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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

Università di Catania - Italia

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

Passeggiando fra gli alberi della storia. Quinta passeggiata (Parte II)

2025-04-03 15:51

Prof. Giuseppe Pezzino

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Passeggiando fra gli alberi della storia. Quinta passeggiata (Parte II)

Seduto sulla bellissima scogliera di Aci Trezza, vedo – nell’intervallo visivo tra un Faraglione e l’altro – allontanarsi le navi di Odisseo.

Seduto sulla bellissima scogliera di Aci Trezza, vedo – nell’intervallo visivo tra un Faraglione e l’altro – allontanarsi le navi di Odisseo.

La magia del luogo è talmente seducente che mi perdo in un miraggio della Fata Morgana. E così all’orizzonte mi appare, in una striscia sfocata, la flotta di Odisseo che, lasciando l’omerica Aci Trezza dei Ciclopi, incrocia la barca dei Malavoglia (la “Provvidenza”), che si prepara ad attraccare al porticciolo dell’Aci Trezza di Giovanni Verga.

Ma poi il miraggio della Fata Morgana si dissolve fortunosamente, e mi resta da seguire soltanto la seconda parte dell’avventuroso viaggio di Odisseo.

Scampati al mortale pericolo dei Ciclopi, i greci s’illudevano di essere ormai vicini a Itaca. Purtroppo, dopo aver lasciato l’Isola di Eolo (il re dei venti), una terribile tempesta li allontanò dalla patria quasi raggiunta. Sicché Odisseo, che prima aveva beffato Polifemo, venne poi beffato dal destino, che crudelmente lo avvicinò ad Itaca, solo per allontanarlo inesorabilmente.

Alla fine della tempesta i Greci sbarcarono su una terra sconosciuta, che si rivelerà ben più esiziale della terra dei Ciclopi. Si trattava, infatti, della terra dei Lestrìgoni, giganti antropofagi che seminarono morte e distruzione fra i Greci. Basti pensare che Odisseo riuscì a fuggire – non per astuzia, ma per puro caso – con l’unica nave rimasta ancora in piedi, la sua, perché le altre erano state distrutte, assieme agli equipaggi, dalla furia dei Lestrìgoni.

Da quel momento, per Odisseo si prospettò un’esperienza che lo porterà a conoscere tre tipi di amore in tre donne diverse: Circe, la maga; Anticlea, la madre dello stesso Odisseo; e Calipso, la bellissima ninfa.

La prima esperienza d’amore egli la visse nell’isola Eèa, dove regnava incontrastata la bella e terribile Circe: «E giungemmo all’isola Eèa. Là abitava Circe dai riccioli belli, terribile dea dalla voce canora»[1].

Ecco preannunciata «Circe dai riccioli belli [Κίρκη ἐϋπλόκαμος]». Era bellissima Circe; ma la sua bellezza era senz’anima e senza vocazione all’amore. Abilissima nella tessitura, era parimenti abilissima nel tessere inganni e nel tendere tranelli. Circe sapeva maneggiare sostanze magiche e, purtroppo, sapeva anche manipolare il cuore degli uomini, trasformandoli poi in bestie.

In fondo, Circe era sola. Nel suo letto, popolato da una folla di amanti, Circe era sola. Circondata da spasimanti trasformati in bestie docili, lei dominava tutto e tutti, ma era sola, tremendamente sola, malignamente sola.

Delle arti maliarde e malefiche di Circe fecero esperienza anche i compagni di Odisseo, i quali, capeggiati da Euriloco, erano andati in avanscoperta per poi tornare a riferire. Incauti e inesperti, i Greci si lasciarono abbindolare dalla maliarda Circe che, dopo aver dato loro una pozione magica che faceva dimenticare la patria, li percosse con una verga magica e li trasformò in porci:

 

«Ella li condusse dentro, li fece sedere su sedie e seggi,

e per essi formaggio e farina e giallognolo miele

mescolò con vino di Pramno; e nell’impasto aggiunse

veleni funesti perché del tutto scordassero la patria terra.

Ma quando a loro lo diede ed essi bevvero, allora subito

li percosse con la sua verga e li rinchiuse nel porcile»[2].

 

Avevano il corpo di porci i Greci caduti nel tranello di Circe. Ma la loro mente era rimasta intatta: era la coscienza degli esseri umani in un ripugnante corpo di maiale.

 

«Ed essi di porci avevano e testa e voce e peli

e tutto il corpo, ma la mente era intatta, come prima.

Così quelli piangenti furono rinchiusi; e a loro Circe

buttò ghiande di leccio e di quercia e corniolo,

quali sempre mangiano i porci che dormono per terra»[3].

 

Avendo saputo da Euriloco (l’unico che, fuggendo, era riuscito a salvarsi dagli incantesimi di Circe) quale sorte fosse toccata agli infelici compagni, Odisseo andò da solo ad affrontare la maga. E certamente anche lui sarebbe caduto nella trappola di Circe, se non avesse avuto il favore degli dèi. Infatti, il dio “Ermes dall’aurea verga” [Ἑρμείας χρυσόρραπις] apparve a Odisseo e, dopo averlo messo in guardia, gli diede un farmaco contro la pozione della maga.

Poi Ermes tornò sull’Olimpo, e Odisseo si avviò agitato verso il palazzo di Circe. Una volta giunto alle porte della splendida dimora della maga “dai riccioli belli”, l’eroe greco cominciò a gridare per farsi aprire. Uscì subito Circe, che dolcemente lo invitò ad entrare.

Poi iniziò il preludio amoroso, quando la maga fece sedere l’Itacense «su un seggio con borchie d’argento, bello e ben lavorato», quindi lei preparò la pozione magica e gliela fece bere. Pensando di averlo ammaliato, Circe lo colpì con la sua verga e gli disse: «Su, ora va’ nel porcile, sdràiati con gli altri compagni»[4].

Però, grazie al farmaco ricevuto da Ermes, il nostro Odisseo non subì alcuna malia e subito sguainò la spada per uccidere Circe. Costei rimase stupefatta e immediatamente si divincolò; poi gli prese le ginocchia e piangendo gli chiese chi fosse.

Solo un attimo durò lo stupore. Poi tutto fu chiaro nella mente di Circe, perché si ricordò che un tempo Ermes le aveva predetto l’arrivo di Odisseo.

A quel punto, visto il fallimento del preludio amoroso, la bellissima maga tentò di far percorrere a Odisseo la via maestra che in amore porta a letto:

 

«Ma su, rimetti la spada nel fodero, e tu ed io, insieme

saliamo sul nostro letto, uniamoci in amplesso di amore,

e il sospetto sia assente nei nostri rapporti»[5].

 

D’altronde, anche nei riguardi di Odisseo la proposta di Circe venne svilita a un atto meramente sessuale, a un atto erotico simile a quello degli animali. Ecco perché gli amanti di Circe erano trasformati in bestie.

Ma la risposta di Odisseo non si fa attendere:

 

«O Circe, come puoi chiedermi di essere gentile con te,

che nella tua casa dei miei compagni hai fatto maiali,

e a me stesso, qui trattenendomi, con perfidia, chiedi

che venga nel talamo e salga sul tuo letto,

affinché, denudatomi, tu mi renda inetto e impotente?

Ma io non vorrò a nessun costo salire sul tuo letto,

se tu non ti adatti, o dea, a giurarmi il grande giuramento

che tu non escogiterai contro di me altra triste ventura»[6].

 

In questa tenzone erotica fra i due, bisogna notare un particolare molto importante: nella proposta di Circe c’era l’invito a unirsi in «amplesso di amore», salendo insieme «sul nostro letto» [ἡμετέρης εὐνῆϛ]; nella risposta di Odisseo, invece, risaltava questa correzione-contrapposizione: «sul tuo letto» [σῆϛ εὐνῆϛ].

Insomma la bellissima Circe, invitando Odisseo all’amplesso, aveva usato la menzognera espressione «nostro letto», quasi prefigurando un coinvolgimento, un rapporto bilaterale, autenticamente passionale e duraturo. Ma Odisseo prende le distanze, corregge “il nostro letto” con “il tuo letto”, e poi la butta in trattativa mercantile: sono disposto ad accettare il tuo invito a letto, a condizione che tu mi giuri di non escogitare contro di me alcun tranello.

Circe accetta la condizione posta da Odisseo; giura e…affare fatto! Perciò così conclude l’Itacense:

 

«E dopo che ebbe giurato e completato il giuramento,

allora io salii sul bellissimo letto di Circe»[7].

 

Insomma, come si dice anche oggi in maniera nuda e cruda, i due “andarono a letto”. Nulla di più freddo; nulla di più calcolato e ponderato di questa “scena d’amore”. Nessuno slancio passionale; nessun trasporto del cuore e dell’anima. Quel freddo abbraccio erotico – consumato in un freddo letto – ci appare nella sua “verità” come un atto più squallido che disadorno, come un accoppiamento privo di un sia pur modesto corteo di sospiri, di baci e di carezze. E non ci scandalizza tanto la “nudità” dei corpi di due “amanti per contratto”, quanto piuttosto la “nudità” di un amplesso che scivola al livello del mondo animale.

E subito dopo l’amplesso, le ancelle apparecchiarono per il banchetto. A dire il vero, anche se oggi siamo adusi a fenomeni di gran lunga peggiori, tuttavia ci fa specie quel loro passaggio, più rituale che naturale, dal letto al banchetto.

Ma poi, a ben riflettere, cosa pretendere da un algido rapporto che non conosce i caldi momenti di una dolce intimità la quale, dopo quella dei corpi, è intimità di anime, di carezze, di abbracci, di sussurri? Come pretendere – dopo l’amplesso – lo stare insieme a rivivere e riassaporare lo slancio passionale di poco prima? Come pretendere di volare insieme in un cielo azzurro, quando stai con una “compagna di viaggio” come Circe?

In breve, qui Odisseo e Circe sono i perfetti progenitori (meno atroci, in verità) di quei tipi che oggi, dopo aver fatto sesso, si rivestono e si chiedono: «Ma noi ci conosciamo?».

D’altronde, Circe è la fredda dea di una passione fredda. E diciamo subito che il suo non è amor venale, giacché lei non si concede per denaro. E quindi non è una meretrice; ma è una maliarda, che incanta gli uomini con il suo fascino e con le sue arti di seduzione. Il suo è un amore finto, che assomiglia all’amore finto della meretrice, ma che se ne distacca e se ne differenzia.

In altri termini, Circe ama, ama veramente. Ma ama il potere, solo il potere. Beninteso, non già il potere economico-sociale, bensì il potere sugli uomini, il potere di farli inginocchiare ai suoi piedi, di trasformarli in animali obbedienti ad ogni suo cenno.

E qui, con la bellissima Circe, la dialettica falsità/verità trova un suo avvincente svolgimento nell’amore. Infatti, l’amore di Circe è falsità nei riguardi degli uomini innamorati e ingannati; ma è verità come amore di sé, come ipertrofia di un amore del proprio potere sugli altri.

Ma c’è di più: quando trasforma gli uomini in bestie, la maliarda Circe effettua un’operazione polivalente. Da un canto, infatti, ella abbassa e mortifica l’amore ad un livello semplicemente animalesco, ricorrendo all’inganno e alla pozione magica. Ma, dall’altro, Circe svela la natura di una passione erotica che in tutti gli esseri umani resta “bestiale”. Precisiamo: una passione erotica che resta bestiale, se non viene superata hegelianamente, ossia se non si riesce a negarla e nel contempo affermarla, innalzandola ad un livello superiore che è quello umano. E in quest’ultimo livello si ha la sintesi del ferino e dell’umano, giacché il ferino, che era la forma dominante dell’atto sessuale animale, ora diventa materia di una forma nuova e superiore, che è l’amore umano (né sovrumano, né subumano).

En passant, possiamo abbozzare un certo confronto fra la maga Circe dell’Odissea e la maga Alcina dell’Orlando furioso. In entrambe le maghe, ad esempio, domina la dialettica falsità/verità. Ma nell’ariostesca maga Alcina questa dialettica si svolge all’interno dello stesso personaggio, come dialettica di essere/apparire, di être/paraître. Alcina, infatti, è realmente vecchia, brutta e deforme; ma, all’apparenza, agli occhi altrui, la maga si manifesta falsamente come una giovane bellissima. E, proprio sotto questo falso aspetto giovanile e bello, la maga Alcina appare agli occhi incantati del valoroso Ruggero:

 

«Bianca nieve è il bel collo, e ’l petto latte;
il collo è tondo, il petto colmo e largo:
due pome acerbe, e pur d’avorio fatte,
vengono e van come onda al primo margo,
quando piacevole aura il mar combatte»[8].

 

In questi versi ariosteschi c’è tutto l’edonismo umanistico-rinascimentale che nel mondo umano, e soprattutto nel corpo femminile, trova motivo di esaltazione artistica. Agli occhi di Ruggero non sfugge alcun particolare di un corpo bellissimo come quello di Alcina. Bianco come la neve è il collo; e come il latte il petto «colmo e largo». E i due seni di Alcina son «due pome acerbe», due mele colore avorio non ancora mature né sfatte, che turgidamente vanno e vengono come le onde del mare quando soffia un lieve e piacevole vento.

Addirittura, nel descrivere l’abbraccio di Alcina e di Ruggero, i versi di Ariosto indulgono a una descrizione pervasa di un erotismo non sempre raffinato: i due amanti si stringono e si avvinghiano come l’edera; i loro baci poco casti, si abbandonano ai giochi della lingua in bocca:

 

«Non così strettamente edera preme
pianta ove intorno abbarbicata s’abbia,
come si stringon li dui amanti insieme,
cogliendo de lo spirto in su le labbia
suave fior, qual non produce seme
indo o sabeo ne l’odorata sabbia.
Del gran piacer ch’avean, lor dicer tocca;
che spesso avean piú d’una lingua in bocca»[9].

 

Ma tutto questo splendore di bellezza e di gioventù è solo apparenza, inganno, perché Alcina, in verità, è vecchia e brutta, fisicamente e moralmente. La maga, infatti, non solo è presentata come una meretrice, una «concubina» di tanti altri amanti[10], ma addirittura è una «donna sì laida, che la terra tutta né la più vecchia avea né la più brutta»[11]. Il viso rugoso, pallido e macilento, senza denti e coi capelli bianchi:

 

«Pallido, crespo e macilente avea
Alcina il viso, il crin raro e canuto:
sua statura a sei palmi non giungea:
ogni dente di bocca era caduto;
che più d’Ecuba e più de la Cumea,
et avea più d’ogn’altra mai vivuto»

 

E a questo punto sorge opportuna la riflessione di Ariosto sugli incantatori e sulle incantatrici, che esercitano il loro fascino non già con incantesimi o con magie, bensì «con simulazion, menzogne e frodi»:

 

«Oh quante sono incantatrici, oh quanti
incantator tra noi, che non si sanno!
che con lor arti uomini e donne amanti
di sé, cangiando i visi lor, fatto hanno.
Non con spirti constretti tali incanti,
né con osservazion di stelle fanno;
ma con simulazion, menzogne e frodi
legano i cor d’indissolubil nodi»[12].

 

Ma ora torniamo all’Odissea, e precisamente al momento in cui l’eroe greco ottenne da Circe la trasformazione dei suoi compagni da maiali in esseri umani. Da quel momento, nel palazzo della maga tutto sembrò molto bello e tranquillo, al punto tale che Odisseo e i suoi uomini rimasero con Circe per un anno, a gioire, a banchettare e bere. Ma poi gli uomini di Odisseo divennero irrequieti e lo esortarono a tornare a casa.

L’Itacense pregò Circe di aiutarlo e lei acconsentì; ma gli disse che prima doveva arrivare alle case del dio Ade [εἰϛ Ἀΐδαο δόμους], nel regno dei morti, per vedere Tiresia, il profeta cieco di Tebe. Costui avrebbe predetto a Odisseo quale destino lo attendeva a Itaca.

L’eroe greco accettò di esplorare gli Inferi, il regno del dio Ade. Quindi partì verso la terra dei Cimmeri, per fare la sconvolgente esperienza nel mondo dei morti.

Ci troviamo forse di fronte a una discesa (catabasi, κατάβασις) di Odisseo negli Inferi? Non precisamente. Insomma, rigorosamente parlando, quella dell’Itacense fu una catabasi tutta particolare, giacché egli non scese negli Inferi – come fanno tutti i morti – ma rimase sulla soglia degli Inferi.

Restiamo piuttosto alla narrazione che l’eroe greco fa nel libro XI dell’Odissea. Giunto nel luogo prescelto, Odisseo scavò una fossa e vi versò vino, miele, acqua e farina. Poi sgozzò alcuni animali come vittime sacrificali e fece scorrere il loro sangue dentro quella fossa.

Improvvisamente, gridando ed emergendo dalle atre profondità dell’Ade, le ombre dei morti cominciarono ad affollarsi intorno alla fossa. Ma l’Itacense le teneva lontane dal sangue sacrificale versato, fin quando non appariva l’ombra da lui prescelta (l’indovino Tiresia; la madre; ed altri). In quel caso, Odisseo faceva accostare quell’ombra al sangue sacrificale, ed essa – a contatto col sangue, che è vita – acquistava capacità di ricordare e di comunicare con l’Itacense.

Come abbiamo detto prima, quella di Odisseo non fu propriamente una catabasi, ossia una discesa nell’oltretomba; fu invece un rito di evocazione [necuia, νέκυια] delle ombre dei morti; in altri termini fu una sorta di necromanzia [νεκρομαντεία: νεκρός «morto» + μαντεία «predizione»].

Da precisare inoltre che, nell’Odissea, l’aldilà è descritto come un grande spazio oscuro e misterioso, dove vagano in eterno le ombre dei morti. In tale oltretomba omerico non esiste una distinzione fra ombre buone e ombre cattive, come pure non esiste un premio o una pena in base alla precedente condotta terrena.

Da precisare, inoltre, che Odisseo usa il termine “psiche” [psykhḗ, ψυχή], che può significare “anima” oppure “ombra” dei morti, ma che nell’Odissea assume solo il secondo significato, cioè “ombra” dei morti.

A tal proposito bisogna osservare che, in questo poema omerico, il Nulla viene presentato sotto due aspetti: da un canto, è il Nulla come Vuoto o svuotamento [kénosis, κένωσις] dell’essere umano nell’esperienza dei Lotofagi, mangiatori di erba[13]; e, dall’altro, il Nulla come Ombra dei morti nell’oltretomba.

In questo secondo caso, se dopo la Morte rimane l’Ombra, significa che la morte non è affatto un nulla assoluto e totale, non è l’opposto dell’essere, e quindi un non essere. Con ciò crollerebbe la logica di Parmenide, secondo cui il non essere «non è, ed è necessario che non sia» [ἡ δ' ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι][14].

Insomma, nelle ombre evocate da Odisseo permangono segni di vita, ricordi, rimpianti, rancori, affetti. Di contro, nella filosofia naturalistica greca, dove tutto è inteso materialisticamente, la morte è concepita come la disgregazione di un corpo, come il nulla, come il non essere di un corpo.

E, in questa visione materialistica della morte, molto avrà da dire Epicuro: «Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi»[15].

Pertanto, nella concezione materialistica, dopo la morte c’è solamente il nulla; mentre nella rappresentazione omerica l’uomo è bensì mortale, ma dopo la morte permane l’ombra, che indubbiamente non è essere, ma non è neppure un assoluto nulla.

Dovremo aspettare il sommo Platone per avere, nell’antichità, il frutto filosofico più maturo riguardo a una realtà che supera sia il mondo fisico sia la conoscenza fondata esclusivamente sui sensi. E per effettuare questo “superamento” della realtà fisico-naturalistica, Platone, nel Fedone, ci dice che, dopo la “prima navigazione” filosofica (quella relativamente facile, con le vele al vento nel mare della fisicità e dei sensi) bisogna intraprendere la “seconda navigazione” (assai più faticosa e impegnativa, con i remi e senza vento favorevole) che porta a superare la fisicità del mondo sensibile per giungere alla conquista di un mondo sopra-sensibile.

In altri termini, con la “seconda navigazione” filosofica si coglie razionalmente (e non soltanto empiricamente) un altro piano dell’essere, un’altra realtà, una dimensione sopra-fisica o meta-fisica. Fuor di metafora, la “prima navigazione” rappresenta il “viaggio” della filosofia naturalistica che tenta di spiegare il sensibile per mezzo del sensibile, laddove la “seconda navigazione” porta alla scoperta del sovra-sensibile come “causa” del sensibile stesso.

E questo mondo del sovra-sensibile è il mondo delle Idee, un mondo eterno immutabile, perfetto, divino, sovrastato dall’Idea del Bene; un mondo in cui risplendono le Idee (archetipi eterni) e le anime. Sì, proprio così: le anime.

Infatti, associando la parola “corpo” [soma, σῶμα] alla parola “tomba” [sema, σῆμα], Platone nel Cratilo teorizza che non tutto finisce con la vita terrena e che la morte altro non è se non la separazione dell’anima dal corpo (soma), il quale è soltanto la sua provvisoria tomba (sema).

Non a caso lo stesso cristianesimo, pur essendo contrario al paganesimo, trovò motivi di stima per il pagano Platone. Basti pensare a sant’Agostino e poi al cristianissimo filosofo e scienziato Blaise Pascal, che considerò Platone necessario per ispirare un sentimento favorevole verso il cristianesimo: «Platon, pour disposer au christianisme» [Platone, per disporre al cristianesimo][16].

Tornando ora all’Odissea, sappiamo che lo scopo principale dell’evocazione dei morti è l’incontro di Odisseo con l’indovino Tiresia. Ma l’episodio più bello è certamente il dialogo di Odisseo con l’ombra di sua madre Anticlea. E, nel dialogare appassionato e trepidante fra l’Itacense e la madre, sparisce quella cappa di terrore e di orrore che sovrastava il mondo degli Inferi, per cedere il passo a un aldilà pervaso di commozione e di pathos.

Insomma, Odisseo aveva evocato le ombre dei morti per conoscere ciò che egli non sapeva del passato, del presente e del futuro. E invece, nel dialogare, troviamo che anche le ombre pongono domande all’Itacense.

Difatti, non appena ebbe modo di riconoscere il figlio ancora vivo, fu proprio l’ombra di Anticlea a rompere il silenzio con un parlare fra lo stupore e la trepidazione materna:

 

«Figlio mio, come sei venuto giù nella tenebra caliginosa,

se sei ancora vivo? Difficile è per i vivi vedere questi luoghi. […]

O forse ora qui arrivi da Troia, e vai ancora vagando nel mare,

da lungo tempo, con una nave e i compagni? E non sei ancora

stato ad Itaca e non hai rivisto nella tua casa la moglie?»[17].

 

Immediata la risposta di Odisseo alla madre:

 

«Madre mia, necessità mi ha portato giù nell’Ade,

per chiedere responso all’anima del Tebano Tiresia;

io non sono ancora giunto vicino alla terra Achea né ancora

ho messo piede sulla nostra terra, ma sempre, con dolore, vado

ramingo, fin da quando ho seguito il divino Agamennone

verso Ilio dai bei cavalli, per combattere contro i Troiani»[18].

 

In questa risposta è da notare come Odisseo ridimensioni l’importanza della guerra di Troia. Nessun vanto per la vittoria riportata sui Troiani, nessun particolare glorioso sulla lunga guerra. Invece l’inizio della guerra («fin da quando ho seguito il divino Agamennone verso Ilio») rappresentò il punto di partenza di una sequela di dolori, di sventure e di peregrinazioni, che fino a quel momento non aveva trovato fine.

Prese allora il sopravvento l’amore filiale di Odisseo, e la pena nel constatare che sua madre era morta, e l’accorato desiderio di conoscere come fosse morta: «Quale destino di morte crudele ti vinse? Fu lunga malattia oppure Artemide saettatrice arrivò e ti uccise con le sue frecce pietose?».

Queste furono le appassionate parole della madre Anticlea sulla causa della sua morte:

 

«No, non in casa la Saettatrice dalla buona mira

con le sue pietose frecce mi ha raggiunta e uccisa,

né lunga malattia mi ha colpita, che con odiosa consunzione

– come avviene – mi abbia dalle membra strappato la vita; ma fu

lo struggente rimpianto e la tua saggezza, mio Ulisse splendente,

e la bontà del tuo cuore che mi tolse la vita, dolce come il miele»[19].

 

Nessuna malattia e nessuna freccia di Artemide uccisero Anticlea. Solamente il dolore per un figlio considerato morto tolse la vita a una madre, che si sentiva in colpa per essere sopravvissuta al proprio figlio. E prima ancora, e peggio ancora della morte fu lo strazio nella carne e nell’anima per un figlio che non tornava più. E soprattutto la travolse il dolente e nostalgico ricordo (lo «struggente rimpianto») delle rare qualità del figlio: la saggezza e la bontà di Odisseo.

Un dolore antico ed eterno, quello di una madre che perde il figlio. E non si può restare insensibili, con occhi asciutti di lacrime (siccis oculis), di fronte all’intensità e alla profondità dei sentimenti poeticamente espressi in questi magnifici versi dell’Odissea. Versi che, con intatta bellezza, solcano l’oceano dei millenni e, foscolianamente, vincono «di mille secoli il silenzio».

Sopraffatto dal dolore e dall’amore per la madre, Odisseo tentò di abbracciarla:

 

«Tre volte mi slanciai, e l’animo mio mi spingeva a prenderla:

tre volte simile a ombra o a sogno dalle braccia

mi volò via; e a me ancor più nel cuore nasceva acuta pena».

 

Per ben tre volte Odisseo si protese per abbracciare la madre. Ma invano! Anticlea era solo un’ombra; e la sua “realtà” era come quella di un sogno!

E il mane nobiscum – il “rimani con noi” della preghiera rivolta a Gesù da due viandanti sulla strada di Emmaus – qui si trasfigura nel “rimani con me” dell’universale ed eterna preghiera che ogni figlio rivolge alla propria madre morente, madre fonte di vita, madre sempre viva.

Suvvia, adesso è giunta l’ora di parlare del terzo tipo di amore che Odisseo ebbe modo di conoscere nel suo avventuroso pellegrinare alla ricerca di Itaca. Questo amore si chiama Calipso, divina fra le dèe [Καλυψώ, δῖα θεάων].

Calipso è l’amore; ed è bellissima, come bellissimo è l’amore. Quali aggettivi si possono usare per definire meglio l’amore? Moltissimi, ma non basterebbero per definirlo pienamente; come non basterebbe contare le stelle in una notte serena, per abbracciare tutto il cielo stellato.

Non basterebbe! Allora tentiamo la via della definizione mediante la comparazione; ossia cerchiamo di definire l’amore, mettendo a confronto la maga Circe e la divina Calipso.

Dove viveva Circe? In un palazzo che destava meraviglia, che troneggiava fra una lussureggiante vegetazione, dove vagavano numerosi uomini-bestie. Calipso, invece, viveva in una grotta, fra una natura incontaminata. Al contrario dell’ambiente di Circe che cercava il meraviglioso, ed era tutto artificio, finzione ed apparenza, nell’isola di Ogigia la ninfa Calipso viveva in mezzo alla natura, nella semplicità, in quel “nascondimento” che favorisce l’interiorità, e che non è affatto occultamento di sentimenti maligni.

Non a caso, infatti, il nome Calipso [Kalypsó, Καλυψώ] deriva dal verbo kalýpto [καλύπτω], che significa “nascondere”, “coprire”.

L’isola della ninfa Calipso era un vero e proprio paradiso terrestre, dove tutto era immerso nel verde e circondato dalle acque, dove il tempo sembrava restare sospeso fra l’attimo fuggente e l’eternità, e dove la vita si svolgeva in un sospiro di beatitudine come perenne serenità.

Calipso e l’ambiente circostante rappresentano, dunque, un inno alla bellezza naturale, che è bellezza autentica, lontana dai turbamenti del mondo esterno.

Calipso è l’amore. Anzi, è l’amore al femminile. L’amore che dona tutto in cambio di nulla; che offre l’anima con il silenzio, con la parola, con lo sguardo, con la carezza, con la lacrima, col sospiro.

Calipso è l’amore che ride assieme a te, e si fa bambino; che piange con te, quando nuvole nere oscurano il cielo; che si stringe a te sia nell’abbraccio del piacere sia in quello del conforto.

Circe, pur circondata di uomini-bestie che si accucciano ai suoi piedi, è fredda ed è tremendamente sola. Calipso, invece, ha un cuore riscaldato dalla passione d’amore, e s’innamora. Beninteso, ella s’innamora non già di se stessa (come è il caso di Circe), bensì di un altro, cioè di Odisseo. E lo accoglie e se ne innamora, perché Calipso è accoglienza e amore. E vuol vivere con Odisseo, per sempre con lui.

L’amore infatti – come disse Platone nel Simposio – è ricerca dell’altra metà perduta e finalmente ritrovata, è il fare uno di due. Sicché, secondo Platone, ciò che vogliono gli amanti va ben al di là dei piaceri del sesso, giacché in fondo essi vogliono l’unità dei corpi e delle anime. Meglio ancora: l’amore è nostalgia dell’unità. E se si chiedesse a due amanti cosa vorrebbero che Efesto, il dio del fuoco, facesse per loro; i due risponderebbero: «Da due diventare uno solo, congiungendoci e fondendoci insieme l’uno con l’altro».

Calipso offre l’immortalità all’amato Odisseo, ma non tanto per fare mercato dell’amore e farlo restare presso di sé, quanto piuttosto perché l’amore, se è vero amore, è eternità.

L’amore eterno è una povera illusione? Con la ragione è certamente un’illusione. Ma gli innamorati “non ragionano” con il distacco e la freddezza dei filosofi. Gli innamorati vivono in una dimensione poetica, in un loro mondo “reale” che non è quello della superba ragione dei superbi filosofi, bensì quello del cuore, il quale ha la sua “logica”, i suoi titoli e i suoi diritti, che la ragione non sa e non vuol comprendere.

Sicché possiamo adattare al nostro discorso la famosissima e poco studiata frase di Pascal: Le cœur a ses raisons, que la raison ne connaît point. «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce»[20].

Per sette anni Odisseo visse con Calipso. E tuttavia l’Itacense era sempre più combattuto: infatti, un Odisseo si scontrava contro un altro Odisseo. Da un lato, egli provava attrazione e amore per Calipso; dall’altro, sentiva il richiamo di Itaca e della famiglia, di Penelope e del figlio Telemaco. Sentiva anche il desiderio di riprendere il suo posto di re. Insomma, una lotta continua si accendeva fra l’Odisseo che può diventare un immortale con Calipso e l’Odisseo che vuol restare mortale, uomo fra gli uomini, per portare a compimento il suo “viaggio”.

Sempre più gravoso e penoso si faceva il peso dei ricordi. E sempre più imperiosa si faceva, per Odisseo, la voce della nostalgia. Ogni giorno, seduto sulla riva, egli «piangeva, con lacrime e gemiti e dolori lacerandosi il cuore: guardava spesso il mare inconsunto, e lacrime versava»[21].

Mosso a pietà, Giove decise di far tornare Odisseo a Itaca. Perciò mandò Ermes a trasmettere il volere del padre degli dèi. Il messaggero divino parlò con Calipso, riferendogli gli indiscutibili ordini di Giove. Al sentire le parole di Ermes, Calipso rabbrividì. Capì subito che stava perdendo Odisseo per sempre; proprio lei che avrebbe voluto tenerlo con sé per sempre.

E qui, pur sapendo che doveva piegarsi alla volontà del re dell’Olimpo, la bellissima e dolcissima Calipso seppe mostrare le unghie, rivolgendo a Ermes parole che dimostravano come lei avesse un carattere forte e sapesse tener testa persino agli dèi maschi, crudeli e invidiosi:

 

«Crudeli voi siete, o dèi, e invidiosi senza pari,

voi che vi indignate con le dèe se giacciono con gli uomini

manifestamente, quando qualcuna si procura un caro compagno.

Così ora ce l’avete con me, o dèi, perché qui c’è un uomo.

Ma quest’uomo io lo salvai quando era a cavallo di una chiglia,

da solo, poiché la nave veloce, colpendola col fulgido fulmine,

Zeus gliela spaccò in mezzo al mare colore del vino»[22].

 

Non restava, però, che obbedire. E Calipso, col cuore spezzato, garantì che avrebbe lasciato partire Odisseo. Anzi, «di buon animo» gli avrebbe dato suggerimenti per giungere indenne alla sua Itaca.

Beninteso, le parole di Calipso meritano attenzione. Qui non assistiamo affatto alla fine dell’amore di Calipso per Odisseo. Qui l’amore di Calipso si erge maestosamente al di sopra dell’uomo Odisseo e degli dèi dell’Olimpo. Qui l’amore di Calipso deve fare un passo indietro, ma non si arrende; e si fa comprensione e tenerezza verso le “debolezze” umane di Odisseo.

E quando l’umana debolezza dell’Itacense mise in dubbio la sincerità di Calipso nel lasciarlo partire; e addirittura pretese da lei un sacro giuramento che non si sarebbe vendicata, allora la divina Calipso non si indignò (e ne avrebbe avuto ben donde!), anzi lo perdonò, lo comprese, gli sorrise, lo accarezzò, lo chiamò teneramente per nome, e lo rassicurò.

«Sei davvero un furbacchione», gli disse senza astio e senza rancore, con un tono di complicità e di tenerezza che solo un invincibile ed invitto amore può generare. E l’onda della passione d’amore sorse impetuosa dal petto di Calipso; e per l’ultima volta fece ricorso alla promessa di renderlo immortale. E fece di più. Per amore di Odisseo, abbassò il suo amore fino a confrontarsi con Penelope.

 

«Eppure io affermo di non essere a lei inferiore

per il corpo e la persona e non sta nemmeno bene che donne

mortali gareggino con le immortali per il corpo e l’aspetto»[23].

 

Un confronto non privo di umiliazione, quando avviene fra donne mortali; ma che si fa degradante e disonorevole, quando avviene fra una dea immortale e una donna mortale. E tuttavia l’amore di Calipso sa fare pure questo, come estrema prova d’amore.

Poi i due amanti stettero assieme nella grotta. E, calata la sera, «entrambi andarono nella parte più interna della cava spelonca, e si saziarono di amore l’uno accanto all’altra giacendo»[24].

Fu l’ultima notte d’amore; di amore vero, sincero, appassionato, almeno per Calipso.

«Quando mattiniera apparve Aurora dalle dita di rosa», i due amanti si svegliarono e subito pensarono ai preparativi della partenza. Calipso aiutò in mille modi l’eroe greco: gli fornì attrezzi per costruire una robusta zattera, gli indicò dove tagliare dei tronchi, gli diede delle tele per ricavare delle vele.

Quattro giorni impiegò Odisseo per realizzare tutto. Al quinto giorno, la divina Calipso:

 

«Lo vestì di vesti profumate e lo lavò,

dentro gli pose la dea un otre di nero vino,

il primo, e un altro, grande, di acqua, e anche viveri

in una bisaccia, e pietanze prelibate in abbondanza»[25].

 

Quindi la bellissima ninfa fece soffiare un vento dolce e mite per Odisseo, che partì.

Da quel momento i due non ebbero più modo di rivedersi. Quella partenza concluse sette anni di convivenza; ma non troncò l’amore di Calipso per Odisseo, perché l’amore vero vince anche la morte. Omnia vincit amor, L’amore vince tutto, ci insegnò Virgilio[26].

 

 


 

[1] Odissea, canto X, 135-136.

[2] Odissea, canto X, 233-238.

[3] Odissea, canto X, 239-243.

[4] Odissea, canto X, 320.

[5] Odissea, canto X, 333-335.

[6] Odissea, canto X, 337-344.

[7] Odissea, canto X, 346-347.

[8] L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di S. Debenedetti, Bari, Laterza, 1928, canto VII, 14.

[9] Orlando furioso, canto VII, 29.

[10] Orlando furioso, canto VII, 64.

[11] Orlando furioso, canto VII, 72.

[12] Orlando furioso, canto VIII, 1.

[13] Sui Lotofagi abbiamo già parlato nella Quinta Passeggiata, Parte Prima.

[14] Parmenide, Sulla Natura, fr. 2, verso 5.

[15] Epicuro, Lettera sulla felicità, 125, trad. A. Pellegrino, Milano 1992.

[16] B. Pascal, Pensieri, frammento 505, in Opere Complete, testi francesi e latini a fronte, a cura di M. V. Romeo, Bompiani, Milano 2020, p. 2546.

[17] Odissea, canto XI, 155-162.

[18] Odissea, canto XI, 164-169.

[19] Odissea, canto XI, 198-203.

[20] B. Pascal, Pensieri, cit., fr. 681, p. 2639.

[21] Odissea, V, 82-84.

[22] Odissea, V, 118-132.

[23] Odissea, V, 211-213.

[24] Odissea, V, 225-227.

[25] Odissea, V, 264-267.

[26] Virgilio, Egloga X, 69.

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