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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

Università di Catania - Italia

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

Passeggiando fra gli alberi della storia. Quinta passeggiata (parte III)

2025-05-01 17:38

Prof. Giuseppe Pezzino

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Passeggiando fra gli alberi della storia. Quinta passeggiata (parte III)

Entrando nel porto di Itaca, ci si presenta un albero di ulivo «dall’ampio fogliame» [tanúfullos; τανύφυλλος]. Questa pianta, come sappiamo...

Entrando nel porto di Itaca, ci si presenta un albero di ulivo «dall’ampio fogliame» [tanúfullos; τανύφυλλος]. Questa pianta, come sappiamo, è sacra alla dea Atena-Minerva ed accompagna costantemente l’eroe Odisseo-Ulisse nel suo lungo e travagliato viaggio [nóstos; νόστος] di ritorno a Itaca:

 

«All’estremità del porto c’è un ulivo dall’ampio fogliame,

e vicino ad esso una grotta deliziosa, scura,

sacra alle Ninfe che si chiamano Naiadi»[1].

 

Siamo, dunque, giunti a Itaca? Ebbene, sì. Siamo finalmente a casa!

Ma, per meglio intenderci, facciamo un passo indietro e portiamoci nella magica atmosfera di Scheria, l’isola dei Feaci, dove Odisseo giunge da naufrago. Qui, agli occhi di Odisseo, uno spettacolo fiabesco offre la reggia del generoso e ospitale Alcinoo:

 

«Uno splendore come di sole o di luna

c’era nella casa dall’alto soffitto dell’intrepido Alcinoo.

Muri di bronzo si prolungavano ai due lati, dalla soglia

fino al vano più remoto, e tutto intorno un fregio di smalto.

Erano d’oro le porte che la solida casa dentro chiudevano,

d’argento gli stipiti che stavano ritti sulla soglia di bronzo,

d’argento era l’architrave, e d’oro l’anello della chiave;

e d’oro e d’argento ai due lati erano i cani

che Efesto aveva fatto con arte sapiente,

per vigilare sulla casa dell’intrepido Alcinoo,

immortali e senza limiti di tempo indenni da vecchiaia»[2].

 

In questa splendida reggia va a incastonarsi il “Grande Racconto”, ossia la lunga narrazione che Odisseo fa del suo tormentato viaggio di ritorno dalla città di Troia sino all’isola Ogigia, dove abitava Calipso. Il lungo e affascinante racconto desta l’ammirazione e la commozione di Alcinoo e degli altri Feaci. E tutti hanno modo di valutare il carattere di quel viaggio di ritorno di Odisseo. Non si era trattato, infatti, di un viaggio intrapreso per conoscere ed esplorare nuove terre; si era trattato, invece, di un viaggio animato dalla nostalgia della patria e dall’invincibile desiderio di rivedere la famiglia.

Nell’occasione, dopo aver parlato di avventure, di disavventure e di sventure, Odisseo si qualifica come “infelice” [dústenos; δύστηνος] e supplica Alcinoo e gli altri Feaci di farlo tornare a Itaca, alla sua patria, alle sue radici.

 

«Voi, quando apparirà l’aurora, affrettatevi a farmi

metter piede, me infelice, sulla mia terra patria,

pur dopo molto patire. E mi lasci la vita, quando io veda

i miei beni e i servi e la mia grande casa dall’alto tetto»[3].

 

Dopo il “Grande Racconto” di Odisseo, che nulla chiede se non di poter tornare in patria, il re Alcinoo lo colma di ricchi doni e lo fa imbarcare su una delle sue magiche navi che, senza timone e senza nocchiero, velocissime solcano i mari e sanno dove andare, perché già conoscono i pensieri e i propositi dell’equipaggio:

 

«Le navi dei Feaci non hanno nocchieri

né hanno timoni, come invece hanno le altre navi; ma esse

conoscono da sé gli intenti e i pensieri degli uomini,

e conoscono le città e i pingui campi di tutti

e attraversano rapidissime l’abisso del mare, nascoste

nel denso aere e nella nebbia; e non c’è mai timore

né che subiscano danno né che periscano»[4].

 

Pertanto, sulla nave destinata a riportare in patria Odisseo vengono caricati i doni preziosi. Quindi, al sopraggiungere della sera, si svolge una festa di congedo, in cui l’eroe greco ringrazia la regina Arete e gli altri Feaci.

Poi Odisseo s’imbarca sulla nave magica, e subito s’addormenta in un sonno profondo. Nell’arco di una sola notte la nave arriva portentosamente nel porto di Itaca, dove i marinai depongono Odisseo ancora addormentato assieme ai doni ricevuti, e poi furtivamente vanno via.

E così, in quest’ultima tappa, l’Itacense porta a termine il suo viaggio senza neppure accorgersene.

Al suo risveglio, Odisseo si trova solo e non riconosce la sua terra perché Atena-Minerva l’aveva coperta di una fitta nebbia allo scopo di evitare che egli corresse immediatamente alla sua casa, compromettendo così la possibilità di punire i Proci, ossia i pretendenti [mnestères; μνηστῆρες] di Penelope. E solo quando la dea Atena gli dice che egli si trova a Itaca, Odisseo, dopo una reazione di sospettosa diffidenza, si inginocchia e bacia il suolo della sua sospirata Itaca:

 

«Così dicendo, la dea disperse la nebbia e apparve la terra.

Gioì allora il molto paziente divino Ulisse,

contento per la sua patria, e baciò la terra datrice di messi»[5].

 

Poi l’astuta Atena invita l’astuto Odisseo a dissimulare e, soprattutto, a “sopportare” [anécomai; ἀνέχομαι] le gravi traversie che lo attendono:

 

«E ora di nuovo

sono venuta, per ordire con te un accorto progetto,

[…] per dirti quanti patimenti nella tua casa ben costruita

è destino che tu soffra. Ma tu sopportali, anche se per necessità.

E non rivelare a nessuno, sia uomo o sia donna,

che dopo lungo errare sei arrivato: ma in silenzio

sopporta molti dolori, subendo violenze di uomini»[6].

 

D’altronde la sopportazione, che può apparire come debolezza, come sottomissione, è invece una forza potente di auto-controllo, che rimanda l’azione-reazione di Odisseo al momento più favorevole e opportuno. Esemplare, in questo caso, è il monologo di Odisseo in cui egli ammonisce il suo cuore [kradía; κραδία] a sopportare:

 

«Si batté il petto e ammonì il suo cuore così:

“Sopporta, cuore mio. Pena più accanita sopportasti

quel giorno, che il Ciclope con impeto violento mi divorò

i forti compagni. Ma tu hai resistito, finché la mia astuzia

ti fece uscire dall’antro, e tu credevi sicura la morte”»[7].

 

In questo brano si ha un procedimento per cui il monologo diventa strumento di un discorso a se stesso. Insomma, qui il rapporto tra l’«io» e il cuore è problematizzato: Odisseo – che è l’«io» del monologo – si rivolge al cuore con un vocativo (“o cuore”) come se questo fosse un interlocutore, una persona.

In altri termini, il cuore appare come un oggetto deputato alle reazioni emotive, passionali, mentre Odisseo è il soggetto capace di auto-coscienza e di auto-controllo.

D’altra parte, in questa proposta di Atena a dissimulare, ossia a nascondere il proprio pensiero e il proprio proposito, sta tutta una tattica del velare per poi svelare, del coprire la propria verità per poi scoprire la verità altrui. E il tutto per giungere alla punizione dei pretendenti di Penelope.

Ma la punizione dei Proci sarà forse una banale vendetta da parte di Odisseo? Non proprio! La questione è più complessa. Da questo momento in poi, tutto porta e si riporta a un “giudizio finale”, che equivale all’amministrazione della giustizia da parte del re Odisseo, che è tornato a casa e che ha il diritto-dovere di ristabilire un ordine etico-politico sconvolto specialmente dai pretendenti di Penelope.

In questo “giudizio finale” Odisseo valuterà la punizione da infliggere ai Proci, che si sono macchiati di una triplice colpa. Infatti, con la loro tracotante superbia costoro lo hanno offeso come marito, perché hanno cercato di prendere il suo posto accanto a Penelope; gli hanno fatto violenza come padre, perché hanno attentato alla vita di suo figlio Telemaco; e lo hanno oltraggiato come padrone della reggia, perché hanno saccheggiato le sue sostanze e hanno spinto all’infedeltà servi e ancelle.

Ancor più precisamente, il “giudizio finale” di Odisseo emetterà una sentenza giusta, severa e inappellabile, sulla base della dialettica fedeltà/infedeltà [pístis/apistía; πίστις/ἀπιστία].

E, nel campo della fedeltà, spiccano le figure di Eumeo, il guardiano e allevatore dei porci di Odisseo; Euriclea, la vecchia nutrice; il cane Argo. Di contro, nel campo dell’infedeltà spiccano, oltre ai Proci, il capraio Melanzio; l’ancella infedele Melanto, sorella del capraio Melanzio e amante di Eurimaco; l’indovino Leode e altre undici ancelle.

Grazie all’intervento di Atena, Odisseo assume l’aspetto di un vecchio mendicante, allo scopo di saggiare la fedeltà di tanti personaggi che popolano la sua Itaca e lo stesso suo palazzo.

Certamente, accompagnando Odisseo verso la sua reggia e verso il casolare del porcaro Eumeo, ci accorgiamo subito di avere lasciato per sempre la dimensione fiabesca del mondo di Calipso e della reggia di Alcinoo. Ora, a Itaca, si spengono le luci del meraviglioso e del fiabesco, per mostrarci un realistico intreccio di bene e di male, di ricchezza e di miseria, di umile fedeltà e di insolente superbia. E Odisseo, nella veste di uno sconosciuto mendicante, dovrà frenare gli impeti del suo cuore sia nel caso della commozione per l’incontro di una persona cara, sia nel caso dell’impulso a reagire contro le offese e le angherie di straccioni come il capraio Melanzio o di nobili come i Proci.

Ora, per Odisseo, è il tempo della sopportazione, della dissimulazione, del nascondimento della propria identità, del proprio pensiero e della propria volontà. E il tempo di tale nascondimento avrà fine solo dopo aver superato la prova dell’arco.

Prima della gara, la scena si colora di fosche tinte e risuona di folli risate, quasi a presagire e a preludere un epilogo di strage e di sangue.

 

«Così disse Telemaco e nei pretendenti Pallade Atena

suscitò riso inestinguibile e ne dislocò la mente.

Quelli ormai ridevano con mascelle fuori del loro controllo,

e le carni che mangiavano erano imbrattate di sangue; e i loro occhi

si riempirono di lacrime, e l’animo presagiva funebre pianto»[8].

 

A questo punto interviene Atena a stravolgere la mente dei Proci (perdere il favore di Atena significa perdere la ragione, la saggezza, addirittura impazzire!), i quali si abbandonano a un riso folle, mentre le carni imbandite trasudano sangue e i loro occhi si riempiono di lacrime. Hanno costoro le lacrime agli occhi per le grasse risate oppure per la vista del sangue, che dalle carni va ad imbrattare loro le mani e la bocca? L’indovino Teoclimeno vede l’infausto prodigio e lo interpreta come un segnale della loro morte imminente; ma Eurimaco lo tratta come un pazzo.

In verità, i pazzi sono loro, i pretendenti di Penelope! Sono loro i pazzi, che piangono e ridono follemente, come chi danza sull’orlo di un abisso e non si accorge della catastrofe finale. E nulla più di questo episodio dimostra la verità dell’espressione latina Quos vult Iupiter perdere, dementat prius [«A quelli che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione»].

Ora, suvvia, andiamo a vivere i momenti fatali della prova dell’arco, quando viene concesso al vecchio mendicante di cimentarsi in un’impresa che ha il sapore dell’impossibile.

Il finto mendicante prende in mano l’arco; e con grande esperienza lo scruta e lo tende senza sforzo; la corda vibra come la voce di una rondine, mentre Zeus fa sentire un tuono e i Proci impallidiscono:

 

«Con la destra prese la corda e la saggiò; e quella sotto il tocco

cantò un canto bello, con una voce simile a una rondine.

Grande pena provarono i pretendenti, e a tutti il colore del volto

si mutò. Zeus fortemente tuonò nuovo segno mostrando.

Gioì allora il molto paziente divino Ulisse: era un prodigio

quello che il figlio dell’astuto Crono gli aveva inviato»[9].

 

Stando seduto sul suo scanno, il mendicante scaglia la freccia, che, tra lo stupore dei Proci, infila tutti gli anelli delle dodici scuri. La prova è prodigiosamente superata!

A un cenno, Telemaco si arma di spada e di lancia e si dispone a fianco del padre.

Siamo, dunque, al redde rationem! Sta per finire, per Odisseo, la lunga e penosa fase della dissimulazione, del nascondimento, della sopportazione. Ora è giunto il momento di far cadere la maschera del vecchio mendicante; ora bisogna che l’apparenza ceda il posto alla verità.

Stiamo assistendo, quindi, alla prodigiosa rivelazione, alla manifestazione, all’apocalisse [apokálupsis, ἀποκάλυψις]. Dagli stracci del misero e vecchio mendicante sorge possente e maestoso l’eroe omerico, il divino Odisseo [θεῖος Ὀδυσσεύς]. E sarà l’«apocalisse» sia come manifestazione di Odisseo (e rivelazione della verità), sia come fase finale in cui saranno sterminati tutti i nemici del Bene e del Giusto.

 

«Si tolse di dosso i suoi stracci il molto astuto Ulisse,

e con un balzo fu sulla grande soglia con in mano l’arco

e la faretra piena di frecce. Rovesciò i dardi veloci

lì, davanti ai suoi piedi, e ai pretendenti disse:

“Ecco: la terribile gara è compiuta. Ma ora

un altro obiettivo, che nessuno ha ancora mai raggiunto,

cercherò, se mai io lo colga e Apollo mi dia il vanto”»[10].

 

Ora, dopo la vittoria della gara con l’arco, per Odisseo si prospetta la prova finale, la più ardua e la più importante: cioè quella di “giustiziare” (sia come amministrazione della giustizia, sia come esecuzione della pena capitale) non solo i Proci, ma anche tutti gli altri che si erano macchiati di infedeltà e di insolenza.

E il primo a cadere “giustiziato” è Antinoo, sempre primo fra i prepotenti Proci, sempre primo per arroganza, sempre primo nell’oltraggiare la casa di Odisseo.

 

«Disse [Odisseo], e su Antinoo l’amaro dardo diresse.

Quello era sul punto di alzare una bella coppa,

d’oro, a due manici, e tra le mani la rigirava,

per bere il vino: nel suo animo non si dava pensiero

di morte. […]

Ulisse a lui, alla sua gola, mirò e lo colpì con la freccia:

la punta attraversò il suo collo tenero.

Si piegò da un fianco, colpito, e la coppa gli cadde

dalla mano; presto alle narici gli venne un denso cannello

di sangue umano e subito colpì con un piede il tavolo

e lo spinse via e fece cadere i cibi per terra:

il pane e le carni arrostite si imbrattarono»[11].

 

Sbigottiti e increduli, gli altri Proci pensano stoltamente che lo straniero abbia ucciso Antinoo per sbaglio. Non hanno ancora capito – i malnati – che per loro è giunto il giorno del giudizio, che «il laccio di morte era stato annodato» attorno al loro collo!

Ma ecco l’acerba invettiva di Odisseo piovere addosso a quel branco di profittatori e parassiti:

 

«Cani, voi credevate che io non sarei giunto a casa

di ritorno dalla terra di Troia. Perciò consumavate i miei beni,

e con le ancelle, costringendole, giacevate,

e, me ancora vivo, aspiravate a sposare mia moglie,

senza temere gli dèi che abitano il vasto cielo,

né, in futuro, la condanna degli uomini.

Ma ora su di voi, su tutti, il laccio di morte è stato annodato»[12].

 

Come una molla compressa al massimo – sia nel protagonista dell’Odissea sia nel lettore – ora l’attesa di giustizia scatta finalmente e si tramuta in punizione per tutti i colpevoli. E sarà una mattanza. Moriranno tutti i Proci; saranno impiccate le dodici ancelle infedeli; sarà orribilmente mutilato e ucciso l’insolente e malvagio capraio Melanzio:

 

«Essi poi portarono fuori Melanzio attraverso l’atrio e il cortile;

gli mozzarono naso e orecchie col bronzo spietato,

e gli strapparono i genitali, da dare crudi in pasto ai cani;

e mani e piedi recisero con rabbia nell’animo»[13].

 

Poi per un attimo regna il silenzio in quella casa piena di cadaveri e di sangue. Con il lavacro del sangue tutte le vittime hanno espiato le loro colpe. Ed il massacro assume il carattere sacrificale dell’ecatombe. Ma non può bastare. Odisseo, pur essendo nel giusto, ha tuttavia versato sangue nella sua casa; ha profanato col sangue quel sacro tempio che è la casa. Bisogna, dunque, purificare la casa con lo zolfo e il fuoco.

Perciò l’Itacense dice alla vecchia e fedelissima nutrice Euriclea: «Vecchia, portami lo zolfo, rimedio di brutture, portami il fuoco: con lo zolfo voglio purificare la casa»[14].

Ecco il fuoco e lo zolfo usati dal pagano Odisseo ci ricordano che, nell’Apocalisse di Giovanni, Satana e tutte le altre forze del Male furono gettati nello stagno di fuoco e zolfo:

 

«E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli»[15].

 

 

 

 

 

 


 

[1] Odissea, canto XIII, 102-104.

[2] Odissea, canto VII, 84-94.

[3] Odissea, canto VII, 222-225.

[4] Odissea, canto VIII, 557-563.

[5] Odissea, canto XIII, 352-354.

[6] Odissea, canto XIII, 302-310.

[7] Odissea, canto XX, 17-21.

[8] Odissea, canto XX, 345-349.

[9] Odissea, canto XXI, 410-415.

[10] Odissea, canto XXII, 1-7.

[11] Odissea, canto XXII, 8-21.

[12] Odissea, canto XXII, 35-41.

[13] Odissea, canto XXII, 474-477.

[14] Odissea, canto XXII, 481-482.

[15] Apocalisse, 20, 10.

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