiziane.
Nella forzata solitudine da vecchio in esilio e per sempre lontano dall’Italia, spesso i ricordi vengono a trovarlo, a tormentarlo, per poi lasciarlo stanco e avvilito.
«La casa Savoia conosce la via dell’esilio, ma non quella del disonore», disse orgogliosamente suo nonno, Vittorio Emanuele II, al vincitore feldmaresciallo austriaco Radetzky dopo la disfatta della «fatal Novara» e il conseguente esilio di Carlo Alberto.
Ora invece, dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale, casa Savoia ha conosciuto sia la via dell’esilio sia quella del disonore.
Tutto questo gli fa male; gli procura un dolore insopportabile.
Eppure il dolore lui lo conosceva bene. L’aveva incontrato sin da piccolo per quella sua malformazione fisica, che gli fece portare per tutta la vita due gambette corte, rachitiche e dolorosissime. E fu sempre un dolore fisico e psichico il suo. D’altronde, quella tragedia, che colpirebbe pesantemente ogni essere umano, s’ingigantiva in lui a causa degli impegni pubblici che lo costringevano a mostrarsi al mondo come uno sgorbietto di un metro e mezzo – con la testa e il busto di dimensioni normali, e con due gambucce da nano – accanto a individui che, con la loro normalità, facevano risaltare la sua anormalità.
Quanta umiliazione quel giorno in cui dovette procedere, fianco a fianco, con quello spilungone di re Alberto I del Belgio! Quello era alto, con un cappotto aderente che esaltava la sua statura eccezionale; e lui piccolo piccolo, avvolto in un’ampia e lunga e sproporzionata mantella militare, che evidenziava la malformazione dei suoi arti inferiori. Tra l’altro, egli sapeva bene che tutta l’Italia lo chiamava impietosamente “sciaboletta”. Avevano addirittura abbassato il limite di altezza alla leva militare, perché non accadesse che il re, il primo soldato d’Italia, il capo delle regie forze armate, fosse dichiarato riformato.
Quanta rabbia in corpo quando, nelle parate militari, quel Mussolini gli stava accanto tutto tronfio e pettoruto, dandosi arie da Giulio Cesare, mentre in realtà era solo un Rodomonte!
E quanto dolore, un dolore profondo ed infinito, quando quel pennellone di suo cugino (parenti serpenti!) Amedeo duca d’Aosta, odiosamente faceva ridere mezza Italia sbeffeggiando il re e persino la regina – la sua amatissima Elena – chiamandoli “Curtatone e Montanara”!
Nell’epopea risorgimentale, la battaglia di Curtatone e Montanara era stata resa sacra dal sangue di tanti giovani morti nella prima guerra d’indipendenza. E quell’insolente duca d’Aosta, in un sol colpo, osava oltraggiare i martiri del Risorgimento italiano e, nel contempo, offendere il re per la sua statura (Curtatone) e la regina Elena per le sue origini montenegrine (Montanara).
Vittorio Emanuele III era chiuso, schivo, freddo? Vivaddio, vorrei vedere qualche altro al posto suo!
Come tutti i rampolli coronati, crebbe senza famiglia, senza quel calore umano che sorge dalla vicinanza con i genitori. E proprio lui, per le sue particolarissime condizioni psico-fisiche, ne avrebbe avuto un gran bisogno. Invece, i suoi augusti genitori stavano a tavola con lui solo due volte la settimana, se non avevano impegni, e ne avevano sin troppi.
Un giorno, a sua madre, la regina Margherita, che gli aveva proposto di fare una passeggiata per Roma, il giovane principe Vittorio Emanuele rispose in modo atroce: «E dove vuoi andare a mostrarti con un nano?» Era l’unica vendetta che il principe poteva prendersi contro il destino scellerato e, soprattutto, contro i suoi genitori che si erano sposati, pur essendo cugini primi, e pur sapendo che rischiavano di mettere al mondo dei figli difettosi.
Fortunatamente ebbe un’istitutrice, l’irlandese Elizabeth Lee, che gli fece da madre e per la quale nutrì, ininterrottamente per quattordici anni, un affetto filiale. Il che dimostra quanto calore e quanta sostanza affettiva scorressero nel sottosuolo carsico di quell’individuo sofferente e deforme.
Per tradizione sabauda, gli fu impartita un’educazione fatta di austerità, di disciplina e di severità verso se stesso e verso gli altri. Come precettore gli fu assegnato Egidio Osio, un colonnello di Stato Maggiore. Questo militare tutto d’un pezzo gli disse un giorno una frase, che il principe ereditario non dimenticherà mai e che dovrebbe essere scolpita su tutti gli edifici pubblici d’Italia: «Si ricordi che il figlio di un Re, come il figlio di un calzolaio, quando è asino è asino».
Quest’aureo monito del colonnello Osio è, per importanza morale e civile, secondo solo alla celeberrima esortazione «Conosci te stesso», riportata sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi. Ecco perché l’ammonimento del colonnello Osio dovrebbe ornare il prospetto dei ministeri, delle scuole, delle università, degli ospedali e dei tribunali, affinché i giovani ricordino che, a prescindere dal papà in toga o in camice o in divisa, un asino è sempre un asino!
Comunque c’è da dire che, raggiunta la maggiore età nel 1889, i legami con il colonnello Osio non si spezzano; e Vittorio Emanuele scriverà quasi ogni giorno al suo precettore di ferro, che qualche merito avrà pur avuto nell’accendere profondi e duraturi sentimenti in quel giovane principe introverso.
Si aggiunga che per cinque anni egli risiede a Napoli, per fare pratica come colonnello al comando del primo reggimento fanteria. E a Napoli il nostro principe introverso e pignolo non solo impara alla perfezione il napoletano, ma addirittura assapora a gran sorsate la dolce vita di un giovane che non ha penuria di amici né di amanti.
E proprio a Napoli, per altri versi, egli entra in conflitto con un suo parigrado, il colonnello Luigi Cadorna, comandante del decimo reggimento bersaglieri. Un conflitto fra due individui duri e intransigenti; un conflitto che durerà a lungo, e culminerà nel 1917 con la disfatta di Caporetto.
Ad ogni modo, presto, molto presto, quello sgorbietto si corazza, si tempra, e diviene un uomo misurato ma non impacciato, distaccato ma non insensibile, austero ma non parruccone, prudente ma non pauroso.
Quasi a compensare le sue deficienze fisiche, egli sviluppa notevoli qualità intellettuali, che lo portano a navigare controcorrente rispetto alle tradizioni illetterate e ai gusti militareschi di casa Savoia. Allievo della prestigiosa Scuola militare Nunziatella di Napoli, viaggia moltissimo all’estero. Presto palesa la sua inclinazione per gli studi, che si manifesterà tra l’altro nella sua non rara presenza alle inaugurazioni dell’Accademia dei Lincei.
Si appassiona soprattutto alla storia, alla geografia e alla numismatica (scrive un trattato sulla monetazione italiana, il Corpus Nummorum Italicorum). E le sue competenze sono riconosciute anche in campo internazionale. Basti pensare che in più occasioni Vittorio Emanuele viene chiamato, per la sua profonda conoscenza in campo geografico, come mediatore nei trattati di pace. Tra l’altro, è designato come arbitro per la disputa territoriale dell'isola di Clipperton tra la Francia e il Messico; e per la Disputa del Pirara tra il Brasile e la Guyana.
Senza dubbio, fa un certo effetto considerare l’abisso culturale che separa Vittorio Emanuele III da suo nonno e da suo padre, i quali ebbero fama scientifica solo nel campo delle amanti e della caccia. Infatti, per quanti sforzi si possano fare, non si riesce a immaginare suo nonno, il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II, alle prese con un trattato scientifico non solo da autore, ma nemmeno da lettore.
Come re d’Italia, Vittorio Emanuele III nomina, ad esempio, senatore Benedetto Croce, un filosofo, ossia uno che, per la “ragion pratica” di un politico o di un mercante, equivale pressappoco a un perdigiorno. E quando Croce diviene ministro nel governo Giolitti, il re ha modo d’intrattenersi col filosofo durante gli incontri per la firma reale, da apporre agli atti che ciascun ministro presenta al re. Questi, secondo la testimonianza del Croce, discute con piacere di aneddoti storici o di questioni geografiche. Nel clima confidenziale e poco formale che s’instaurerà fra i due, Vittorio Emanuele svela pure il suo lato “pratico” e “sparagnino”. Sicché, alla domanda sul motivo che lo aveva indotto a rinunciare alla reggia di Napoli, il re risponde: «Ma che si scherza? Soltanto per la manutenzione annua di porte e balconi costava tanto e tanto». Avesse mai fatto quattro conticini di tal fatta qualche futuro Presidente della Repubblica!
Una sera, durante un ricevimento di corte, Vittorio Emanuele III vede Benedetto Croce che, a differenza degli altri ministri, non fa sfoggio di uniforme e di decorazioni. «Lei, dunque – gli disse con tono di complicità e con cantilena piemontese – non si degna di portare onorificenze?» «Non è che io non mi degni – risponde imbarazzato il ministro-filosofo – ma non avendone mai chieste, non ne ho alcuna». Il giorno dopo, per motu proprio regio, il ministro-filosofo riceverà le insegne della gran croce della Corona d’Italia.
Ma andiamo alla questione matrimoniale, dove Vittorio Emanuele avrà modo di far notare ancora una volta l’enorme differenza fra la sua personalità e quella dei suoi predecessori. A differenza di tantissime teste coronate, per il nostro principe ereditario il matrimonio è una cosa seria, che coinvolge il cuore, e che non può ridursi a un affare di Stato o, peggio ancora, a un affare di dote. E quando, in visita ufficiale in Germania, si trova di fronte al kaiser Guglielmo II che, con la proverbiale delicatezza teutonica, gli dice: «Perché non vi decidete a prendere moglie?», il principe Vittorio Emanuele lo mette a tacere, facendogli bruscamente capire di non impicciarsi dei fatti altrui.
D’altra parte, egli possiede abbastanza senno e memoria per vedere in se stesso i frutti di certe politiche matrimoniali. Basti pensare che un giorno redarguirà il suo Capo di Stato Maggiore, generale Porro, in termini brutali più per sé che per il generale: «Ch'am varda nen. A sa ben che mi a son fòtu ant'le gambe!», che, dal piemontese in italiano, vuol dire: «Non mi stia a guardare. Sa bene che io sono fottuto nelle gambe!».
Aveva ventisei anni il principe ereditario, quando conobbe la principessa Elena del Montenegro, colei che sarebbe stata il suo grande unico vero amore. Fu un colpo di fulmine. L’anno dopo, nel 1896, in occasione dell’incoronazione dello zar Nicola II, la rivede a Mosca; e il colpo di fulmine diventa un incendio che brucerà due anime per tutta la vita.
Il 24 ottobre 1896, con una cerimonia per nulla sfarzosa, si celebra il matrimonio fra il ventisettenne principe Vittorio Emanuele e la ventitreenne Elena. I figli arriveranno solo dopo l’ascesa al trono d’Italia dei due sposi. E furono cinque: Jolanda, Mafalda, Umberto, Giovanna e Maria Francesca.
L’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III avviene in un clima di tragedia familiare, oltre che nazionale. Il 29 luglio 1900, a Monza, l’anarchico Gaetano Bresci uccide re Umberto I. Il trentunenne Vittorio Emanuele è in quei giorni in crociera con la moglie, e a tutto pensa fuorché alla corona, dato che suo padre ha cinquantasei anni portati in pieno vigore; e anche perché è tenuto lontano dagli affari di Stato, secondo la ferrea consuetudine che in casa Savoia si comanda uno alla volta.
Di che pasta sia fatto quel piccolo re, se ne accorgono immediatamente coloro che governano l’Italia.
Appena due giorni dopo l’assassinio del padre, il trentunenne re Vittorio Emanuele III convoca il capo del governo, Giuseppe Saracco. Questi non ha nemmeno il tempo di formulare le solite parole di condoglianze, perché il nuovo re gli mostra subito una pila di carte ammucchiate sul tavolo del defunto re. Sono carte che Umberto I non aveva fatto in tempo a firmare, ma che, secondo il nuovo re, non possono essere firmate perché contrastano con lo Statuto.
Saracco, che tra l’altro è un esperto di Diritto, replica alquanto piccato che la valutazione di costituzionalità o incostituzionalità non è competenza del re, il quale deve limitarsi a firmare, come sempre era avvenuto con il defunto re Umberto.
A quel punto, l’esperto uomo politico crede d’aver messo al tappeto il giovinotto, che voleva giocare a fare il re a modo suo. E invece il giovinotto risponde con una immediatezza e una decisione che non lasciano spazio a repliche: «Già, ma d’ora in avanti il re firmerà solo gli errori suoi, non quelli degli altri».
Non si era intimorito di fronte al kaiser Guglielmo II, figuriamoci se il piccoletto non sa tener testa a un capo del governo.
Irritato e sconcertato, Saracco presenta seduta stante le sue dimissioni da capo del governo. È la mossa che, secondo il navigato uomo politico, dovrebbe dare scacco matto al piccolo e giovane re. Infatti, sarebbe troppo rischioso precipitare l’Italia in una crisi di governo, proprio in un momento di tragedia nazionale, che vede la nazione in lutto e alle prese con il passaggio della corona.
Però Vittorio Emanuele III si smarca astutamente, facendo finta di non sentire la presentazione delle dimissioni; ma insiste puntigliosamente che i decreti del governo, prima che alla firma, gli siano portati in lettura.
Dopodiché – patti chiari, amicizia lunga – egli spiega al presidente Saracco come concepisce i doveri suoi e quelli degli altri, dal vertice sino alla base della piramide italiana: «Non ho la pretesa di rimediare con le sole mie forze alle presenti difficoltà. Ma sono convinto che queste difficoltà hanno una causa unica. In Italia pochi compiono esattamente il loro dovere: v’è troppa mollezza e rilassatezza. Bisogna che ognuno, senza eccezioni, osservi esattamente i suoi obblighi. Io sarò d’esempio, adempiendo a tutti i miei doveri. I ministri mi aiuteranno, non cullando alcuno in vane illusioni, non promettendo quando saranno certi di non poter mantenere».
Rigore e serietà si sposano in lui con una notevole intelligenza politica, che lancia chiari segnali a favore di una riconciliazione nazionale (riconciliazione necessaria, dopo i conflitti politico-sociali di fine Ottocento!) e di una rinvigorita collaborazione fra Corona e Parlamento. L’11 agosto 1900, Vittorio Emanuele III giura solennemente fedeltà allo Statuto nell’aula del Senato, pronunciando un discorso, che egli volle scrivere di proprio pugno, ispirato ai princìpi del parlamentarismo liberale e agli ideali di conciliazione e di unità nazionale: «Monarchia e Parlamento – egli afferma in quell’occasione – procedono solidali in quest’opera salutare».
E, cosa rara in tutta la storia italiana dall’unità ad oggi, dalle parole si passò subito ai fatti: l’11 novembre 1900, veniva firmato il Regio Decreto n. 366, nel quale il re concedeva l’amnistia per i reati di stampa e per i delitti contro la libertà di lavoro, e condonava la metà delle pene irrogate per i moti popolari del 1898.
Nere nuvole avevano però accompagnato l’alba del nuovo secolo, che in Italia si apre con il mortale attentato a re Umberto I. Nere nuvole che disegnavano ancora all’orizzonte la repressione dei Fasci siciliani del 1893-94 e i sanguinosi fatti di Milano del 1898. E si può dire che il terrore degli attentati anarchici attanagli il mondo. Infatti, nel 1881 e nel 1901 erano stati uccisi dagli anarchici i presidenti degli Stati Uniti Stephen Cleveland e William McKinley; nel 1894, il presidente della Repubblica francese, Marie François Carnot, era stato ucciso dall'italiano Sante Caserio; nel 1897, il presidente spagnolo Canovas del Castillo era stato ucciso dall'italiano Angiolillo; nel 1898, a Ginevra, l'italo-francese Luccheni aveva pugnalato l'imperatrice Elisabetta, moglie dell'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. Un’ecatombe che non finirà affatto con l’assassinio di Umberto I.
Ora, con l’avvento al trono di Vittorio Emanuele III, l’alba del Novecento sembra fare sperare in una svolta politica e in un avvenire di riconciliazione socio-economica. Basti pensare che il 15 febbraio 1901, a sette mesi dalla sua ascesa al trono, il piccolo re sostituisce il capo del governo Giuseppe Saracco con Giuseppe Zanardelli, l’autore del nuovo Codice penale che abolisce la pena di morte, un politico tollerante ed equilibrato, che preparerà quella che passerà alla storia come l’età giolittiana.
Senza dubbio non esiste un’età dell’oro; e certamente aurea non fu quella giolittiana. Ma di sicuro (con buona pace di Gaetano Salvemini, che definì Giolitti “il ministro della malavita”; e di Gabriele D’Annunzio, che incitò la folla contro Giolitti, “vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino”) quella giolittiana fu un’età di forte spirito liberale, di moderazione, di pragmatismo e di buon senso, in cui la figura del piemontese Giovanni Giolitti primeggerà sulla scena politica italiana, moderando i contrasti parlamentari e attenuando i conflitti sociali. E su tutti, quel piccolo re è visto come il sicuro garante della vita politica italiana in senso schiettamente liberale.
In quel primo decennio del Novecento, la Belle Époque, iniziata alla fine dell’Ottocento, dà il meglio di sé come un periodo di pace e di prosperità. L’illuminazione elettrica, la radio, l’automobile, la pastorizzazione, e tante altre conquiste della scienza e della tecnica, alimentano una sicurezza nell’avvenire e diffondono un larghissimo senso di ottimismo.
Tutti cullano il sogno della scienza come fattore di libertà, di emancipazione, di progresso.
Vogliamo gustarne una grandiosa sintesi artistica? Andiamo alla Scala di Milano, l’11 gennaio 1881, per assistere alla prima del Ballo Excelsior, a cura del coreografo e mimo Luigi Manzotti, con le musiche trionfali di Romualdo Marenco.
Lo spettacolo è esaltante e avvincente, perché ti trovi proiettato in un paradiso umano che surclassa il vecchio paradiso concesso da Dio ad Adamo. È il paradiso della civiltà; è il trionfo della scienza. È la prosecuzione della tradizione allegorica settecentesca e illuministica, che aveva esaltato in scena la dea Ragione.
Si avverte, inoltre, un inno ai princìpi massonici (Marenco era un massone) che mirano ad abbattere tutte le barriere etniche, religiose, ideologiche e politiche; un inno all’ideale massonico della fratellanza, della libertà e dell’uguaglianza.
Sicché, in un grandioso melange di colori, di mimo, di allegoria, di storia e di fantasia, assistiamo alla lotta della dea Luce (la ballerina in veste candidissima) e della dea Civiltà (la ballerina con il corpetto recante la croce dei Savoia) contro l’Oscurantismo. E si succedono quadri che esaltano le grandi conquiste della scienza e della tecnica nel mondo contemporaneo: il battello a vapore di Denis Papin; la pila di Alessandro Volta; la lampadina di Thomas Edison; il canale di Suez; il traforo del Frejus, con l’abbraccio fraterno dei lavoratori francesi e italiani.
E il culmine si raggiunge nel grandioso Galop, che ti travolge, ti rapisce, ma ti commuove al pensiero che quell’inno alla bellezza, alla scienza e alla fratellanza, verrà tradito dalla corsa agli armamenti, dal sangue dell’attentato di Sarajevo e dalla carneficina della prima guerra mondiale.
Quando inizia il nuovo secolo, Parigi lo festeggia con l’Exposition universelle de 1900, che fu un trionfo mondiale non solo per i suoi cinquantuno milioni di visitatori, ma soprattutto per i traguardi raggiunti dalla scienza e dalla tecnica. La gente, venuta da tutto il mondo, poteva ammirare il cinematografo dei fratelli Lumière, la scala mobile (tapis roulant), il tram elettrico, la prima linea della metropolitana parigina.
Ma restiamo ancora nel clima della Belle Époque; e andiamo a Torino presso il Parco del Valentino, nell’aprile 1902, per l’inaugurazione della “Prima esposizione internazionale d’arte decorativa moderna”. Abbiamo da ammirare l’interpretazione italiana dell’art nouveau, dobbiamo misurare l’incidenza del gusto italiano nella realizzazione del Liberty. Alcune correnti d’arte teorizzano che ogni produzione umana può diventare un'espressione artistica. Sicché ogni oggetto e ogni luogo diventa un'elegante decorazione, un motivo floreale, una linea curva e arabesque.
C’è sicurezza e ricchezza nel mondo della borghesia occidentale. La sterlina britannica è il solidissimo punto di riferimento economico internazionale. E sembra che l’Occidente voglia affrontare la vita in modo spensierato e positivo. Gli abitanti delle grandi capitali scoprono il piacere di uscire, anche e soprattutto dopo cena, di recarsi a chiacchierare nei caffè e assistere a spettacoli teatrali. Le strade cittadine sono piene di colori: manifesti pubblicitari, vetrine con merci di ogni tipo, eleganti magazzini. Nella Belle Époque, tra l’altro, nascono nuove forme di intrattenimento come il café-chantant, il cabaret, il can-can. E tutto parla di pace, di divertimento, di progresso e di ricchezza.
Purtroppo, durante la Belle Époque, in quel travolgente e assordante ballo della modernità, pochi ebbero l’orecchio attento per udire lo scricchiolìo e il cedimento di quel mondo fatto di felicità ingannevole e di benessere fondato sullo spietato sfruttamento di ceti sociali subalterni.
Basta una data: il 1905. In quell’infausto anno, l’ordine mondiale viene infranto da due potenze che si affacciano nel lontano Pacifico: l’impero russo e l’impero giapponese. Il 5 febbraio 1904, l’ammiraglio Togo riceve l’ordine di salpare con la flotta imperiale giapponese in direzione della base navale russa di Porth Arthur, in Manciuria. Cinque giorni dopo, il Giappone dichiara formalmente guerra alla Russia. Pochi notano questa mossa sleale del Giappone, che prima attacca e poi dichiara guerra. E la stessa mossa sleale si ripeterà, trentasette anni dopo, con l’improvviso attacco giapponese alla flotta USA a Pearl Harbour, il 7 dicembre 1941.
Ma le sorprendenti affinità fra la battaglia di Porth Arthur e quella di Pearl Harbour, non si fermano qui. Nel 1904, la flotta giapponese deve sferrare un attacco improvviso e inaspettato per distruggere la flotta russa alla fonda a Porth Arthur. Però, la sorpresa del primo giorno non raggiunge gli obiettivi programmati, per cui al secondo giorno i russi si difendono validamente con i cannoni navali e con quelli delle batterie costiere. In ogni caso, la flotta russa rimane imbottigliata, e gli sbarchi giapponesi nella Corea possono tranquillamente continuare.
Il 10 agosto 1904, la flotta russa di Porth Arthur prende finalmente il largo per spezzare il blocco navale giapponese e per raggiungere poi il porto di Vladivostok. Sarà la fine della flotta russa nella battaglia del Mar Giallo.
L’impero russo di Nicola II, pur tra mille difficoltà e mille difetti, decide allora una mossa estrema ed estremamente pericolosa: inviare la sua flotta del Nord, con una navigazione di circa dieci mesi, nell’oceano Pacifico. Al comando dell'ammiraglio russo Rožestvenskij, cinquanta navi da guerra salpano alla fine di agosto 1904 dalla base di Kronštadt, di fronte a San Pietroburgo, dirette a Vladivostok nel Pacifico. Dovranno circumnavigare l'Europa e l'Africa, passando per il Capo di Buona Speranza, per risalire poi l'Oceano Indiano fino all'Estremo Oriente. Una follia!
In dieci mesi, l’ammiraglio giapponese Togo ha tutto il tempo di preparare al meglio la sua flotta e di decidere il punto più favorevole della battaglia. La flotta russa sarà intercettata nello Stretto di Corea, di fronte all'isola di Tsushima. Con navi più veloci e dotate di armi più moderne, guidate con geniale perizia dall'ammiraglio Togo, la flotta imperiale giapponese risolverà tutto in poche ore.
Alla sera del 27 maggio 1905, i cannoni navali giapponesi avevano annientato tutte le otto corazzate della flotta russa e ridotto il comandante russo in fin di vita. Una catastrofe! Occorreranno anni agli Stati Uniti e alle potenze europee, per comprendere che nel Pacifico, con l’impero giapponese, era nata una grande potenza asiatica.
Ma andiamo oltre. C’è una parola che l’Occidente ha dimenticato: la parola “rivoluzione”. Ebbene, nel 1905, dopo la disfatta nella guerra con il Giappone, la Russia viene scossa dalla “Domenica di sangue”.
La mattina della domenica 22 gennaio 1905, a San Pietroburgo, circa duecentomila manifestanti si mettono in marcia verso il Palazzo d'Inverno, per presentare una supplica allo zar Nicola II. Alcuni cortei, fermati all'ingresso dei ponti presidiati dalle truppe, attraversano la Neva ghiacciata, e proseguono il loro cammino verso il Palazzo. Vicino alla Prospettiva Nevskij, un corteo viene respinto a fucilate. Due grandi cortei, unitisi in piazza Trinità, sono caricati dalla cavalleria ma, continuando ad avanzare, vengono affrontati dai soldati, che fanno fuoco lasciando sul terreno più di un centinaio di manifestanti, tra morti e feriti.
Il corteo di ventimila lavoratori guidato da pope Gapon è fermato dalle truppe alla Porta di Narva. Pur caricato dai cosacchi, il corteo rimane compatto e continua ad avanzare, finché viene raggiunto da ripetute scariche di fucileria. Cadono centinaia di operai. I dimostranti si disperdono, ma in migliaia raggiungono a gruppi il Palazzo d'Inverno. Di fronte al Palazzo, duemila soldati fronteggiano una massa crescente che ignora gli ordini di sgomberare la grande piazza. Nel primo pomeriggio, il generale Vasil'čikov ordina di aprire il fuoco. Almeno un migliaio tra morti e feriti – tutti dimostranti – è il risultato della giornata di sangue a San Pietroburgo.
Quella maledetta domenica di sangue sarà l’inizio della fine dello zarismo in Russia, e l'inizio di una rivoluzione i cui effetti si faranno sentire solo dodici anni più tardi.
Nello stesso anno, il 16 agosto 1905, anche l’Italia viene insanguinata in Sicilia, a Grammichele, per quella che passa alla storia come la “Strage di san Rocco”.
Nelle campagne siciliane di allora non esiste la servitù della gleba come in Russia, ma le condizioni sono egualmente disumane. Nei feudi siciliani domina indisturbato e indiscusso il signore. E tutto quello che esiste nel feudo – dalla terra alle piante, dagli animali agli uomini – è semplicemente un “oggetto”, una “cosa” di proprietà del signore.
Grammichele, un piccolo comune della provincia catanese, rappresenta in modo esemplare la condizione di estrema disparità fra la ricchezza di pochissimi e la miseria di moltissimi: campagne bruciate dal sole, che non ripagano mai abbastanza l’immensa fatica di chi lavora una terra matrigna; ondate di malaria che spopolano la zona della Piana di Catania e del Calatino; una mortalità infantile elevatissima, che è un’infinita strage degli innocenti; una vecchiaia precoce e devastante fra i superstiti; sfruttamento disumano, tasse, salari da fame, e rapacità degli usurai fanno il resto.
Si è sempre in lutto nelle nostre campagne! Si è in lutto pure per la perdita di quelli che, scappando da quell’inferno, sperano di trovare, fra mille difficoltà, una migliore condizione di vita e di lavoro nel continente americano. Loro non hanno un Dio che li protegga; loro non hanno un papa che predica l’accoglienza; loro non hanno nessuno, perché sono figli di nessuno. Loro incarnano semplicemente e pietosamente il Dio della solitudine e della sofferenza, il Christus patiens, il Cristo nell’Orto di Getsemani, che trema e suda sangue, mentre i suoi compagni dormono.
Loro non hanno nemmeno un cantore, come invece lo hanno gli emigranti napoletani. Per loro, nessuno canta «Partono e bastimente pe terre assaje luntane...». Per loro c’è solamente un coro di grida dolorose e strazianti che, per tutta la notte precedente la partenza, attraversa le viuzze del paesino. Per loro c’è il pianto omerico delle madri e delle sorelle che restano a Grammichele, mutilate della loro parte di cuore e di viscere che se ne va, per non tornare mai più.
Il 16 agosto 1905 – e chi scrive sa quanto sia viva questa data nella memoria dei suoi amici di Grammichele – si avvia un pacifico corteo organizzato dalla Camera del Lavoro, dalla Lega di Resistenza e dalla Società dei militari in congedo “Umberto I”, che parte dalla centrale piazza Carlo Maria Carafa, e percorre corso Vittorio Emanuele fino alla Stazione di Grammichele, per salutare alcuni emigranti che stanno partendo.
Al ritorno in piazza Carlo Maria Carafa, la folla ascolta alcuni discorsi improvvisati. Tra l’altro, prende la parola spontaneamente un povero contadino analfabeta, Lorenzo Grosso. Questi – secondo quel che riferisce Giuseppe De Felice-Giuffrida, sul giornale socialista l’Avanti! del 24 agosto 1905 – «accenna alle prepotenze baronali, che producono lo squallore dei campi e la miseria dei contadini. Dice che bisogna perseverare nella organizzazione, che è la forza di tutti. E, alludendo alla deliberazione dei proprietari di non ammetterli più al lavoro, se arrivano seguiti dagli asinelli su cui caricano gli strumenti di lavoro, il pane e gli indumenti, protesta vivamente contro il nuovo abuso, che rende più sfibrante e più odiosa la lunga ed opprimente fatica».
Durante questo discorso del contadino Lorenzo Grosso, la folla comincia a lasciare lentamente la piazza. E lo stesso tenente Festa assicurerà personalmente al De Felice-Giuffrida che «vista diradare la folla diedi in un lungo sospiro di soddisfazione, lieto che tutto era finito tranquillamente e accesi la sigaretta e scesi in piazza». Ma il delegato di polizia, Basilicò – sicuramente vuoto di buon senso e forse pieno di pregiudizio verso i contadini di Grammichele – dopo avere richiamato all’ordine il contadino che si era improvvisato oratore, cinge la sciarpa, ordina ai carabinieri di seguirlo e si dirige contro il Grosso. A questo punto la folla torna in piazza a difendere il Grosso e a protestare contro il delegato, che ordina ai carabinieri di sguainare le sciabole e di disperdere i contadini.
Gli animi si riscaldano, la confusione serpeggia nella piazza, la folla s’inferocisce e s’avventa contro il Palazzo Comunale, che racchiude i due simboli dell’ingiustizia e del potere: le cartelle esattoriali e il Casino dei civili, che è il luogo di riunione e di svago riservato ai “civili”, ai “galantuomini”, ai “cappelli”.
La solita jacquerie contadina contro i signori? Certamente, è la solita jacquerie di origine medioevale. Ma la vergogna politica è che, dal Medio Evo in poi, non sono cambiate le condizioni socio-economiche delle campagne siciliane.
In un crescendo di rabbia e di violenza, la folla cerca il fuoco liberatore e purificatore, per dare sfogo a una secolare vendetta. Le cartelle esattoriali sono la materializzazione di tasse ingiustissime; e il Casino dei civili, luogo riservato ai potenti, è stato costruito con le entrate delle tasse. Pertanto, bruciare tutto significa, per la folla inferocita, annientare in un sol colpo il pesante giogo delle imposte.
La situazione degenera; e travolge la folla e i soldati che, schierati sul sagrato della Chiesa Madre, cominciano a sparare. Nella mattinata del 16 agosto 1905, si consuma così non solo una strage politica, ma anche un’offesa all’umanità dolente e martoriata di una massa di “cafoni”. Muoiono sul colpo sei adulti e un bambino di dieci anni. Altre sei persone moriranno poi, per le ferite riportate in quella mattinata di sangue.
Perciò assume uno strano sapore il Discorso della corona, che Vittorio Emanuele III tiene il 30 novembre 1905, denunciando «l’ardente contrasto fra capitale e lavoro». A dire il vero, già nel Discorso della corona del 20 febbraio 1902, il giovane re aveva parlato di giustizia sociale in favore delle classi lavoratrici: «Conviene ora con prudente risolutezza proseguire sulla strada che la giustizia sociale consiglia [...] in sollievo delle classi lavoratrici. Sono felici portati della civiltà nuova l'onorare il lavoro, il confortarlo di equi compensi e di preveggente tutela, l'innalzare le sorti degli obliati dalla fortuna. Se a ciò Governo e Parlamento provvedano, egualmente solleciti dei diritti di tutte le classi, faranno opera memoranda di giustizia e di pace sociale».
Una sensibilità nuova si avverte nel Regno d’Italia verso i problemi dei lavoratori e dei diseredati. E certamente l’enciclica Rerum Novarum, del 15 maggio 1891, aveva lasciato il segno nella coscienza della classe dirigente italiana. Perciò si può dire che nei Discorsi della corona, quasi tutti scritti di proprio pugno da Vittorio Emanuele III, emerge il Leitmotiv della pace sociale da conquistare non col cannone, bensì con l’equità fra le classi sociali, e con una più elevata condizione intellettuale, morale ed economica delle classi popolari. Il che comporta – passando dalle parole ai fatti di un paese non certo ricco – promuovere l’istruzione in un mare di analfabetismo, avviare una legislazione del lavoro per l’operaio e il contadino.
Se consideriamo il periodo che va dal 1900 alla prima guerra mondiale, nel Regno d’Italia – indubbiamente afflitto da mille problemi e da mille ingiustizie – si hanno i primi segni di legislazione sociale: la tutela giuridica degli emigranti (1901); la tutela del lavoro delle donne e dei minori (1902); le misure contro la malaria e per la chinizzazione (1902); l'istituzione dell'Ufficio del lavoro (1902); l'edilizia popolare (1903); gl'infortuni sul lavoro (1904); l'obbligo del riposo settimanale (1907); l'istituzione della Cassa nazionale delle assicurazioni sociali (1907); la mutualità scolastica e l'istituzione della Cassa nazionale per la maternità (1910); l'assistenza a favore dei colpiti da disoccupazione involontaria (1917).
Intendiamoci bene. Un capo dello Stato, sia esso re o presidente della repubblica, nella storia italiana ha dei limiti costituzionali nei confronti del governo e del parlamento. E tali “limiti” comportano il fatto che il merito o il demerito di un’azione politica va, in primo luogo, al governo o al parlamento. E tuttavia bisogna ammettere che c’è un peso innegabile del Capo dello Stato (re o presidente della repubblica) nel favorire o nel contrastare un determinato indirizzo politico. Ovviamente, questo peso può mutare in base alla personalità del Capo dello Stato e alle condizioni storiche in cui quella personalità si muove.
Quindi, fermo restando il merito o il demerito dei governi e dei parlamenti dell’Italia monarchico-liberale, è innegabile la sensibilità politica di Vittorio Emanuele III verso le questioni sociali. E una tale sensibilità farà scrivere a un giornalista di razza, Mario Missiroli, un libro dal titolo La monarchia socialista (1914). Certo non è il caso di indulgere alla retorica degli appellativi affibbiati a re e a papi, ma nel periodo precedente il primo conflitto mondiale, in cui Vittorio Emanuele sarà chiamato “re socialista”, l’«Italietta» monarchico-liberale diventa la settima potenza industriale al mondo.
Questo “re socialista” subisce un attentato, il 14 marzo 1912, per mano dell’anarchico Antonio D'Alba, che gli spara due colpi di pistola, mancandolo. E qui il destino si diverte a giocare con quelli che si credono i “protagonisti” della storia.
Poche ore dopo il fallito attentato, i socialisti riformisti Ivanoe Bonomi, Leonida Bissolati e Angiolo Cabrini andarono a far visita al re e si felicitarono per lo scampato pericolo. Questo gesto di umana civiltà darà il pretesto alla maggioranza del Partito Socialista Italiano di espellere i tre riformisti. Fra i socialisti, il più intransigente fu Benito Mussolini, che accusò i riformisti di connivenze con il «gregge clerico-nazionalista-monarchico», dichiarando «o col quirinale o col socialismo».
Sono fatti così i “duri e puri”. Aut aut. E Mussolini farà così: per quel momento, col socialismo contro il quirinale; fra qualche anno, col quirinale contro il socialismo!
Purtroppo il destino dell’Europa ha un appuntamento: il 28 giugno 1914, a Sarajevo viene assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico. È il casus belli. Il 28 luglio 1914, a un mese esatto dall’assassinio dell’arciduca, l’Austria dichiara guerra alla Serbia. È l’inizio della prima guerra mondiale; è la fine dei sogni di pacifismo e di fratellanza che avevano cullato gli uomini della Belle Époque. E così, lanciati nella fornace della guerra mondiale, più di nove milioni di giovani non torneranno più a casa.
Come poi avverrà nella seconda guerra mondiale, la Germania s’illude di portare a termine la guerra in breve tempo con mosse fulminanti e travolgenti. Così si ha la formidabile avanzata tedesca sul fronte occidentale, colpendo il Belgio e il nord della Francia. 
Il mese di agosto 1914 è decisivo. La Germania, che punta tutto sulla velocità nel fronte occidentale contro la Francia, è costretta a rallentare la corsa sia perché incontra la resistenza francese sia perché viene attaccata, sul fronte orientale, dall’esercito russo.
Ma ancora la forza propulsiva dell’esercito tedesco fa miracoli e terrorizza i suoi nemici. Basti pensare che il 2 settembre il governo francese abbandona Parigi e si rifugia a Bordeaux, città molto lontana dalla capitale, ma molto vicina all’Oceano Atlantico! Sembra tutto perduto in una Francia in preda al caos nelle retrovie (basti pensare che un milione di abitanti scappano da Parigi), ma i comandi militari francesi non perdono la testa, tengono l’esercito sotto controllo e, sotto la guida del generale Joseph Joffre, pongono le premesse per una controffensiva.
Si ha così, tra il 5 e il 12 settembre 1914, la prima battaglia della Marna che si conclude con la vittoria delle truppe anglo-francesi. Questa grande battaglia segna un momento decisivo della prima guerra mondiale, decretando il fallimento dei piani tedeschi e delle loro speranze di vittoria entro sei settimane, e trasforma la guerra in una lunga lotta di logoramento nelle trincee, che sarebbe continuata per altri quattro anni.
Quale sia la posizione italiana allo scoppio di questo conflitto è cosa ben nota. Vittorio Emanuele III appoggia la neutralità dell’Italia. Addirittura, il 24 luglio 1914, il nostro ministro degli esteri, Antonino di San Giuliano, avendo preso visione dei particolari dell'ultimatum austriaco alla Serbia, protesta con l’ambasciatore tedesco a Roma, dichiarando che, se fosse scoppiata la guerra austro-serba, sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna.
Si aggiunga che il re Vittorio Emanuele III era stato, rispetto a suo padre Umberto I, sempre molto meno entusiasta sulla Triplice Alleanza che legava l’Italia alla Germania e all’Austria. Pertanto, visto il maltrattamento austro-tedesco delle richieste italiane per entrare in guerra, e viste le vantaggiose offerte dell’Intesa (sancite nel Patto di Londra), l’Italia lascia la vecchia alleanza con la Triplice e si schiera con le potenze dell’Intesa (Francia, Russia e Inghilterra). Sicché, il 24 maggio 1915, l’Italia entra in guerra contro l’Austria.
Sin dallo scoppio del conflitto, Vittorio Emanuele III decide di seguire da vicino le operazioni belliche. E, per stare costantemente nella zona del fronte, affida la luogotenenza del regno a suo zio Tommaso di Savoia-Genova. Per la precisione (e il fatto non è privo di significato) il re non si stabilisce nella sede del quartier generale di Udine, dove domina Luigi Cadorna, ma in un paese vicino, a Torreano di Martignacco.
Ogni mattina, seguìto dagli aiutanti di campo, parte in macchina per visitare il fronte o le retrovie. La sera, quando ritorna, un ufficiale di stato maggiore viene a ragguagliarlo sulla situazione militare. Vittorio Emanuele III, dopo avere ascoltato, esprime i suoi pareri, senza mai scavalcare i compiti di Cadorna.
A ben riflettere, nel rapporto con il rigido e chiuso Cadorna (con cui non correva buon sangue già dagli anni di Napoli) c’è tutto il rigido e chiuso Vittorio Emanuele di sempre, anche e soprattutto di quel re che vedremo nel periodo successivo alla prima guerra mondiale. E vediamo in breve qual è il comportamento del re. Alcuni giorni dopo l’attentato di Sarajevo, quando già in Europa si addensano nere nubi di guerra, muore improvvisamente per infarto il capo di stato maggiore italiano, generale Alberto Pollio. Su indicazione del generale Baldissera, il re offre la carica di capo di stato maggiore (chissà con quanto piacere!) al generale Luigi Cadorna. Questi, per non smentire il suo carattere, pone al re una condizione: cioè quella di dipendere, gerarchicamente e istituzionalmente, soltanto dal re e non dal governo. Fatte salve le sue prerogative di capo supremo della nazione italiana e delle forze armate, Vittorio Emanuele III accetta la condizione posta da Cadorna, ma gli sta addosso, pur nel rispetto delle prerogative e dei limiti imposti al re dallo Statuto.
In altri termini, Cadorna detiene bensì dei poteri quasi assoluti, che stanno al di sopra del governo e del parlamento; ma il re gli fa sentire la sua “vicinanza”, stabilendosi per tutto il periodo della guerra in un paesino a due passi da Udine, dove il generalissimo Cadorna ha il suo quartier generale. E il fatto, nelle intenzioni del piccolo re, non è per niente simbolico ma sostanziale per due motivi: da un canto, egli invia un segnale alla nazione e ai soldati al fronte riguardo alla sua fattiva e costante partecipazione in prima persona alle sorti della guerra; dall’altro, egli ricorda ogni giorno al generale Cadorna che il re è sempre il re; che egli è per Statuto il capo supremo delle forze armate; che non intende rinunciare a questa prerogativa statutaria; che non vuole scavalcare Cadorna, ma che, in caso di grave necessità, è sempre pronto a intervenire e persino a sostituirlo.
L’occasione storica giunge con la disfatta di Caporetto, nell’ottobre 1917. Approfittando dell’alleggerimento del fronte orientale, dove la Russia non è più pericolosa, perché in preda al caos rivoluzionario, la Germania e l’Austria rafforzano le loro truppe sul fronte italiano, per poi sferrare l’attacco il 24 ottobre 1917. Inizia così lo sfondamento delle linee italiane. Evidente appare l’incapacità del nostro esercito, “costruito” da Cadorna per l’offensiva, a far fronte all’attacco nemico con un’adeguata risposta difensiva.
Si aggiunga che sul regio esercito italiano grava l’eterno problema dell’eccessiva burocratizzazione. Basti pensare che, mentre gli ordini tedeschi passano solo attraverso i comandi di divisione e di battaglione, in Italia si deve passare per il corpo d'armata, la divisione, la brigata, il reggimento e, infine, per il battaglione. Tutto ciò non solo rende macchinosa e lenta ogni azione, quando si tratta di rispondere con celerità alle mosse del nemico, ma addirittura mortifica pesantemente la singola personalità dell’ufficiale.
In tal modo si viene formando una classe di capi militari burocratizzati, che fanno carriera soprattutto col favore dei superiori o all’ombra delle protezioni politiche, senza conquistare alcun merito sul campo di battaglia.
Un solo esempio all’inverso: il ventiseienne tenente Erwin Rommel (il futuro feldmaresciallo tedesco della seconda guerra mondiale, il futuro leggendario comandante dell’Afrikakorps in Libia) guida uno dei tre distaccamenti in cui era stato diviso il suo battaglione. Insieme a 500 uomini, Rommel comincia a scalare le pendici del Colovrat catturando in silenzio centinaia di italiani presi alla sprovvista. Gli uomini di Rommel conquistano quindi senza troppa fatica il monte Nagnoj, dove si piazzano i cannoni tedeschi che cominciano a prendere di mira il monte Cucco di Luico, aggirato da Rommel per non perdere tempo, e preso nel pomeriggio dalle truppe dell'Alpenkorps assieme a elementi della 26ª Divisione tedesca. In quella manovra di aggiramento, il giovanissimo Rommel aveva teso un’imboscata a un gruppo di bersaglieri italiani, facendo circa duemila prigionieri.
Una volta distrutta la brigata Arno, Rommel punta contro il Matajur, dove staziona la brigata Salerno del generale Zoppi. Dopo duri scontri, la brigata Salerno si arrende; e Rommel chiude la giornata con questo bilancio: sei morti e trenta feriti tedeschi, a fronte dei novemila sodati prigionieri e degli ottantuno cannoni catturati.
Il ventiseienne tenente Rommel sarà il più giovane militare tedesco a ricevere la più alta onorificenza militare tedesca, l’ordine Pour le Mérite, per le capacità di comando dimostrate, con il grado di tenente, sul fronte italiano soprattutto durante la battaglia di Caporetto nell’autunno 1917.
Pur sapendo che il genio, sia esso militare o politico, non si costruisce in laboratorio e non è un dono per tutti, riesce tuttavia difficile immaginare, dall’altra parte del fronte, un tenentino italiano che si lancia con i suoi uomini in rischiose operazioni di guerra, senza chiedere ad ogni mossa il permesso al suo immediato superiore, che a sua volta lo chiederà al suo superiore, e questi ancora al suo superiore, e così via salendo al vertice…in attesa di una risposta che, sempre per via gerarchico-burocratica, scenda lentamente dal vertice alla base, se scende.
Beninteso, un esercito non può dare libero sfogo a qualunque proposito degli ufficiali o dei soldati. Esso dev’essere una macchina efficiente, disciplinata, ben lubrificata e addestrata, per raggiungere il suo scopo, che è vincere una battaglia o una guerra. Fanno ridere quelli che ancora sostengono che le piccole città greche vinsero il grande impero persiano armate solo dell’ideale di libertà. In verità, l’ideale di libertà trionfò bensì (e fortunatamente), ma perché trionfarono i valorosi e compatti opliti spartani e i disciplinatissimi equipaggi delle navi ateniesi.
Quindi, un esercito dev’essere una macchina efficiente e pronta a rispondere ai comandi. Per contro, una macchina burocratizzata scambia la disciplina con il rispetto formale e deresponsabilizzato dei comandi, sacrifica la celerità delle mosse sull’altare dell’osservanza cieca della disposizione dall’alto, e soprattutto annulla gli spazi vitali di azione, grazie ai quali ogni soldato – come ebbe a dire Napoleone – porta nella sua giberna il bastone di maresciallo, quando lo merita.
Ciò significa che in ogni corpo collettivo, in ogni societas, la sacrosanta necessità delle leggi, nate per evitare il caos e l’anomia, non deve degenerare nell’asfissiante burocratizzazione che finisce col produrre dei funzionari microcefali, e non già uomini che occupano i loro posti per un merito dimostrato e verificato.
Certo, il genio, come il coraggio, chi non ce l’ha non se lo può dare. E Alessandro Magno, e Annibale, e Giulio Cesare, e le Grand Turenne, e le Grand Condé, e Napoleone, sono pezzi rari in cui – come avrebbe detto il filosofo Hegel – s’incarna lo Spirito del Mondo. Ma questi geni non si sarebbero manifestati, se non avessero avuto eserciti alla loro altezza.
Purtroppo, a questa schiera di grandi non appartiene, con tutto il rispetto, il generalissimo Luigi Cadorna nella disfatta di Caporetto. In quell’occasione, dopo aver raggiunto Treviso, la sera del 27 ottobre 1917 Cadorna detta un bollettino di guerra in cui attribuisce la sconfitta alla «mancata resistenza di reparti della 2ª Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico». Così facendo, come succede spesso e volentieri, Cadorna scarica la responsabilità del disastro di Caporetto sulla viltà e l’ignominia della truppa, e non già sugli errori suoi e degli uomini del suo comando.
Comunque, con Caporetto arriva l’ora del redde rationem per Cadorna, che certamente qualche nemico se l’era procurato con il suo caratteraccio e con i suoi poteri quasi assoluti. Non gode di molte simpatie tra i politici, che si erano visti imporre l’esclusione del governo e del parlamento nelle decisioni del generalissimo Cadorna; non gode dell’affetto della truppa; non ha mai avuto la benevolenza del re, che lo aveva nominato capo di stato maggiore con poco entusiasmo; ora non gode nemmeno la fiducia degli alleati inglesi e francesi.
Infatti, nella Conferenza di Rapallo, del 6 e 7 novembre 1917, in cui si incontrano i primi ministri di Francia, Italia e Inghilterra, e in cui si parla di come aiutare militarmente l’Italia a riprendersi dalla sconfitta di Caporetto, una condizione imprescindibile è quella della sostituzione di Cadorna e dei suoi collaboratori. Secondo gli alleati, bisogna voltare pagina; e magari sostituire Cadorna con Emanuele Filiberto di Savoia duca d’Aosta, comandante della 3a Armata.
La delegazione italiana, conoscendo il giudizio negativo del re e dei politici su Cadorna, tira un sospiro di sollievo e torna per riferire al re. Si trova quindi una soluzione “diplomatica”: Cadorna, promoveatur ut amoveatur, lascia il comando per rappresentare l’Italia nel Consiglio supremo di guerra alleato. Il re accetta volentieri di destituire Cadorna, ma non intende sostituirlo con il duca d’Aosta. Risultato immediato: a ventiquattr’ore dalla chiusura della Conferenza di Rapallo, la sera dell’8 novembre 1917, il napoletano Armando Diaz viene nominato dal re capo di stato maggiore al posto del piemontese Cadorna. E sarà una corsa frenetica a risollevare un esercito e una nazione in ginocchio.
Fra i tanti protagonisti più o meno degni di stare sul palcoscenico della storia, spesso ci si scorda di ricordarne uno: i «ragazzi del ‘99», i ragazzi nati nel 1899, che allora avevano appena diciotto anni e che furono mandati al fronte.
Con un piano di attacco che prevede un colpo concentrato su un unico punto (cioè Vittorio Veneto), nella notte tra il 28 e 29 ottobre 1918, Diaz passa all'attacco, con teste di ponte isolate che avanzano lungo il centro del fronte, facendo allargare le ali per coprire l'avanzata. Il fronte dell'esercito austro-ungarico si spezza, innescando una reazione a catena ingovernabile. Il 30 ottobre 1918 l'esercito italiano arriva a Vittorio Veneto, mentre altre armate passano il Piave e avanzano, arrivando a Trento il 3 novembre. Il 4 novembre 1918, l'Austria-Ungheria capitola. È la vittoria!
Lo stesso giorno, 4 novembre, alle ore 12, Armando Diaz firma con giustificato orgoglio il Bollettino di guerra n. 1268, che è passato alla storia come il Bollettino della Vittoria: 
«La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S. M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. […] L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subìto perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza».
Questo Bollettino della Vittoria andava a memoria per tutti i ragazzi italiani, sino ai miei tempi.
Tanti sono i meriti, spesso trascurati o ignorati, di Diaz. Ma, a voler sintetizzare il valore dell’operato del comandante del regio esercito italiano, nulla è più adatto delle sue stesse parole: «Non mi faccio illusioni su me stesso, ma posso dire di avere avuto un merito: quello di equilibrare le forze e gli ingegni altrui, di far regnare la calma fra i miei generali e la fiducia fra le mie truppe. Sento che questa è la mia caratteristica».
Parole intrise di verità e di modestia. La modestia dei veramente grandi. La modestia, cioè, di coloro che hanno consapevolezza di essere stati non già autori esclusivi, ma collaboratori dell’opera compiuta da molti individui, dell’opera che è della Storia. In verità, le imprese attribuite a un Alessandro Magno o a un Napoleone, sono e non sono di Alessandro o di Napoleone, perché ad esse hanno contribuito e una moltitudine di uomini e un intreccio di accadimenti e un complesso di condizioni storiche.

(continua)

                        

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