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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

LIBERTÀ E LIBERAZIONE

2023-10-26 09:31

Prof. Giuseppe Pezzino

Pezzino, Antifascismo, Politica, Partigiani, Attualità,

LIBERTÀ E LIBERAZIONE

Un giorno il mio vecchio amico Iacopo – tra il provocatorio, l’ingenuo e il malizioso – mi scrisse: «Ciao Prof. ti va di celebrare il 25 aprile? [...]»

Un giorno il mio vecchio amico Iacopo – tra il provocatorio, l’ingenuo e il malizioso – mi scrisse: «Ciao Prof. ti va di celebrare il 25 aprile? L'anniversario della liberazione? Mi farebbe piacere leggere poche ma significative parole, se vuoi. Buon 25 aprile!». Ma come mai – chiesi a me stesso – il mio amico, che ingenuo non è, e neppure distratto, mi fa una simile richiesta, quando conosce bene le mie idee bislacche che diffondo quasi ogni giorno tra i miei quattro amici (lui compreso) che ancora mi sopportano? Ad ogni modo, decisi di accettare il suo invito-sfida e gli scrissi questa riflessioncella a mo’ di risposta:

Caro Iacopo, come sanno bene coloro che mi conoscono da più di mezzo secolo, io ho militato per anni nel PCI. Da giovane ho partecipato ai cortei con sincerità, con passione, con striscioni e relativi slogan; e da adulto ho tenuto conferenze e comizi, parlando di Resistenza e antifascismo. Tra l’altro, ci tengo a precisare che so bene, e non lo dimentico, cosa significò la dittatura e la guerra sia per l’Italia sia per la mia famiglia. So bene e non dimentico, ad esempio, con quanta gioia, speranza e ansietà, mio padre, un giovanissimo reduce dal fronte russo, partì nel 1943 dalla Piana di Catania verso Augusta per verificare se il miracolo dello sbarco anglo-americano fosse vero. Quindi non ho bisogno di lezioni, di ammonimenti e di esortazioni.

Tutto ciò premesso, mi sia concesso un peccatuccio di orgoglio: io, a differenza di non pochi odierni intellettuali e semi-intellettuali, non ho frequentato le scuole serali dell’antifascismo; io, in fatto di libertà e di antifascismo, ho avuto la fortuna di frequentare l’alta scuola di un maestro come Benedetto Croce, che aveva inculcato in me il dovere morale e politico di combattere qualunque forma di dogmatismo e qualunque forma di totalitarismo, sia quello nazista sia quello comunista.

Avevo studiato proprio Croce, il quale mi aveva insegnato che qualsiasi battaglia politica si deve sempre affrontare con il viatico di un vivo senso di realismo, di una solida preparazione storica e di una limpida coscienza morale, per non cadere appunto o nell’ipocrisia farisaico-gesuitica o nello spregevole opportunismo o in quella pelosa e maliziosa faziosità, che ancor oggi viene spacciata per nobile impegno etico-politico nelle aule, nei giornali e in tv.

Ora mi accorgo che questa nostra «Repubblica nata dalla Resistenza» sta invecchiando peggio di me, anzi si sta mummificando, giacendo beatamente in un sarcofago fatto di slogan, di retorica, di belle parole e di brutte azioni. Ebbene, ormai sono stanco, stufo, nauseato di questo uso e abuso della retorica antifascista a senso unico, di questo monopolio rosso della Resistenza, di questa grifagna Santa Inquisizione Antifascista Rossa che, minacciando ad ogni piè sospinto di riaprire Piazzale Loreto con nuovi cadaveri appesi a testa in giù, impone agli infedeli o agli eretici un solenne e pubblico atto di abiura, da recitare ogni giorno all’infinito.

Sono stanco e nauseato di questa caccia alle streghe che non finisce mai: «Che abominio, costui ha detto quella parola! Che scandalo, costei non ha detto quest’altra parola! Deve chiedere scusa! Sì, ha chiesto scusa, ma non basta! Costui si deve dissociare! No, non basta; si deve dimettere! Quella ha sì condannato il fascismo, ma non ha condannato Bismarck! Ha condannato Bismarck? Però stiamo ancora aspettando che condanni Annibale e la seconda guerra punica!».

Sono stufo. Sono arcistufo di questa jeunesse dorée di matrice sessantottina, di questi figli di papà, di questi rampolli della grassa e alta borghesia, di questi fighettini sinistresi a cui è permessa ogni prepotenza, sol perché la loro prepotenza ha alle spalle la potenza dei papà.

Francamente, caro Iacopo, mi dà conati di vomito lo spettacolo di tanti “liberi pensatori” del giornalismo che, prima di ragionare e dialogare, ti chiedono in tv o alla radio il certificato medico antifascista rilasciato dall’ANPI; e poi, non contenti, ti fanno il tampone resistenziale; e poi, minacciosi, ti infilano nell’anima un termometro antifascista per misurare la tua temperatura politica.

Ora ti chiedo: e se ficcassimo il termometro dell’anticomunismo ad alcuni dirigenti del PD, dell’ANPI e così via col vento? Non oso immaginarlo. Non se ne parla nemmeno: saremmo deferiti al Tribunale Speciale della Libertà, con l’accusa di alto tradimento e blasfemia!

La verità, caro Iacopo, è che l’antifascismo ormai in voga ha fatto la fine (si parva licet componere magnis) della Riforma protestante, il cui spirito fu tradito proprio dai riformatori. Il grande Calvino, infatti, ne è un esempio. Chi fu più perentorio, più imperioso, più deciso di Calvino? Chi si ritenne più divinamente infallibile di Calvino, per il quale la minima opposizione, la minima obiezione era sempre un’opera di Satana, un delitto degno del fuoco? E purtroppo non è al solo Miguel Serveto che è costato la vita il pensare in maniera diversa da lui.

Combattendo il dogmatismo cattolico, Calvino finì con l’essere più dogmatico e intollerante del romano pontefice, sino a condannare a morte quelli che, alla minima opposizione, egli considerava eretici e degni di morte. A tal proposito, un sapore disgustoso e un moto di repulsione va provando chi legge la sentenza di condanna a morte inflitta (26 ottobre 1553) dalla calvinistissima città di Ginevra a un martire della libertà di pensiero: «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, con questa solenne e definitiva sentenza, che noi diamo qui per iscritto, Tu, Michel Servet, noi condanniamo a essere legato e condotto nel luogo di Champel e là essere attaccato a un palo e a bruciare vivo con il tuo libro, scritto di tua mano e stampato, fino a che il tuo corpo non sia ridotto in cenere e finire così i tuoi giorni per dare esempio agli altri che volessero commettere tali fatti e a voi, nostro luogotenente, comandiamo che la nostra presente sentenza sia eseguita».

Calvino avrebbe voluto eliminare sbrigativamente Serveto con la decapitazione (bontà sua!), ma i sindaci di Ginevra vollero essere più calvinisti di Calvino e decisero per il rogo. All’indomani, il 27 ottobre 1553, il povero Serveto fu condotto sul luogo dell'esecuzione. Dopo essere stato incatenato al palo, il suo libro gli fu legato a una gamba e sulla testa gli venne posta una corona di foglie bagnate nello zolfo. Alla prima vampata del fuoco, non riuscì a trattenere un urlo di orrore e gridò: «Gesù, figlio del Dio eterno, abbi pietà di me!».

Ma ora, dalle cose grandi torniamo alla picciola nostra conversazione. Perciò ti chiedo: e se, accanto al 25 aprile, si stabilisse per legge di celebrare il 18 aprile 1948 come Festa della Liberazione dal Comunismo? Quel giorno il popolo italiano, andando a votare liberamente e democraticamente – con in mano una scheda e non un fucile – diede la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento alla Democrazia Cristiana di De Gasperi, respingendo definitivamente ogni cupa avventura socialcomunista, filosovietica e filostalinista. Quel giorno il popolo italiano decise liberamente e democraticamente di stare dalla parte dell’Occidente libero, contro la dittatura comunista e stalinista del blocco sovietico. Senza alcun dubbio quel 18 aprile 1948 fu anch’esso giorno di Liberazione nazionale. E tuttavia non osiamo proporlo, perché i cantori del coro del 25 aprile si strapperebbero le vesti e ci direbbero a muso duro che sarebbe una festa divisiva, una festa che spaccherebbe l’Italia in due.

Perciò, in occasione del 25 aprile io evito da tempo la piazza e le piazzate – mi riferisco soprattutto a quelle televisive e della stampa, giacché i cortei ormai si stanno afflosciando come già le processioni del bel tempo in cui, a passi tardi e lenti, si procedeva pregando, salmodiando e recitando le litanie. E quindi sto in disparte perché questa «festa nazionale» è stata ridotta ormai 1) a una festa delle sole bandiere rosse; 2) a una festa dei «nipotini» di determinati partigiani comunisti che lottarono bensì contro la dittatura fascista, ma per imporre e instaurare in Italia una dittatura rossa al servizio di Stalin; 3) a una festa dei Torquemada dell’Inquisizione antifascista rossa, che cacciano dai cortei i non graditi o i non ortodossi (vedi, ad esempio, le contestazioni del 25 aprile contro la Brigata partigiana ebraica!).

Evito la piazza e le piazzate, perché questa festa è solo una stanca celebrazione, per gente in buona o in mala fede, che ripete slogan stagionati, senza avere il coraggio o la dignità storica di ammettere che nella Resistenza, accanto alle pagine gloriose e limpide, ci furono anche pagine infami e torbide. Si pensi a tutto quello che Gianpaolo Pansa denunciò nei suoi libri, facendosi condannare all’isolamento e attirando su di sé le contestazioni dei gruppi di sinistra e le critiche degli intellettuali dominanti nelle università e nei media.

Poi, tra retorica, intolleranza e prepotenza, anche quest’anno uno squadrone di antifascisti al parlamento proporrà una legge che stabilisce l’obbligo di suonare e/o cantare “Bella ciao” in ogni manifestazione del 25 aprile. L’obbligo? Per legge? Una bischerata che mi ricorda il triste rito di quei cristiani che battezzavano i turchi con la forza!

Peggio ancora, mi ricorda alcune genialate autoritarie di quel povero fantoccio di Achille Starace che, durante il fascismo, imponeva a colpi di circolari il saluto romano, il “voi” al posto del “lei”, o l’obbligo di concludere qualsiasi documento pubblico o privato con la scritta «Viva il Duce!». Cosa, quest’ultima, che fece imbestialire lo stesso Mussolini, il quale bloccò lo zelante ma sciocco Starace, temendo possibili fragorose pagliacciate come quella di necrologi e lettere di condoglianze, che si sarebbero conclusi con «Viva il Duce!». Orbene, ho forti timori che l’ombra del ridicolo Starace si stia proiettando sulla muraglia di sinistra!

Pensa tra l’altro alla faziosità stupida, volgare e odiosa che per decenni ha giudicato e giudica determinati atti in base alla loro collocazione e colorazione politica. Tale faziosità ha intossicato gli intellettuali e i politici, anche quando si è trattato di maneggiare la vita privata degli individui, di frugare nella sfera intima delle persone. Vuoi un esempio di volgare faziosità e di doppiopesismo? Eccotelo: ci fu una relazione fra Mussolini e Claretta Petacci; quella liaison sentimentale, che dovrebbe destare almeno sentimenti di umana pietà, sino ad oggi scatena in ogni “lanzichenecco ubriaco” una tempesta di farisaico moralismo, di disprezzo e di contumelie senza misericordia. La Petacci? Era l’amante di Mussolini; era una donnaccia che si mise con un uomo sposato. Ben le sta la fine che le abbiamo riservato a Piazzale Loreto, appesa a testa in giù.

Questo accade nel campo dei vinti, in partibus infidelium. Ora andiamo nel campo dei vincitori: il compagno Togliatti era sposato con Rita Montagnana (matrimonio celebrato il 27 aprile 1924), con la quale ebbe un figlio di nome Aldo. Nel 1948, Togliatti lasciò la moglie per convivere more uxorio con la giovane deputata comunista Nilde Iotti sino alla morte. Ebbene, nessuno dubita delle notevoli qualità politiche della Iotti, ma quello che balza evidente è che nessuno dei lanzichenecchi ebbe a sputare addosso a questa donna l’appellativo ingiurioso di “amante” o di “rubamariti”. Nilde Iotti calcò dignitosamente le scene parlamentari, poi sedette sugli scranni più alti della Repubblica, ma nessuno osò mai offenderla come l’amante di Togliatti! Ad ogni modo, per la storia dei vincitori, Togliatti e la Iotti offrirono sempre un fulgido esempio di comunione di vita, di dee e di ideali.

Vado alla conclusione, caro Iacopo. Grazie alla guerra partigiana, il 25 aprile ci siamo liberati dalla dittatura nazifascista. Vero, verissimo! Però diciamola tutta: i partigiani non furono solo quelli comunisti. Infatti, accanto o di contro alle “Brigate Garibaldi” del Partito comunista, c’erano le “Brigate Matteotti” del Partito socialista, le “Brigate Giustizia e Libertà” del Partito d’azione, le “Brigate Fiamme Verdi”, le “Brigate Osoppo” e le “Brigate del Popolo” della Democrazia cristiana, le formazioni dei “Partigiani Azzurri” (monarchici e badogliani), le formazioni partigiane di Edgardo Sogno del Partito liberale, e le “Brigate Bruzzi Malatesta” degli anarchici.

Insomma, non tutti i partigiani furono comunisti! Questa è la verità; la verità che è stata deformata e ritagliata a esclusivo beneficio della sinistra. Ma aggiungo che questa verità, sia pur gloriosa ed eroica, è ancora una mezza verità. È una mezza verità, perché la verità storica e l’onestà morale non possono negare che «ci siamo liberati», anche perché «ci hanno liberati».

Ci hanno liberati i più potenti eserciti del mondo di allora: cioè le truppe anglo-americane, che pagarono la campagna d’Italia con un altissimo contributo di giovani soldati morti, che ancora riposano nei cimiteri d’Italia. Soldati anglo-americani, che in ogni luogo accogliemmo – con sollievo, con gioia e con speranza – come liberatori della nostra Italia martoriata.

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