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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

Università di Catania - Italia

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

IL MIO OMAGGIO A CALTAGIRONE

2025-02-06 18:07

Prof. Giuseppe Pezzino

Pezzino, Caltagirone, Scuola, Secusio, Liceo Scientifico, Professori,

IL MIO OMAGGIO A CALTAGIRONE

Non avevo mai visto la città di Caltagirone. Conoscevo un po’ la sua storia e il suo patrimonio politico-culturale, ma non avevo mai avuto contatti diretti. Anz

Non avevo mai visto la città di Caltagirone. Conoscevo un po’ la sua storia e il suo patrimonio politico-culturale, ma non avevo mai avuto contatti diretti. Anzi, ad essere precisi, da ragazzo avevo conosciuto indirettamente questa città nella persona del mitico barbiere Gesualdo, un caltagironese-democristiano trapiantato a Catania nel mio quartiere, in piazza Crocifisso Majorana. E bisogna ammettere che il mite ma attivissimo Gesualdo era un buon barbiere e un buon politico, avendo saputo trasformare la sua bottega in una specie di sezione politica della DC. Per contro, a un tiro di schioppo, il ciabattino catanese-comunista don Puddu aveva costituito una sorta di cellula politica, riunendo attorno al suo deschetto da lavoro tutti i comunisti del quartiere.

Insomma, a parte questi ricordi di ragazzino, io – professorino di sinistra – sapevo soltanto che Caltagirone era una roccaforte della Democrazia Cristiana. E debbo confessare che, essendo questa città legata a figure politiche del calibro di un don Luigi Sturzo e di un Mario Scelba, Caltagirone metteva in crisi il mio giudizio-pregiudizio secondo cui la DC era soltanto il regno dell’ignoranza, dell’affarismo, del clientelismo e del parassitismo.

Una visione, questa, alquanto manichea e semplicistica (lo ammetto), che però aveva una qualche giustificazione “storica”. Infatti, era ormai tramontata la vecchia DC catanese, radicata nel territorio e nella coscienza civile dei cittadini; la DC della scelta occidentale per la libertà contro il comunismo di Stalin; la DC di tanti giovani provenienti dall’Azione Cattolica; la DC del sindaco Magrì o del sindaco La Ferlita; la DC che anche a Catania aveva avuto un timbro scelbiano e calatino.

In altri termini, allorché da giovane mi affacciai alla politica, era già il periodo del centro-sinistra, quando la DC di Moro, di Fanfani e di Andreotti si accompagnava ai compagni socialisti, riuscendo a elaborare formule esoteriche, come le “convergenze parallele”, tanto magiche quanto oscure per il popolo bue. E questo simpatico abracadabra delle “convergenze parallele”, che sfidava la geometria del volgo, fu precursore di alcune formule misteriose che, oggi, qualcuno ricama così: «Ci piace portare… diciamo… insieme ai nostri amministratori il partito […] verso un futuro che grazie anche alle nuove norme europee sempre più investa e costruisca dei cicli positivi …diciamo… della circolarità uscendo dal modello lineare. È questo il tema».

In quel periodo, la svolta del centro-sinistra vide la DC catanese ruotare attorno a un democristiano onnipotente: l’ingegnere Antonino Drago. Erano gli anni Sessanta e, con un certo ritardo rispetto al Nord, da noi si parlava di boom, si celebrava Catania come la “piccola Milano del Sud”, e si respirava l’aria del miracolo economico italiano.

A dire il vero, per la politica meridionale in genere, e per quella catanese in particolare, si trattò di una sorta di “corsa all’oro del Klondike”. Erano gli anni in cui il tipico leader democristiano catanese andava a Roma (al Parlamento o al Governo) per trovare un filone aurifero, una miniera di soldi da portare al Sud.

C’era un disegno politico per lo meno decente, una strategia politico-economica nazionale e locale? Assolutamente no. L’unico straccio di strategia era quello dello “spendi e spandi”, di spendere senza freni e senza senso pur di spendere, innescando un circolo vizioso di indebitamento pubblico, di inflazione, di aumento dei prezzi, a cui si rispondeva stampando altro denaro, indebitandosi ancora di più e perpetuando tale circolo vizioso. Ovviamente un senso lo si poteva cogliere facilmente ed era questo: conquistare e alimentare il favore elettorale-clientelare, rispondendo alle necessità o ai privilegi dei clientes per mezzo del denaro pubblico

In breve, negli anni del boom, il leader politico meridionale, al di là delle ipocrisie e delle chiacchere, era un vero e proprio collettore, ossia un raccoglitore di finanziamenti da spendere in sede locale per i propri clientes-elettori.

E la parola d’ordine – facendo il verso al Mussolini della dichiarazione di guerra – fu “una sola, categorica e impegnativa per tutti”: Arricchitevi!

E l’inno nazionale diventò una canzonetta (“Soldi, soldi, soldi”) che, in quegli anni Sessanta, Betty Curtis cantava così: «Prendi, spandi e spendi / Non domandare da dove provengono».

Ma torniamo alla mia microscopica “storia” personale e alla genesi del mio antico innamoramento per Caltagirone.

Nel 1963, avevo 18 anni; e da tempo avevo lasciato l’Azione Cattolica, mi ero iscritto al PCI e frequentavo il primo anno di università nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania.

Con la laurea fresca di giornata, a 23 anni conquistai una supplenza annuale per insegnare materie letterarie in una Scuola Media a Ferrara. E partii immediatamente alla volta della pianura padana. E fu, tranne la nebbia, una bellissima esperienza che inaugurò la mia felice (almeno per me!) storia scolastica conclusasi poi a Caltagirone.

Si aggiunga che, durante il mio insegnamento a Ferrara, mi preparai per i concorsi ed ebbi il mio piccolo successo. Per cui l’anno dopo, a 24 anni, ottenni la cattedra di Filosofia, Pedagogia e Psicologia al Magistrale “Quintiliano” di Siracusa. Arrivare a Siracusa era un bel salto, che mi permetteva di tornare a casa, pur facendo ogni giorno il piccione viaggiatore. L’anno successivo, venticinquenne, passai al Liceo Scientifico “Corbino” di Siracusa, con la cattedra di Filosofia e Storia.

Non è irrilevante sottolineare che ogni giorno andavo a Siracusa (allora non esisteva neppure l’idea platonica di un’autostrada!) con una potentissima e confortevole (si fa per dire) Fiat 500 di allora, quella che, per scalare la marcia, dovevi saper fare la “doppietta”.

Quell’anno, stanco di viaggiare, ma non certamente stanco del Liceo siracusano, chiesi trasferimento nella provincia di Catania sperando di avvicinarmi ancora di più a casa. E fu così che mi destinarono al Liceo di Caltagirone!

Nel mio giovanile entusiasmo speravo in una sede più vicina, trascurando il fatto che la provincia catanese era popolatissima di insegnanti “antagonisti”. Comunque, rimasi alquanto deluso perché il disagio del viaggio giornaliero era rimasto intatto, se non peggiorato.

A dire il vero, il mio animo grigio non nasceva soltanto da questioni di distanza e di chilometri, ma nasceva anche dal fatto che lasciavo il Liceo Scientifico “Corbino” di Siracusa – dove ero stimato e a cui mi ero legato – per andare verso l’ignoto mondo calatino.

In breve, a 26 anni, affrontai con la mia 500 colore giallo ocra la Catania-Gela per raggiungere Caltagirone.

Quella mattina ero un po’ triste, in verità. Ma fui addirittura assalito dallo scoramento quando – lasciata la Catania-Gela, affrontata la salita di via delle Sfere e giunto alle prime case della città – mi circondò e mi bloccò una mandria di mucche guidate da una giovane e da un ragazzino.

Insomma, il comitato d’accoglienza che mi riservava Caltagirone era composto da un certo numero di mucche da latte! Certamente non speravo in un comitato di notabili che mi accogliesse offrendomi le chiavi della città, ma, vivaddio, una mandria di mucche… Ebbi un tuffo al cuore. E confesso di avere esclamato: Santi numi! ma dove sono andato a finire?

Per un attimo, stando in mezzo alle mucche, fui proiettato in un dipinto del macchiaiolo Giovanni Fattori; e mi sentii un cavaliere buttero della maremma toscana, mentre fa pascolare una mandria di vacche e di vitelli.

Nel frattempo, aspettando che la mandria lentamente scendesse e mi lasciasse salire, pensai alla stranezza di questo “incontro fatale”, e soprattutto osservai meglio i due giovanissimi mandriani: entrambi molto belli, sicuramente fratello e sorella.

Questi due personaggi erano uno spettacolo che non lasciava indifferenti. Ammetto che non osservai tanto i loro modi rozzi, la sporcizia del loro corpo e dei loro indumenti, il loro linguaggio quasi animalesco nel mettere ordine e scagliare ordini alla mandria. Cominciai invece a contemplare i loro occhi azzurri, i loro capelli biondi, i bei lineamenti del viso, che mi colpirono e mi rimasero nella memoria.

Da quel giorno, infatti, diventarono per me un appuntamento gradevole, uno spettacolo familiare, un qualcosa che mi lasciava deluso tutte le volte che non li incontravo.

In quegli appuntamenti mattutini, ebbi modo di scoprire anche il capo famiglia: usciva dalla stalla, assieme alla mandria, un uomo ancora vigoroso, con gli occhi azzurri e un enorme paio di baffi da vichingo; non aveva la spada e l’elmo con le corna, ma, vi giuro, era un vichingo.

Sapevo che a Caltagirone esistevano tracce della Repubblica marinara di Genova, ma non potevo credere all’esistenza di una colonia di vichinghi nel Calatino! Più probabile che i mandriani di via delle Sfere fossero discendenti dei Normanni di re Ruggero II d’Altavilla.

Ad ogni modo, una volta “sbarcato” a Caltagirone, scoprii che la città non aveva affatto capanne con tetti di paglia, ma bei palazzi moderni e larghe strade piene di vita e di vivacità. Raggiunsi in pochissimo tempo il Liceo “Secusio”. E non lieve fu la mia meraviglia nel vedere dall’esterno un imponente e vasto complesso di edifici scolastici che non avevano nulla da invidiare al Liceo “Cutelli” di Catania, dove avevo studiato. Soprattutto apprezzai moltissimo questo segno di civiltà verso la scuola pubblica, un segno che testimoniava la lodevole cura dei politici e degli amministratori a beneficio dei giovani studenti e del patrimonio scolastico di Caltagirone.

Parcheggiata la mia gloriosa 500 nel vasto cortile interno (una comodità e un privilegio che non potevano offrire le scuole dove avevo insegnato prima), varcai la soglia del “Secusio” per fare il mio primo dovere: quello, cioè, di presentarmi al preside.

E qui, a tal proposito, occorre aprire una parentesi. Non conoscevo assolutamente il preside Alba; e quindi, ignaro del pericolo, andavo nella tana del lupo! Lo vidi solo quella volta, quando arrivai a Caltagirone e lui era all’ultimo anno di servizio. Conobbi dopo – e quindi relata refero, riferisco notizie apprese da altri – il profilo umano e professionale di questo leggendario personaggio.

A Caltagirone, Gaetano Alba era per tutti il preside per antonomasia. Autorevole e autoritario, famoso e famigerato, egli si muoveva circonfuso di luce cupa, o meglio, non si muoveva ma marciava sempre invitto sulla testa del malcapitato di turno, fosse pure docente o studente o bidello.

Potentissimo – vantava amicizie o parentele fra gli scelbiani-calatini della Direzione Generale del Ministero della Pubblica Istruzione – Alba poteva prendere in qualsiasi momento il telefono e fare una violenta lavata di capo ai vertici del Provveditorato di Catania, per cacciare indietro un professore o una professoressa incapace. E se si muoveva, si può star certi che – a dispetto delle graduatorie, dei regolamenti e delle leggi – il panzer Alba cacciava via un professore a suo giudizio indegno, respingendolo al mittente, ossia al Provveditorato, come si rifiuta una merce avariata respingendola alla ditta fornitrice.

Quando aveva occasione di illustrare le linee fondamentali del suo “Regolamento”, il preside Alba dimostrava una felice capacità di sintesi, un eloquio ornato e una innata inclinazione al dialogo, ricorrendo a frasi di questo genere per le professoresse e i professori: “Vi rumpu i cosci!”, oppure “Non siti capaci mancu di insegnare a bona crianza agli studenti”.

Tantissime volte si vide qualche giovane professoressa uscire in lacrime e singhiozzi dalla presidenza, per prendere mestamente la via di Catania con un’andata senza ritorno.

Insomma, Alba era il Terrore in persona; era il Robespierre del “Secusio”, anche se magnanimamente non ricorreva alla ghigliottina. Perciò a buon diritto egli avrebbe potuto dire: La Terreur c’est moi! Il Terrore sono io! E se poi pensiamo che al “Secusio” venivano formate intere generazioni di giovani, si può capire come gli studenti, le famiglie e tutta la città temessero i fulmini di Zeus-Alba. E mai fu più appropriata per lui la frase di Tosca riguardante Scarpia: «Avanti a lui tremava tutta Roma!». E veramente tremava tutta Caltagirone.

Ma torniamo alla mia esperienza. All’ingresso della scuola, mi venne incontro un omettino dall’occhio sveglio e dal fare ossequioso – alquanto curvo, un po’ per l’età e un po’ per reverenza –, che subito mi prese in consegna. Costui era il bidello Copernico.

Dire che il bidello Copernico fosse allora un’istituzione per il “Secusio” significherebbe dire poco, sminuirlo e fargli torto. E per conoscere meglio questo personaggio, bisognerebbe tener presente anche il succitato preside Gaetano Alba. Perché? Ma perché al “Secusio” di Caltagirone i due formavano una coppia indissolubile e inossidabile, o meglio un aristotelico sinolo, un σύνολον di materia e forma. Dove la forma era Alba e la materia era Copernico.

Seppi dopo che il buon Copernico aveva un alto concetto del suo lavoro di bidello: insomma lui non lavorava, lui viveva per il suo preside, a cui si dava con un amore oblativo senza pretendere nulla in cambio. E di Alba conosceva i pregi (pochini, in verità) e i difetti (tanti!).

Ragion per cui il bidello Copernico subiva nell’arco della giornata delle portentose metamorfosi: ora diventava un fedelissimo palafreniere, che camminava alla staffa del guerriero Alba che cavalcava cinto di armi e di gloria; ora indossava i panni del sacerdote, che traduceva al volgo profano dei docenti e degli studenti l’oracolo misterioso e numinoso del dio Alba; ora diventava un novello Pier delle Vigne, che deteneva “ambo le chiavi del cor” di Gaetano I d’Alba; ora si atteggiava bonariamente a eminenza grigia della presidenza, quasi un Richelieu-Copernico nella reggia del “Secusio”; ora diventava una sorta di san Sebastiano trafitto dalle frecce di un preside furioso, che scagliava la prima ondata di strali e di maleparole sul martire Copernico.

A tal proposito, adesso riporto un significativo aneddoto vissuto e narratomi da alcuni ex studenti. Agli albori della contestazione studentesca, anche a Caltagirone spirò una lievissima brezza sessantottesca; e così persino gli studenti del “Secusio” tennero la loro bella assemblea in Aula Magna.

Ad un tratto, “nel momento culminante del finale travolgente”, si ebbe nell’Aula Magna l’epifania dello Spirito, ossia l’apparizione del preside Alba scortato dal palafreniere Copernico.

Fu un colpo di fulmine che si abbatté sull’assemblea ancora in corso. Fendendo la folla come un rompighiaccio, la cui punta era Copernico, Alba andò al tavolo della presidenza e, con alta sensibilità democratica, ruggì queste fatali parole: – Dichiaro chiusa l’assemblea!

Calò il gelo; scese il sipario della storia; e regnò il silenzio nell’Aula Magna. In questa maniera tanto solenne quanto diplomatica, il preside Alba chiuse vittoriosamente la sua partita con il Sessantotto e con la storia. Che fare? – Avrebbe detto Lenin. Ma Lenin non conosceva lo zar Gaetano Alba, a cui i Romanov e i bolscevichi avrebbero fatto un baffo.

Ad ogni modo, varcando la soglia del “Secusio” io conobbi – e fui fortunato – un bidello Copernico nelle vesti di un mite Caronte, che mi traghettò sulla sponda infernale della presidenza, suggerendomi sommessamente, durante la traversata, alcune norme di comportamento nei riguardi del preside.

Giunti ad limina, il maggiordomo Copernico mi disse ossequiosamente di aspettare dietro la porta della presidenza, perché lui andava ad annunciarmi al preside. Conclusa l’annunciazione, l’arcangelo Gabriele-Copernico aprì la porta e – le mani giunte, gli occhi bassi e l’aureola luminosa – pronunciò con cadenza calatina la formula “Trasissi pruffissuri”. Quindi, senza mollarmi, mi precedette al cospetto del preside.

Varcata la soglia del sancta sanctorum del tempio, mi aspettavo di trovare una figura angelicata dietro la scrivania. Macché! Sulla poltrona del preside non c’era nessuno. Ma allora il preside non c’era? Che domanda! Certo che c’era, eccome! C’era, perché Alba, come Dio, era in cielo, in terra e in ogni luogo. Ma io non lo sapevo.

Dopo una frazione di secondo di smarrimento, quasi accecato come san Paolo sulla via di Damasco, vidi il preside Alba vicino al tavolo, in piedi, immobile, rigido più che eretto, muto più che silenzioso. Guardava sempre fisso verso l’infinito, non so se per la sua substantia soprannaturale, oppure perché concentrato su questioni ben più serie della mia meschina persona, o forse per un incipiente declino senile.

Sta di fatto che fu provvidenziale l’intervento del maggiordomo Copernico, il quale si accostò devotamente al preside e gli presentò “u pruffissuri Pezzinu”. Allora da quel corpo immobile venne fuori prodigiosamente una sorta di ruggito per chiedermi: – Professore, ha preso visione del Regolamento d’Istituto?

A dire il vero, io quella mattina avevo preso visione soltanto della mandria di mucche e degli occhi azzurri dei giovanissimi mandriani. Ma, con un colpo d’ala e di fortuna, mi salvai rispondendogli con una sfacciata bugia: – Sì, signor preside, ho preso visione del Regolamento.

A questa mia risposta, l’immobile e ineffabile preside Alba mi congedò così: – Vada a prendere servizio. Al che io salutai rispettosamente da lontano e, tutto serio e compunto, guadagnai l’uscita della presidenza.

Da quel giorno fatale, non vidi più il leggendario preside Alba. Ma posso ben vantarmi di aver conosciuto in lui un individuo cosmico-storico. Insomma, come Hegel a Jena vide passare a cavallo lo Spirito del mondo incarnato in Napoleone; così io a Caltagirone vidi lo Spirito del mondo incarnato in Gaetano Alba!

Comunque, una volta lasciata la presidenza e tornato fra i mortali, il mite Copernico mi consegnò un utile viatico di consigli, di indicazioni e di suggerimenti, per affrontare al meglio il mio periglioso viaggio nel mondo del Liceo “Secusio” di Caltagirone.

E poi? E poi Copernico si sottrasse alla mia vista; sparì come il Genio della lampada di Aladino.

Allora entrai nei locali della segreteria, dove conobbi delle anime in pena che risposero al mio saluto con “buona creanza” (avrebbe detto il preside Alba), ma senza calore e senza alzare la testa.

Tutti giacevano sepolti da montagne di carte, scartoffie e pratiche burocratiche, al punto tale che, con raccapriccio, immaginai ciascuno di loro tornare a casa, cadere a pezzi su una sedia, e scambiare la moglie per una carpetta o per un certificato di servizio.

Però, col passare dei giorni, mi accorsi che non erano affatto anime morte, bensì persone con la loro storia, la loro sensibilità, le loro idee, i loro problemi. Presto diventammo amici, per quello che può consentire il lavoro e la vita in una scuola.

A onor del vero, con uno di loro, quello che appariva il più sgarbato, il più scostante, il più misantropo (il dott. Aldo Montemagno), intrecciai una solida e profonda amicizia.

Dietro la sua arcigna corazza, Aldo Montemagno nascondeva tesori di cultura, di umana sensibilità, di estro poetico e di spirito simpaticamente ironico. D’altronde, la sua storia personale dice tutto: giovane e raffinato intellettuale, accanito bibliofilo, Aldo lascia la Sicilia per stabilirsi a Firenze, dove frequenta le avanguardie culturali del tempo. Coltiva la poesia con promettenti premesse, e pubblica un suo volume di bei versi, che egli, pur così schivo, mi fece leggere.

Aveva talento, Aldo Montemagno. E forse si può immaginare quale colpo tremendo fu per lui l’interruzione di quella stagione fiorentina, e quindi il dover tornare a Caltagirone, per chiudersi in un suo bozzolo di solitudine avvelenata, tutto solo con le sue sigarette, solo in una stanza di segreteria scolastica ad arronzare un lavoro odioso, solo in una casa fredda e vuota, piena di tantissimi libri.

Io ebbi la fortuna e il privilegio di conoscere il vero Aldo Montemagno, con il suo sorriso aperto e ironico, con la sua cultura non superficiale e non d’accatto, con la sua disponibilità all’amichevole conversazione, al dialogare mai superficiale e sempre interessante e stimolante.

A tal proposito, devo ammettere che ho contratto un inestinguibile debito verso la città di Caltagirone. Un debito, per la possibilità che questa città mi offrì di vivere e crescere assieme ai miei studenti e ai miei colleghi; un debito, per avermi donato tanti amici preziosi come Aldo Montemagno e tanti altri. E questo debito verso Caltagirone si rinnova per me anche oggi, sia per l’affetto dei miei ex alunni e dei miei ex colleghi, sia per gli antichi e nuovi vincoli di amicizia che mi legano a persone stimate e stimabili del Calatino.

E ancora oggi torno volentieri nella “mia” Caltagirone, dove ho lasciato un pezzo del mio cuore. E torno a ritrovare il piacere di conversare con gli amici, a salutare “da lunge” il mio vecchio Liceo, a passeggiare per il viale Mario Milazzo, ripensando all’amico Giacomo Scivoli, insuperato maestro pasticciere, a rovistare il centro storico fra ceramiche, cuddureddi e cassateddi, a occhieggiare belle persone ai piedi della Galleria Sturzo, a contemplare oziosamente le piastrelle della Scala dâ Matrìci, a spiare furtivamente quei vicoli stretti che mi ricordano i “carruggi” genovesi.

Ma, suvvia, torniamo al liceo! Quando, nel 1971, arrivai a Caltagirone, il “Secusio” viveva una sua stagione “storica” per due fattori principali: da un canto, stava per spegnersi l’astro del preside Alba che, per raggiunti limiti di età, concludeva in quell’anno la sua monarchia assoluta; dall’altro, stavano maturando i tempi per dare legalmente e amministrativamente una vita autonoma a quella cellula di Liceo Scientifico, che si era sviluppata nel seno del Liceo Classico “Secusio”.

Prova ne sia che io entrai a Caltagirone insegnando in una sezione (la sezione B) di un Liceo Scientifico non ancora autonomo, ancora legato organicamente al “Secusio” (un solo preside (Alba), una sola segreteria, un solo patrimonio di locali).

Quello fu un anno di transizione, con un preside Alba che era l’ombra di sé stesso, e con un eroico vice-preside, il prof. Giuseppe Di Bella, che doveva ogni giorno inventarsi il ruolo di preside, di vice-preside e di docente. 

Solo l’anno successivo, nel 1972-73, avvenne la separazione del Liceo Scientifico dalla sua cellula madre. E così ci furono i primi due presidi: il calatino Giuseppe Chiarandà per il “Secusio”, e il catanese Guido Bellia per il Liceo scientifico. Ho sottolineato la loro “origine”, per far notare che a Caltagirone, come in tantissime altre scuole della provincia catanese, esistevano due “insiemi” di docenti: il gruppo autoctono e stabile dei docenti abitanti nel Calatino; e il gruppo degli “stranieri”, dei catanesi, dei pendolari, che apparivano e sparivano nel corso degli anni. I due gruppi potevano essere a volte amalgamati, a volte distanti fra loro, a volte contrapposti.

La mia personale esperienza mi porta a riconoscere onestamente ai due gruppi di docenti di allora una non comune capacità di superare certi schemi campanilistici, insomma una lodevole capacità di cogliere i segnali positivi da qualunque parte potessero provenire. Ne ebbi una prova chiarissima e sorprendente quando, dopo qualche mese dal mio arrivo, l’assemblea dei colleghi del Liceo classico e scientifico mi elesse al Consiglio di Presidenza.

A onore dei miei colleghi e della verità, ho il dovere di aggiungere che, l’anno dopo (1972), quando io iniziavo il mio secondo anno di insegnamento, fui testimone e protagonista di una vicenda che dimostrò, a me e a tutti, come i docenti del Liceo Scientifico di Caltagirone sapessero superare pregiudizi e chiusure sia verso il preside sia verso qualunque collega.

Come ho dianzi detto, nel 1972-73, il Liceo Scientifico ormai autonomo ebbe il suo primo preside nel catanese prof. Guido Bellia. Questi, nei primissimi giorni del suo insediamento, mi convocò come membro del vecchio Consiglio di Presidenza e, con onesta schiettezza, mi disse: – Professore, in attesa del nuovo Consiglio di Presidenza, io le chiedo la massima collaborazione in questa fase, ma le anticipo lealmente che, se lei dovesse essere nuovamente eletto nel nuovo Consiglio, io non la designerò come vice-preside. Lei sicuramente capirà che io, provenendo da Catania, ho bisogno di lanciare un segnale di apertura verso i docenti del Calatino, designando un vice-preside fra i docenti di Caltagirone presenti nel Consiglio di Presidenza.

Rispettosamente gli risposi: 1) che poteva contare sulla mia incondizionata e leale collaborazione in attesa del nuovo Consiglio di Presidenza; 2) che apprezzavo e condividevo la sua politica di apertura verso i docenti del Calatino; 3) che non avevo alcuna “ambizione” di fare il vice-preside; 4) che comunque avrei fatto del mio meglio come docente del Liceo Scientifico di Caltagirone.

Ci lasciammo così in un clima di cordialità e di reciproca stima.

Poi venne il giorno dell’elezione del Consiglio di Presidenza. E l’assemblea dei docenti, nell’eleggere il gruppo dei membri del suddetto Consiglio, riservò l’unanimità dei voti al prof. Giuseppe Pezzino.

Quell’unanimità dei colleghi fu per me un segno di rinnovata e accresciuta stima nei miei confronti. E questo mi bastò e mi onorò tantissimo. E non l’ho mai dimenticato!

Visti i risultati dell’elezione, prese la parola il preside Bellia con tono fra il solenne e l’amichevole: – Ringrazio l’Assemblea per avere espresso democraticamente e serenamente la propria volontà in merito al Consiglio di Presidenza. Per quanto mi riguarda, vi dico subito che io avevo intenzione di designare un vice-preside calatino per lanciare a tutti un segnale di equilibrio e di collaborazione, ma, visto che l’assemblea ha conferito l’unanimità al prof. Pezzino, io designo come vice-preside il prof. Pezzino.

A ventisette anni, fui il primo vice-preside nella storia del neonato Liceo Scientifico di Caltagirone. Cercai di fare del mio meglio sia come docente sia come vice-preside. Ci riuscii? Non sempre, come ogni comune mortale.

A questo punto, mi corre l’obbligo di un chiarimento: ho indugiato nella cronaca della vice-presidenza non già per auto-celebrarmi, bensì per rendere onore, narrando fatti concreti, allo spirito di collaborazione, di equilibrio e di apertura di tutti (e sottolineo tutti!) i miei colleghi di Caltagirone. 

I miei colleghi? Non posso ricordarli tutti; e chiedo scusa ai tantissimi che per dimenticanza non citerò. Rimasi per tre anni al Liceo di Caltagirone; e alla mia mente tornano spesso i frammenti della vita scolastica di allora. Ricordo ancora l’entusiasmo, la vivacità intellettuale, la cordialità di Alfonsina Campisano, una delle colonne del Liceo. E la valorosa Maria Struzzo, che insegnava chimica nella sezione B; e la signora Blancato di inglese; e la signorina Mongelli di francese; e il mitico Ciccio Sabatino di educazione fisica, tanto lontano da me a causa della mia pigrizia fisica contrapposta alla sua dinamicità atletica, ma tanto vicino a me nel reciproco affetto e nella reciproca stima. Sempre sui generis, Ciccio aveva un’automobile non conformista: una spartana Citroën Dyane, che allora era una icona della gioventù controcorrente. Insomma, noi due giovanissimi: io con la 500, e Ciccio Sabatino con la Dyane!

E come non ricordare l’ottimo Nino Russo, che insegnava Filosofia e Storia nella sezione A? E Teresa Pavone di francese; e Maria Attanasio, sempre pronta ad accendere una sigaretta e ad accendersi di passione per la filosofia o per la letteratura; ed Enzo Venniro, un autentico esperto di arte, fra i più giovani e fra i più valenti professori che io abbia conosciuto a Caltagirone; e il mite e timido prof. Barrano, che insegnava lettere al biennio, che rimaneva sempre nelle sue classi al piano terreno e non saliva mai al primo piano nella Sala Professori; e Diego Prosatore; e Franco De Grazia; e Tuttobene.

Su quest’ultimo mi piace soffermarmi un attimo. Il prof. Tuttobene era un allegro dispensatore di allegria, che era giunto all’insegnamento della lingua francese per quei misteriosi sentieri della storia, che solo Giambattista Vico saprebbe scrutare e illuminare. Il prof. Tuttobene aveva una laurea in Giurisprudenza, che mai utilizzò, perché aveva una ditta di lavori stradali che, ai tempi del fascismo, operava nell’Africa italiana.

Finita disastrosamente la guerra, dopo una lunga prigionia in un campo inglese dell’Africa, il nostro Tuttobene tornò in Sicilia a fare beatamente il pensionato. Ma il destino lo chiamava a più alti doveri. Un giorno, infatti, un suo amico gli disse che con quella sua laurea in Giurisprudenza poteva ottenere un incarico di insegnamento di francese. Fu un’illuminazione; e, detto fatto, il Tuttobene si ritrovò ad insegnare francese nelle scuole statali superiori.

In verità, la parola “insegnare” era un eufemismo nel caso di Tuttobene. Con una laurea in Giurisprudenza mai messa a frutto e con una vita trascorsa a maneggiare asfalto, bitume e derivati, il nostro Tuttobene era lontano le mille miglia dal mondo francese e dalla lingua di Michel Montaigne, di Victor Hugo e di Marcel Proust. E lui, ben consapevole delle sue lacune, non osò mai pronunciare una parola in francese con la sua inconfondibile e inestirpabile cadenza dialettale di Valguarnera Caropepe.

Piccolo di statura, non ancora vecchio, taccagno anzichenò, il nostro Tuttobene era sempre accompagnato nei corridoi da un gruppetto di studenti in allegria. Quando cominciava a ridere, tutto rosso in viso, l’occhietto furbo, Tuttobene sembrava un galletto ruspante, pettoruto e pronto a beccare con la sua parlata “carrapipana”. Ma il meglio di sé lo diede in una riunione che tenemmo per l’adozione dei libri di testo.

Quel pomeriggio, ogni professore esponeva ai colleghi le motivazioni della scelta di un testo ed esprimeva un sintetico giudizio sull’opportunità e i benefici di una eventuale adozione.

Venne il turno del prof. Tuttobene. E fu l’irrompere dello spirito dionisiaco nello scenario apollineo della riunione. Noi tutti sapevamo che il nostro Tuttobene, assolutamente digiuno di francese, viveva sotto l’ombrello protettore della professoressa Mongelli, una validissima docente di francese che si teneva aggiornata e lavorava con scrupolo. Tutti sapevamo del discreto “protettorato” della Mongelli su Tuttobene, ma nessuno si aspettava lo strano epilogo di quella riunione!

Presa la parola, il prof. Tuttobene confessò con allegro candore che la proposta partiva dalla collega Mongelli e che lui aveva solamente sottoscritto tale proposta di adozione. Poi, con una sparata tra la stizza e il menefreghismo, il dionisiaco Tuttobene ebbe a concludere nel suo dialetto: – Cchi sacciu. Stu libru u sciglìu a Mongelli, ma iu non ci capisciu nenti. Signuri mei, macari u prezzu è scrittu in francisi!

All’istante restammo di sale, come la moglie di Lot dopo aver guardato la città di Sodoma. Poi scoppiammo a ridere; e il dionisiaco l’ebbe vinta sull’apollineo. In verità, l’ineffabile prof. Tuttobene aveva superato le nostre più trepide aspettative, anzi aveva superato sé stesso!

Per tornare ai miei colleghi, devo ammettere che non ci furono mai delle “guerre” o delle insanabili spaccature; c’era, come si suol dire e come accade in paradiso, una naturale dialettica fra di noi. Invero, ci salvava l’attaccamento al lavoro, alla scuola e ai nostri studenti.

A dare forza al mio discorso, adduco questa prova di dedizione alla scuola: quando veniva proclamato uno sciopero, il gruppo di sinistra a cui appartenevo aderiva disciplinatamente allo sciopero (perdendo i soldi per l’astensione dal lavoro), ma si presentava regolarmente a Caltagirone (udite, udite!) per fare lezione. In totale noi, scioperando, affrontavamo una doppia perdita di denaro: perdevamo una parte dello stipendio per lo sciopero; e pagavamo di tasca nostra (come sempre, del resto) la benzina per raggiungere Caltagirone. Insomma, il nostro era un gesto di attaccamento alla nostra scuola e ai nostri studenti.

D’altronde, era ancora lontano da venire il tempo degli scioperi programmati con raffinati calcoli per far coincidere scioperi, ponti e giorni festivi. Allora, noi ignoravamo la strategia rivoluzionaria delle festività; eravamo dei “rivoluzionari” acqua e sapone, rozzi, creduloni, in fideistica attesa del “sol dell’avvenire”.

Era forse un paradiso terrestre il nostro Liceo di Caltagirone? No. Per il semplice fatto che su questa terrena aiuola vivono uomini imperfetti, impastati di male e di bene. E tuttavia, dal mio punto di vista, mi sento di dire che in quel periodo il Liceo, nel suo complesso e in ciascuno di noi, visse una delle sue più belle stagioni.

Ad esempio, in quel clima di entusiasmo e di operosa collaborazione, organizzammo con successo in Aula Magna diverse iniziative a carattere interdisciplinare in cui, su un dato argomento (l’illuminismo, il romanticismo, ecc.) ogni docente dava il suo contributo. Ricordo, inoltre, alcune conferenze tenute da professori universitari. Cito, per tutte, una conferenza tenuta dallo storico Giuseppe Giarrizzo, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, il quale parlò della Crisi del 1929 e dei suoi effetti sull’America e sull’Europa.

Inoltre, a testimonianza di una certa armonia fra i docenti, bisogna ricordare che ogni impegno scolastico pomeridiano (riunioni dei docenti; incontri con le famiglie, ecc.) costituiva una bella occasione – e per i catanesi e per i calatini liberi da impegni di famiglia – per stare assieme a pranzare al ristorante, a colloquiare, a scherzare. In quelle occasioni, noi “giovani” docenti tornavamo “ragazzi” capaci di goliardate, per poi tornare, dopo l’ora del pranzo, ad assumere la faccia seria per le riunioni o i ricevimenti pomeridiani.

Per quanto riguarda i miei studenti, non li citerò individualmente per paura di dimenticarne troppi. Erano e sono i miei ragazzi!

Ho insegnato solamente per tre anni a Caltagirone. E tuttavia posso dire che sono stati anni molto importanti nella mia vita. In fondo – e spero che questo sia stato avvertito da qualcuno di loro – a me interessava dare un abito critico ai miei studenti; volevo insegnare loro a ragionare con la propria testa, ragionando insieme a loro; farli crescere, crescendo insieme a loro.

Al di là dei voti, delle pagelle e degli scrutini, a me interessava favorire nei giovani il principio della libertà e della responsabilità. Perché tu puoi aver dimenticato le categorie di Aristotele o quelle di Kant, ma nella vita, se hai assimilato i princìpi fondamentali della libertà, del discernimento, dell’umana dignità, potrai fare l’ingegnere, il medico o l’avvocato, facendo il tuo “mestiere” con responsabilità, con serietà, con onestà, rispettando la tua persona e quella degli altri.

Furono, quelli di Caltagirone, fra i migliori anni del mio insegnamento. E chi mi conosce sa che ho sempre rimpianto Caltagirone. Andai all’università, tornai a Catania, smisi così di fare il pendolare, e tuttavia, quando mi capitava di fare confronti tra università e liceo, la mia bilancia pendeva nettamente a favore del liceo.

E c’erano motivi oggettivi che giustificavano questa mia preferenza. Nel mondo universitario, può capitare che il tuo vicino di stanza ti guardi come un potenziale concorrente, un rivale, persino come un nemico, a prescindere dal tuo e dal suo insegnamento, perché un tuo passo avanti nella carriera o nella ricerca scientifica sottrae oggettivamente, nel budget comune, fondi necessari al suo avanzamento o alla sua ricerca. Da qui il rischio di un trionfo del mors tua vita mea. Da qui il pericolo di cadere in forme di cannibalismo, di parricidio, di sospettosità, di ipocrisia, con un sottile e perfido esercizio della simulazione e della dissimulazione. 

Nella scuola, sulla scorta dei miei ricordi, gli studenti erano generalmente disposti ad apprendere, a discutere, a intervenire, a dibattere. E poi, a scuola, gli studenti vivono una stagione giovanile che li porta ad appassionarsi, a coltivare ideali, a fare battaglie generose, fossero pure battaglie coronate da sconfitte. A scuola, nel rapporto docente-discente, uno studente vive ogni giorno, per ben tre anni, con i suoi professori, e si conoscono a fondo, e si giudicano reciprocamente, e crescono assieme.

All’università, purtroppo, tu rischi di imbatterti in qualche studente che entra già invecchiato, smaliziato e scettico, con una stramaledetta fretta di agguantare una laurea e scappare via. Tu gli parli di cultura e di impegno etico-politico? E quello invece spende il suo tempo a studiare piani di studio, a calcolare e accumulare CFU, a farsi rivelare dai colleghi più anziani cosa chiede il professore agli esami, su cosa batte di più, in modo da poter preparare un esame in due-tre settimane.

Certamente non sempre è così e non sempre è colpa degli studenti, lo so bene. Ma la realtà ci mostra anche qualche studente universitario che non ha mai visto il professore, che non ha mai ascoltato una sua lezione, che ha sbirciato di sfuggita il programma della materia come una mappa militare, per individuare i punti strategici per raggiungere una vittoria senza colpo ferire.

Cosa resta nel caso di un esame universitario “usa e getta”? Nulla. Una volta, in questi casi di spasmodica celerità, dopo l’esame-sveltina si faceva festa, buttando via i libri utilizzati o le famigerate dispense. Poi vennero le fotocopie e gli appunti a fare scomparire i libri e ad alleviare la fatica. Poi apparvero i gruppi di studio social, ancora più celeri e senza bisogno di fotocopie. Alla fine, vista questa inesorabile cura dimagrante dello studio, questa anoressia dell’impegno per superare l’esame, consigliai ad alcuni studenti di ridurre all’osso gli appunti di filosofia con un semplice tatuaggio. Un tatuaggio? Sì, soltanto un tatuaggio tipo: panta rei, per la filosofia antica; cogito ergo sum, per la moderna; Dio è morto, che va sempre bene per qualsiasi esame e per tutte le eventualità della vita.

Beninteso. Queste mie agrodolci considerazioni su qualche studente, non sono dettate dal pessimismo né intendono diffondere sfiducia nei e sui giovani. Tutt’altro! Per un “uomo di scuola” sarebbe un controsenso abbandonarsi alla sfiducia e al pessimismo nei confronti della gioventù. Ciò non significa, però, sbandare in senso opposto nell’astratto ottimismo.

In tal senso mi basta ripetere quel che ho sempre ripetuto: «Dopo quello di genitore, il “mestiere” più bello e più difficile è quello dell’insegnante». In questo difficilissimo e delicatissimo “mestiere”, noi non maneggiamo “cose”, roba inanimata, carpette, moduli, macchine più o meno complicate; nossignore, noi “maneggiamo” anime, cuori, passioni, emozioni, progetti, ideali, sogni, conati di vita, pulsioni di morte, illusioni e delusioni.

In breve, noi “maneggiamo” anzi più precisamente educhiamo esseri umani. E li educhiamo non già come specie umana astratta; bensì come individui, come questo individuo qui, omnimode determinatum, irripetibile originalità individuale, che da noi può essere aiutato a crescere o può essere spinto ad appassire. Come individuo determinato e concreto che, quando gli sai parlare, e lo coinvolgi, e lo appassioni, e “parli di lui” pur parlando di Platone, ti guarda, fissa in un lampo i suoi occhi nei tuoi, e con gli occhi ti dice: “Ci siamo intesi”.

Dobbiamo dunque avere la capacità di coinvolgere razionalmente ed appassionare in modo tale che, al di là delle formule più o meno astratte, nel nostro insegnamento possiamo lanciare ai nostri allievi questo messaggio di sapore oraziano: De te fabula narratur; è di te che si parla in questa favola.

Meglio ancora: Di noi – del docente e dell’allievo – si parla in questa favola meravigliosa che è la lezione di scuola e di vita.

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