Apprendo dai giornali che il signor Stefano Addeo, insegnante di tedesco presso il liceo Medi di Cicciano (Napoli), ha scritto il seguente post: «Auguro alla figlia della Meloni la sorte della ragazza di Afragola».
Questo evangelico e angelico messaggio è abbastanza chiaro, ma io voglio chiarirlo ancora per chi non fosse a conoscenza del fatterello. E quindi traduco fedelmente: Auguro alla figlia (Ginevra, che ha 7 anni) della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, la sorte della ragazza di Afragola, una ragazza di 14 anni, che è stata uccisa a colpi di pietra.
A dir la verità, la cosa non mi stupisce tanto, perché conosco i miei polli, e so quindi (pur non facendo di tutta l’erba un fascio) quanti “polli” – come questo signore – fanno chicchirichì in certi “pollai” della scuola e dell’università. Sono “polli” che piangono notte e giorno per la sorte dei bambini palestinesi, ma che auspicano la morte di tutti gli altri bambini che intralciano i loro chicchirichì.
Ma ora vengo a sapere che questo “pollo” – stipendiato dai cittadini italiani per insegnare qualcosa di tedesco (immagino che avrà molto dialogato con i classici tedeschi come Immanuel Kant, Wolfgang Goethe e Thomas Mann) – ha fatto una comoda e penosa retromarcia, cercando disperatamente di giustificarsi. In breve ha detto: Ho scritto quella cosa ignobile, ma non ero io; ho scritto quella cosa ignobile, ma me l’ha dettata l’Intelligenza Artificiale.
Insomma, avendo perso qualche penna, questo “pollo” ricorre all’arma vincente che ogni avvocato, per scalzacane che sia, consiglia ai propri clienti: l’arma del “chiedo scusa”. E forse gli vuoi dare torto? Qui si può ammazzare, violentare, delinquere, ma se pronunci la parolina magica “chiedo scusa”, ti alleggeriscono la pena nei tribunali, nei confessionali e nei salotti TV.
Debbo riconoscere, però, che questo “pollo” non è un volgare operaio né un rozzo contadino (che puzza! per noi radical-chic), costui è un intellettuale (si fa per dire), ha una laurea (capirai!), ha studiato, e quindi, non bastandogli o scarseggiandogli l’intelligenza naturale, si serve dell’Intelligenza Artificiale. E, da furbacchione, fa marcia indietro.
A tal proposito ricordo che nella commedia dell’arte della grande Napoli del Seicento, c’era il personaggio del soldato tedesco (una sorta di miles gloriosus alla pummarola; una sorta di Scaramouche teutonico-partenopeo) che diceva in lingua napoletana: «Nuje tenimmo nu privilegggio bello assaje: facimme e dicimme chello che ce piace; e poi dicimmu ca stevemo mbriachi».
Così il nostro professore Addeo, spiegando di avere scritto d’impulso quel post durante la notte, ha dichiarato: «Mi sono svegliato la mattina e ho detto: “Madonna mia, cosa ho scritto”. L’ho cancellato subito».
In breve, dopo una notte insonne e tormentata come quella del manzoniano Innominato, il nostro professore prende coscienza, canta “Una mattina mi son svegliato, o bella ciao” e chiede scusa.
Ma, dopo aver chiesto scusa, il nostro “pollo” ci tiene alla sua statura etico-politica: «Non si augura mai la morte, soprattutto a una bambina. Ma non ritiro le mie idee politiche». Ecco furbescamente affacciarsi lo sfacciato martire politico: se punirete me, voi punirete le mie idee politiche! E allora voi calpesterete la nostra Costituzione, che è “la più bella del mondo”!
E per questo giudizio estetico sulla Costituzione può intervenire, ovviamente a pagamento, l’ineffabile Roberto Benigni che, dopo aver ravanato il pube di Raffaella Carrà e di Pippo Baudo, canta la canzone di Marino Marini: “Tu sei per me, la più bella del mondo, e un amore profondo, mi lega a te”.
Comunque ora – a proposito di martirio per questa ignobile libertà di vomitare minchionerie – è opportuno precisare che non è affatto la prima volta che il nostro professore Addeo scriva d’impulso. A mostrarlo è un altro post, precedentemente pubblicato dallo stesso “pollo” sulla sua pagina social. Post che Addeo – da coraggiosissimo leone da tastiera – ha provato subito a far scomparire dai suoi profili social, ma di cui l’Adnkronos è in possesso. Pochi giorni fa, infatti, il nostro eroe della “marcia indietro” augurava la stessa sorte, oltre che alla figlia della Meloni, anche ai figli di Antonio Tajani e di Matteo Salvini.
Che dire? Sempre colpa dell’Intelligenza Artificiale? Sempre colpa dell’impulso? Era forse “mbriaco”, come il soldato teutonico della commedia dell’arte? Vivaddio si dia una calmata, caro campione della libertà e martire dell’antifascismo!
Antifascismo? A questo punto, mestamente mi lascio prendere dai ricordi. E vi dico:
Ve lo immaginate il socialista Sandro Pertini che esclama vigliaccamente “Madonna mia, cosa ho scritto”, quando il fascismo lo becca una prima volta e lo condanna, nel 1925, a 8 mesi di carcere per avere diffuso materiale antifascista. Sarebbe forse bastato solo quel “Madonna mia”, per farlo “perdonare” e tornare libero. Ma Pertini non era un vigliacco; era un antifascista.
Ve lo immaginate Pertini che una seconda volta esclama “Madonna mia, cosa ho scritto” quando, nel 1929, il Tribunale speciale lo condanna a 10 anni e 9 mesi di reclusione e a 3 anni di vigilanza speciale (totale 14 anni!). Quel “Madonna mia”, avrebbe fatto miracoli. Ma Pertini non era un vigliacco; era un antifascista.
Pertini era talmente Pertini che, quando sua madre – spinta da amici e conoscenti che le descrissero il figlio in gravi condizioni di salute – presentò domanda di grazia per il figlio, egli si dissociò pubblicamente da quella domanda di grazia e scrisse questa lettera alla madre:
«Perché mamma, perché? Qui nella mia cella di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di vergogna – quale smarrimento ti ha sorpresa, perché tu abbia potuto compiere un simile atto di debolezza? E mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà. Tu che mi hai sempre compreso che tanto andavi orgogliosa di me, hai potuto pensare questo? Ma, dunque, ti sei improvvisamente così allontanata da me, da non intendere più l’amore, che io sento per la mia idea?»[1]
E andiamo avanti, anzi continuiamo a restare in alto.
Ve lo immaginate il comunista Antonio Gramsci che esclama “Madonna mia, cosa ho scritto” quando, nel 1928, il pubblico ministero disse al Tribunale speciale: «Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». E il Tribunale speciale condannò Gramsci a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Sarebbe bastato quel “Madonna mia, cosa ho scritto”, per sperare in un minimo di clemenza. Ma Gramsci non era un vigliacco; era un antifascista.
E ve lo immaginate il cattolico sturziano Carmelo Salanitro, professore (lui sì degno, mille volte degno, di fregiarsi di questo titolo!) di latino e greco nel mio Liceo Cutelli di Catania, che esclama “Madonna mia, cosa ho fatto” quando, nel 1940, il Tribunale speciale lo condannò a 18 anni di reclusione per propaganda antifascista. Sarebbe bastato quel “Madonna mia, cosa ho scritto”, per tentare di ammorbidire la pena. Ma il siciliano Carmelo Salanitro non era un vigliacco, era un antifascista.
Un antifascista, l’adranita Carmelo Salanitro, che non tradì mai i suoi princìpi democratici e cristiani di ispirazione sturziana. Non li tradì; e il grande professore Salanitro affrontò la morte nelle camere a gas di Mauthausen, la notte del 24 aprile 1945, alla vigilia della liberazione italiana.
Ve lo immaginate un condannato a morte della Resistenza che vigliaccamente esclama “Madonna mia, cosa ho fatto”. Non potete immaginarlo, perché i condannati della Resistenza non erano dei vigliacchi, erano esseri umani con coraggio e con paura, ma erano antifascisti.
Ecco, questi erano i nomi, questi erano gli uomini, questi erano gli esempi, che io – e non solo io – umilmente proponevo ai miei studenti per insegnare loro che cos’è la libertà «ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta»[2].
Per insegnare che la libertà è il principio della storia, del travagliato cammino umano, anche quando tutto può parlare di tramonto della libertà.
E citavo il grande intellettuale Francesco De Sanctis – uno dei padri fondatori della nascente patria italiana – che, nel 1850, incarcerato a Napoli nelle prigioni borboniche di Castel dell’Ovo, si faceva coraggio nella sua cella ripetendo: «Sempre vince, sempre vince, e perdendo vince ancor». E al povero secondino del carcere, che confuso gli chiedeva chi fosse costui che «perdendo vince ancor», egli rispondeva di non saperlo. Ma in cuor suo diceva: «È la libertà».
Sinceramente viene da piangere pensando al meglio delle intelligenze e della gioventù che abbiamo sacrificato in ogni tempo per l’unità d’Italia, per la libertà italiana, per poi avere un’Italia malridotta al punto da spacciare la Libertà con la licenza di sparare castronerie, di abbassare il legittimo scontro politico in guerra o in guerriglia, di sfogare sulla tastiera il narcisismo, il sadismo, la psicopatia di cattivi maestri frustrati e frustranti.
Perdonatemi, ma quando tocco argomenti di infima caratura etico-politica, ricordo sempre (lo ricordavo sempre ai miei studenti) la domanda che si pose e ci pose Ferruccio Parri durante una sua conferenza a Catania.
Correva l’anno 1961, avevo 16 anni e dal Ginnasio (biennio) ero già entrato al Liceo classico (triennio). Quell’anno andai alla Casa della Cultura di Catania (allora si trovava in via Vasta, una traversa di via Etnea) per ascoltare Ferruccio Parri, il leggendario capo partigiano “Maurizio”, il primo Presidente del Consiglio di un governo di unità nazionale, uno dei pezzi più pregiati dell’argenteria antifascista.
Mi riferisco a quel rigoroso piemontese Ferruccio Parri, che era stato professore (degnissimo di questo titolo, oggi titolo disonorato e disonorante) di lettere e filosofia al Liceo Parini di Milano.
Il suo valore e il suo coraggio – in mancanza di tastiera e di internet – il professor Parri li dimostrò abbondantemente già durante la prima guerra mondiale, dove fu ripetutamente ferito, meritando tre medaglie d’argento al valor militare, varie onorificenze italiane e francesi, e la promozione a maggiore per meriti di guerra.
Con l’avvento del fascismo, Parri si schierò all’opposizione e perse il posto e lo stipendio di professore, senza ricorrere al “Madonna mia, cosa ho fatto”.
Il resto è storia: è la storia dolorosa e gloriosa dell’Italia antifascista, dove Ferruccio Parri sta per sempre a fianco di giganti come Carlo Rosselli, Sandro Pertini, Filippo Turati e Pietro Nenni.
Quella sera a Catania, Ferruccio Parri, che era una persona seria, sideralmente lontana da certi comizi tutto fumo e niente arrosto, dopo avere ripercorso la travagliata storia di un’Italia alla ricerca della libertà, pose a se stesso e all’uditorio una domanda: «Ma valeva la pena perdere il meglio della nostra gioventù e della nostra intelligenza (Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Giovanni Amendola, ecc.), per ritrovarci ora con questa Italia? Era forse questa l’Italia che volevamo?».
Ovviamente la domanda di Parri era una domanda retorica, che comportava in sé una sola risposta: No, non ne valeva la pena.
Pensiamo un po’: stiamo parlando dell’Italia del 1961, che non superava il severo esame politico e morale di Ferruccio Parri!
A questo punto, non oso pensare al giudizio del rigoroso professor Parri, se avesse potuto conoscere e giudicare qualche antifascista di oggi come il suo “collega” professor Stefano Addeo, che sta in buona compagnia con i tanti “intellettuali” che su internet piangono solo con l’occhio sinistro rivolto a Gaza e che, con la scusa pelosa, immonda e ipocrita di distinguere il popolo di Israele dal suo governo (governo discutibilissimo, se si vuole, ma che è stato liberamente e democraticamente eletto), stanno alimentando in tutto il mondo occidentale un clima sempre più pesante e pericoloso di antisemitismo.
Così tutte le anime belle e le anime pie sono diventate dei lacrimatoi dove si scaricano tutti i fiumi e i rigagnoli delle lacrime di sinistra per i bambini di sinistra, ma che con occhi asciutti, siccis oculis, con occhi senza lacrime guardano alle vittime israeliane in ostaggio dal 7 ottobre 2023 ad oggi giugno 2025.
Ma non scivoliamo sui lacrimatoi, e parliamo di cose serie: parliamo della scuola italiana (beninteso, quando dico “scuola” in questo mio articolo, intendo l’istituzione che va dalla elementare sino all’università) che da parecchi decenni è in agonia e si dibatte nella crisi più penosa e parolaia della sua storia.
Poc’anzi ho detto: «questi erano gli esempi, che io – e non solo io – umilmente proponevo ai miei studenti per insegnare loro che cos’è la libertà».
Ecco ho usato la parola “esempio”, una parola démodé, oggi imbarazzante e incomprensibile per molti “educatori” che, stipendiati, fanno chicchirichì nel “pollaio” della scuola italiana (dalle elementari all’università).
Questa parola “esempio” presenta due aspetti in rapporto di unità-distinzione: il primo aspetto, riguarda l’exemplum, cioè un atto, un individuo, un comportamento che viene proposto agli altri come “modello” da imitare o da fuggire, e che conseguentemente si addita all’ammirazione o alla riprovazione dei giovani.
Quindi un “modello” può essere buono o cattivo, come c’è un buon maestro o un cattivo maestro, come c’è il pastore buono che cura e protegge le sue pecore o il pastore cattivo che “usa” le sue pecore per i suoi fini, le manda allo sbaraglio e poi le porta al macello.
Per pietà, si chiedano questi professori quali “modelli” abbiano ricevuto e quali modelli intendano proporre ai loro studenti.
Il secondo aspetto della parola “esempio” è ancora più indigesto, più negletto, più oltraggiato del primo, perché richiede una onesta coerenza fra le parole e i fatti, cioè a dire, il dovere dell’educatore di “dare l’esempio”.
Nella mia vita, negli incontri avuti con i giovani insegnanti, ho sempre ripetuto questo ammonimento: sappiate che il vostro giudice più severo non è il preside o il provveditore, ma lo studente.
Nel giro di poche ore, al massimo di pochi giorni, lo studente ti ha preso le misure: “con questo ci divertiamo; questo è severo ma è preparato; questo è bravo ma è debole”.
Ecco, sentitevi sempre sub iudice, ossia sotto il giudizio di un giudice severo: lo studente!
E perciò dovete “dare l’esempio”, il buon esempio e non già il cattivo esempio. E dovete sempre giocare con la vostra pelle, e non già con quella dei giovani.
Da qui nasce o muore l’autorevolezza. Se tu, professore, non studi, se non leggi, se non ti aggiorni, se ripeti ogni anno gli stessi appunti, diventa somma incoerenza e disonestà pretendere che il tuo studente studi, si impegni, si interessi, si appassioni. Essere appassionati e appassionanti nel proprio insegnamento è fondamentale, per appassionare i giovani allo studio, che non è un gioco ma un lavoro, un faticoso lavoro.
In questo caso, mi si permetta di ricordare quanto diceva Hegel: «Nulla di grande si fa senza passione».
Ora voglio citare un uomo di scuola, un educatore per antonomasia, ormai non molto popolare né fra i cattolici né fra l’intelligencija (si fa per dire) di sinistra; in breve voglio citare Giovanni Bosco: «Nessuna predica è più edificante del buon esempio».
Il buon esempio! Ecco, l’educazione viene recepita come seme destinato a germogliare, solo se è accompagnata dalla coerenza di vita. Un padre non può rimproverare il figlio che passa troppo tempo sulla rete, quando poi egli rimane sino a notte a navigare sui social network. Una madre non può rimproverare il figlio che fuma, mentre lei si ciuccia un pacchetto di sigarette al giorno. Tu, educatore, non puoi riempirti la bocca di belle parole come pace, libertà, amore, quando nella tua bocca diventano parole vuote e false, perché così tu inciti alla violenza, all’eliminazione dell’avversario ridotto a nemico da debellare.
E, sempre poc’anzi, ho usato pure la parola “insegnare”, che deriva da signum, «imprimere segni, lasciare tracce». Insomma, questa scuola non lascia traccia; anzi, non deve lasciare tracce, perché l’insegnante-tipo non deve insegnare, cioè non deve lasciare segni, ma “accompagnare”, come le guide turistiche nelle gite d’istruzione. Accompagnatore, giammai maestro (Dio ce ne scampi da un maestro!).
E pertanto vorrei sottolineare che la stessa parola “educare” – anch’essa dimenticata, guardata con sospetto, accusata di pomposità retorica – deriva da educĕre e significa trar fuori, allevare (ecco perché parlo sempre di “allievi”). Educare significa perciò: trarre un giovane fuori dall’ignoranza, dal pre-giudizio, dalla caverna di cui parla il divino Platone, e accompagnarlo alla luce della verità e della libertà.
Come? Promuovendo – sottolineo: per mezzo dell’insegnamento e dell’esempio – lo sviluppo equilibrato e armonico delle facoltà spirituali (logiche, estetiche, filosofiche, ecc.) e delle qualità morali dei giovani allievi (qualità morali che non hanno nulla a che vedere col moralismo bigotto).
Ma non finisce qui il problema del nostro “mestiere” di educatori, che è il mestiere più bello e più delicato e più difficile del mondo, dopo quello dei genitori.
C’è un altro dovere educativo: quello di presentare lo studio non già come un mero diletto personale, come un passatempo solipsistico, un piacere solitario, bensì quello di presentare lo studio come un faticoso lavoro (faticoso come tutti i lavori ben fatti) da accompagnare al concetto di utilità sociale.
Ebbene sì, con buona pace delle erinni che si stracciano le vesti e ti sbranano se tu parli degli “altri”, se tu, superando i confini dell’individualismo e dell’egoismo, osi parlare di società, se tenti di uscire dall’atomismo etico-politico; con buona pace di queste erinni, ogni giovane deve sapere e sentire che sta studiando per sé e per la società in cui vive, per quella società (famiglia; scuola; istituzioni, ecc.) che bene o male gli dà la possibilità di miglioramento.
Ancora un ricordo personale, che in realtà vuol essere un elogio di una esemplare figura di educatore. Quando mi laureai in Filosofia, il mio grande, colto, severo e indimenticabile professore di Storia e Filosofia, Francesco Maricchiolo, dopo avere assistito alla seduta della mia laurea, mi scrisse una lettera in cui sobriamente si complimentava con me e (senti, senti!) esprimeva la sua soddisfazione perché «con te la nostra società sta facendo un ottimo acquisto». La nostra società! Questi era il docente rivoluzionario, marxista, antifascista, professor Francesco Maricchiolo, da cui ho appreso il mio modesto metodo di studiare, di educare e di formare uomini-cittadini, uomini onesti.
Nostalgia? Sicuramente. Ma una nostalgia che non mi fa considerare tutto il passato come una sorta di età dell’oro. Anche allora trovavi – e anche oggi puoi trovare – buoni o mediocri insegnanti, buoni o mediocri studenti. È la vita, bellezza mia!
Ma, a parte le eccezioni che confermano la regola, oggi dobbiamo chiederci perché l’istruzione italiana (e non solo italiana) «è andata incontro a un drammatico svuotamento di senso e a una clamorosa perdita di ruolo sociale»[3].
A tal proposito, dalla maestosa montagna di paroloni vuoti, slogan ideologici, scendiamo negli inferi dei fatti, nella palude della realtà italiana.
Su un campione di oltre 900 studenti (nella stragrande maggioranza liceali!) provenienti da diverse regioni italiane, più del 70% non è in grado di spiegare cosa significhino le parole “desumere”, “futile”, “ponderare”, “tenacia”. Mi direte: stupidaggini, quisquilie, rispetto all’inarrestabile e trionfale marcia del progresso e del progressismo!
E vi dico di più. In occasione di un recentissimo concorso a cattedra per la classe A019 (Filosofia e storia), una l’allieva di una mia allieva (membro della commissione esaminatrice) mi scrisse:
Questo concorso «mi ha visto esaminare, per quattro mesi, ben 300 futuri insegnanti; i candidati che siamo riusciti a promuovere si contano sulle dita di una mano. Sono sicura che se ci fosse stato Lei si sarebbe divertito a scoprire che Confucio è un filosofo greco (poi il candidato si è corretto dicendo che era latino), mentre Maritain un umanista, che Kant nella Critica della ragion pura analizza massime e imperativi, che Elisabetta I è una regina che visse tra il 1300 e il 1400, che il processo di Norimberga è stato indetto per “alleviare” gli scrupoli morali che i gerarchi nazisti provavano nei confronti degli ebrei. Queste sono solo alcune delle risposte date ai quesiti di storia e filosofia estratti. Alcuni candidati, per evitare di riscrivere la storia, decidevano di non proferire parola su argomenti quali Alessandro Magno, l’Unità d’Italia, la seconda guerra mondiale».
Aggiungo io: questi asini erano laureati in Filosofia nelle università italiane; questi caproni vorrebbero una cattedra di Filosofia e Storia nei Licei italiani!
Questi sono i futuri insegnanti? Attenzione! I figli di questa scuola in crisi da molti decenni sono già in cattedra dalle elementari all’università. Salvate doverosamente le eccellenze e le eccezioni, da questa scuola per semianalfabeti da promuovere in massa (todos caballeros!), è uscita da circa mezzo secolo a questa parte, e sta ancora uscendo, tutta la classe dirigente di questa società italiana deculturalizzata.
In verità dalla scuola italiana, purtroppo, non escono soltanto futuri insegnanti; escono pure futuri medici, futuri magistrati, futuri ingegneri, futuri politici, ecc. Andiamo a vedere come scrivono (non solo oggi) una legge, una diagnosi, una sentenza. In certi casi, c’è da rabbrividire.
E che il fenomeno del semianalfabetismo non sia recente, lo dimostra un sondaggio del 2018 su un campione di 8000 (leggasi ottomila) italiani dai 18 ai 65 anni.
Il 13% scrive “ho fatto la ceretta al linguine”; il 50% si confonde nell’uso della “c” e della “q”. Il 65% usa “gli” al posto di “le”. Non parliamo del congiuntivo. Da morire!
Allora tu pensi che lo Stato italiano – dai ministri della Pubblica Istruzione o dell’Università con tutto il loro corteggio di segretari protetti e di burocrati ottusi, e poi a scendere sino all’ultimo dirigente della scuola italiana – si sia posto in mezzo secolo questo problema.
Ma non c’è problema! Basta occultare questa realtà miseranda con una cortina fumogena di retorica e di autocompiacimento, per titillarsi e titillare la gente con il “successo formativo”, con i “valori della Costituzione”, con “l’accoglienza”, con “l’inclusività”, e fumisteria varia. Tanto poi il processo di Norimberga l’hanno voluto i nazisti!
E poi, vuoi mettere? La scuola italiana vanta quasi il 100% dei promossi alle medie. E dopo c’è il trionfo della fotografia sul giornale. Un’apoteosi! La scuola gode ottima salute! Ogni anno raggiungiamo tutti gli obiettivi prefissati.
E intanto l’Italia da molto tempo è diventata un paese che non legge, che si accultura solo sui social, che perde l’abitudine a ragionare, che si culla su sentimenti infantili, che fa linguacce per un selfie, mentre poi si abbandona ad atti di violenza animalesca, magari con relativo video.
Per non parlare di un numero crescente di minorenni alcoolizzati ricoverati per coma etilico, ossia per anticamera della morte. Siamo oggi arrivati al ricovero di un bambino di 11 anni in coma etilico (notizia del Telegiornale RAI 1 di oggi).
Inoltre, un velo molto pietoso e molto ipocrita, viene spesso steso sulla droga che continua mietere vittime fra la gioventù. La droga? basta non parlarne; al massimo celebriamo qualche Giornate o qualche conferenza sulla droga. Ma poi, passato il momento dell’attenzione, tornare a parlare genericamente dei “giovani” senza altra connotazione se non quella dei diritti senza doveri.
Ma, per non sprofondare nella malinconia, vi offro una perla sull’inadeguatezza di un certo personale politico da mezzo secolo ad oggi.
Il 4 settembre 2017, oltre 600 (leggasi seicento) professori universitari delle più diverse materie, scrissero una Lettera al ministro dell’Istruzione, per denunciare le enormi carenze in italiano da parte degli studenti in occasione degli esami o nella stesura della tesi di laurea. Per precisare, in questa Lettera si parlava di «errori appena tollerabili in terza elementare». Avete letto bene: alle superiori e all’università, errori da terza elementare! E non da oggi, perché lo posso testimoniare io, che ho letto certe tesi di laurea.
Ma andiamo al bello. I professori universitari promotori della raccolta di firme (oltre 600) furono ricevuti dal ministro Valeria Fedeli. Questa santa donna (nessun maschilismo), dopo avere ascoltato le testimonianze sul semianalfabetismo giovanile in italiano, indicò come uno dei possibili rimedi “una forte spinta all’insegnamento dell’inglese” che, secondo lei, avrebbe rafforzato l’apprendimento dell’italiano. Avete capito bene? La sventurata (in senso manzoniano) prima s’illuminò d’immenso, e poi indicò la strada maestra: quella di intensificare l’insegnamento dell’inglese per favorire l’italiano.
Ma questo lo sapevamo pure noi, cara ministra! Chi non sa che, studiando l’inglese, si apprende l’italiano? Infatti, i nostri padri fondatori della lingua italiana (Dante, Petrarca, Machiavelli, Manzoni, Leopardi) studiarono prima l’inglese.
Ma, direte voi, Manzoni andò a Firenze a sciacquare i panni in Arno, mica andò a Londra. E qui vi sbagliate. Secondo il ministro dell’istruzione Valeria Fedeli, Manzoni andò a Firenze per frequentare un corso in presenza di lingua inglese presso una famosa British School che troneggiava nella città di Dante. E la lungimirante Fedeli aveva ragione.
Ma c’è chi, dietro la cortina fumogena delle belle parole di moda, ha fatto per la scuola più danni dei politici. Esempio: l’insigne linguista Tullio De Mauro. Questo monumento della cultura ebbe a dichiarare che bisognava abolire i “malèfici libri di testo” per sostituirli “con aperte e libere biblioteche”. Una mazzata alla scuola fra gli applausi di tutti.
Ma Tullio De Mauro continuava: bisogna spazzare via “lo studio come acquisizione individualistica di nozioni che consentono di emergere nella competizione sociale”. E poi, al diavolo “le consuete pappine nozionistiche e manualistiche”; è invece doverosamente rivoluzionario “suddividere il lavoro di ricerche e letture in gruppi”.
Insomma, la parola d’ordine fu ed è una sola, categorica e impegnativa per tutti: vincere! Vincere la guerra contro le pappine nozionistiche e manualistiche! E quindi far trionfare lo studio di gruppo; formare gruppi di ricerche e di letture.
E voi, bifolchi della vecchia scuola borghese, prima avevate solo l’amore di gruppo, ora avrete pure la ricerca di gruppo, la lettura di gruppo, l’interrogazione di gruppo. Insomma una bella ammucchiata rivoluzionaria nella scuola democratica, progressista e di gruppo. E il ruolo della sventurata professoressa in questa ammucchiata? Ma è ovvio: quello di tenutaria di una bella casa dove si tollera e ci si ristora la mente in gruppo!
E il registro? De Mauro non risparmia niente e nessuno. In preda a un eroico furore utopico-progressista De Mauro elenca alcune “inutili scorie” da eliminare dall’Eden della scuola: “inutili scorie registri, voti, interrogazioni individuali, e l’ordine solito dei banchi di scuola, e ora, e in prospettiva, le stesse pareti divisorie delle aule”.
Ma insomma, ci può spiegare, di grazia, lo scienziato De Mauro come mai da quel cesso della vecchia scuola è uscito fuori un genio come lui? Un genio che i politici innalzarono alla dignità di ministro dell’Istruzione nel governo di Giuliano Amato.
Un genio dalla visione profetica che avrebbe voluto spazzare via le interrogazioni individuali, troppo borghesi, per lasciare spazio incontrastato al collettivo, al gruppo, all’autogestione e all’autovalutazione. E il docente? uno scatolone inutile e ingombrante, da accantonare con indifferenza.
Eppure, malgrado quest’orgia iconoclasta contro il buon senso e contro la scuola, moltissimi insegnanti hanno applaudito ed applaudono, o si sottomettono, a queste belle parole.
E la rivoluzione culturale? De Mauro propone la sua rivoluzione dell’ordine dei banchi! Per giunta questo Mao Zedong della scuola italiana progetta e promette di abbattere le pareti divisorie delle aule.
Bellissimo, ci pensi? In un immenso piano senza pareti, tu entri e vai a organizzare un bel gruppo di filosofia, mentre, accanto a te, un altro collega organizza un gruppo di matematica, e un altro ancora parla della “rivoluzzzione cioè” ai suoi giovani apostoli, ricorrendo ad ogni piè sospinto al ritornello del “portare avanti”, del “nella misura in cui”, del “bisogna andare a monte”. Vuoi mettere? È tutta un’altra cosa. Fa più fino. Fa più radical-chic.
L’ideale di De Mauro sarebbe stato quello di abbattere anche le pareti dei cessi, di quelli dei docenti e di quelli degli studenti. Così si sarebbe visto qualche insegnante scrivere volgarità all’indirizzo di una collega, qualche professore farsela addosso per diarrea, per non parlare degli studenti e delle studentesse. Un cinemascope! Ti fa sognare di essere al club Bilderberg, e invece ti aggiri come una scimmia frastornata fra le macerie di gruppo, di una “squola” di gruppo, a cielo aperto e cesso senza pareti.
La scuola (meglio scrivo “squola”?) italiana è diventata la scuola delle riforme. Non c’è un cane di politico (di tutte le razze e di tutti i canili) che non abbia riformato la precedente riforma, senza cambiare nulla. Poi arrivò il dominio dei pedagogisti al ministero. E sulla testa della “squola” dei semianalfabeti si riversò una cascata di parole, paroloni e parolacce, come “l’autonomia”, il “curricolo”, il “portfolio delle competenze”, la “cittadinanza”, il “learning by doing”, il “POF”, il “progetto”, e “l’inclusione”, insomma ancora un altro spettacolo di fuochi d’artificio.
Con questo stramaledetto idioma burocratico-pedagogico sono ormai scritte le circolari ministeriali, le migliaia di “moduli valutativi”, di “formulari” che ogni insegnante (che non deve insegnare) è tenuto a riempire.
E, inquesto caso, il professore che passa per “bravo”, quello che una volta sarebbe stato al massimo incaricato di fare l’orario delle lezioni, diventa il punto di riferimento sindacal-burocratico, il Mosè del decalogo ministeriale, il Salvatore dei colleghi, per guidare o andare a salvare i malcapitati professori che si sono perduti in quel labirinto di stramaledette parole, stramaledette schede, stramaledette circolari!
Che bellezza! Ogni scuola ormai è un indecente falansterio, dove si parla e si studia solamente di infinite riunioni, per discutere all’infinito come ottenere infiniti finanziamenti, inventandosi infiniti progetti.
Fuor di celia, da parecchi decenni la scuola non ha alcun peso nella società italiana. Tutti gli “operatori scolastici” (chi cavolo sono?) a straparlare di “territorio”, di “società”, di “accompagnamento al lavoro”, e nessuno vuole ammettere che della salute della scuola ormai se ne infischiano tutti.
Sul fronte delle famiglie, se ne infischia il genitore 1 e il genitore 2, perché hanno la garanzia della promozione per tutti i loro pelosi e barbuti pargoletti. I genitori, infatti, possono intervenire pesantemente (anche ricorrendo alla violenza) quando gli “operatori scolastici” “vittimizzano” (proprio così dice questa plebaglia) i loro figli.
Ma poi tutto finisce a tarallucci e vino, perché i figli sono tutti promossi col massimo dei voti e foto sul giornale. D’altronde, lo sappiamo: 'E figlie, so piezz' 'e core!
Sul fronte politico, che è il più importante, se ne infischiano altamente e spudoratamente i politici di qualsiasi colore per tre motivi fondamentali: 1. Perché il personale politico di oggi è figlio di questa scuola parolaia, semianalfabeta e inconcludente, e di conseguenza ogni politico semianalfabeta crede che questa sia l’unica realtà scolastica ab aeterno; 2. Perché la politica ha sempre una paura matta di una esplosione di proteste studentesche che potrebbero diffondersi e legarsi ad altri gruppi sociali, e quindi lascia fare, lascia smontare pezzo per pezzo la “squola”, purché non si arrivi a un nuovo Sessantotto; 3. Perché la mediocre politica che impera da circa settant’anni a questa parte cerca e compra consenso a prezzi stracciati.
Insomma il politico di razza (razza estinta?), lo statista, vola alto, ha un suo progetto politico e democraticamente cerca consenso (non solo quello elettorale) per il suo progetto, per la sua strategia. Ma il politico mediocre (che non è soltanto il deputato, ma può essere anche un rettore di università, un presidente di corso di laurea, ecc.) cerca disperatamente il consenso per essere eletto e poi rieletto, scatenando un mercato delle vacche di promesse e di accordi sulla base del do ut des.
E in questo triste terzo caso, l’intervento politico sulla scuola-università si riduce ad una miserabile e duplice strategia elettorale: 1) far entrare un certo numero di insegnanti precari, perché, alla scadenza elettorale, ai politici “servirà” la gratitudine dei gruppi di professori-elettori; 2) sfornare circolari di mille colori, sguinzagliare ispettori ministeriali, mobilitare i dirigenti centrali e periferici, per dire ai quattro punti cardinali che bisogna “aiutare i ragazzi” e promuoverli tutti, in modo tale che i genitori-elettori non votino contro, in occasione della prossima consultazione elettorale.
In questo clima ossessionante e nauseabondo abbiamo distrutto la scuola vecchia (che nessuno ha mai conosciuto, se non un vecchio come me) senza riuscire a fondare una vera scuola nuova!
In questo momento, mentre sto per concludere, apprendo che il professore Stefano Addeo ha tentato il suicidio.
«Non ho retto tutto l’accanimento mediatico che c’è stato nei miei confronti – ha detto al telefono all’Ansa dal letto dell’ospedale. Un’ora fa ho provato il suicidio con un mix di psicofarmaci. Ho commesso un errore, ma non dovevo essere crocifisso in questo modo, mi hanno linciato. Ho chiesto scusa, non ce l’ho fatta».
A dirla tutta, è stato un tentato suicidio con immediata telefonata del professore al proprio dirigente scolastico, che giustamente ha allertato i soccorsi, salvandolo.
Però è giusto sottolineare che Stefano Addeo ha inviato una lettera aperta alla Meloni: «Le chiedo, se possibile, di potermi incontrare per poterglielo dire guardandola negli occhi».
Alla luce di questi nuovi dolorosi fatti, pur restando immutata la mia condanna verso l’odio politico di ogni colore, che sta divorando moltissimi italiani; pur stigmatizzando il gesto di un essere umano (per giunta un insegnante) che, accecato dall’odio, augura la morte (una morte atroce a colpi di pietra!) a un altro essere umano, per giunta una bambina di 7 anni; tutto ciò premesso, adesso considero più pacatamente (mi hanno insegnato a indignarmi, mai a odiare!) la sorte di questo “povero diavolo” condannato da tutti, indifendibile pure per suoi compagni, isolato come un lebbroso, disperato e incapace di darsi veramente la morte.
E questo “povero diavolo” ora fa risuonare in me le parole che un monatto disse a un Renzo impaurito perché sospettato di essere un untore nella peste di Milano: “Va’, va’, povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano”[4].
In verità, il professore è un “povero untorello” che, eccitato e accecato dalla macchina dell’odio, ha messo a sua volta in moto questa macchina infernale, una macchina più grande di lui, una macchina che lo ha travolto e che sta travolgendo numerosissimi italiani.
E a questo punto rivolgo un muto e fervente appello a Giorgia Meloni:
Onorevole Meloni, Lei ha avuto ed ha la mia piena e sincera solidarietà per essere stata colpita in modo micidiale sia come Capo del Governo, sia come donna, sia come madre di una bambina di 7 anni a cui si augura una morte atroce, istigando quanto meno oggettivamente i tanti pazzi ideologizzati a commettere il delitto.
Io Le esprimo ancora la mia solidarietà come cittadino, come vecchio “uomo di scuola”, come padre di due figli, che sono entrambi gli unici gioielli che possiedo, e come nonno di due pezzi del mio cuore: un nipote di 17 anni e un nipote di 10 anni.
In nome di questa mia umana vicinanza al Suo dolore, Le chiedo: Perché non va a trovare quel “povero diavolo” che, tra l’altro, vorrebbe incontrarLa?
Signor Presidente, trovi fra i suoi impegni politici nazionali e internazionali un attimo per questa visita. Una visita sincera, semplice, sobria, senza squilli di tromba e rulli di tamburo.
Lasci stare, La prego, quella strana trovata di andare al seggio e poi non ritirare le schede.
Invece di andare al seggio, vada a trovare un “povero diavolo” che ha chiesto di vederla.
«Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia»[5] – disse Lucia all’Innominato.
E noi tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare da Dio.
Ebbene, faccia un gesto che avrà valore di umana misericordia per un essere umano, che ci è fratello in quel Dio che a tutti è Padre.
Un gesto che avrà pure l’impronta della pietà e dell’amore di matrice cristiana.
Un gesto che sarà pure un autorevole messaggio di pace per quell’uomo e, nel contempo, di pacificazione per la nostra nazione in preda alla follia dell’odio e della violenza.
Con tutte le nubi di guerra che si addensano ogni giorno sul nostro capo, un gesto simile può sollecitare tanti alla pacificazione che si fonda, innanzi tutto, su una pace interiore, sulla pace della coscienza morale.
Questa, Signor Presidente, è la preghiera-esortazione che Le rivolgo dalla mia stanza, nella mia serena solitudine allietata dall’affetto degli amici d’infanzia e dei miei figli-allievi, e nel mio operoso silenzio grazie al quale «mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei»[6].
[1] S. Pertini, Lettera alla madre, 1933, presso CESP – Centro Espositivo Sandro Pertini.
[2] Dante, Purgatorio, I, 71-72.
[3] Ernesto Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Feltrinelli, Milano 2020, p. 19.
[4] I Promessi Sposi, cap. XXXIV.
[5] I Promessi Sposi, cap. XXI.
[6] Leopardi, L’Infinito, 11-13.