Oggi, 25 luglio 2020, ore 16, 30, mentre mi vado collassando nella mia stanza senza condizionatore né ventilatore, penso a Mussolini nel fatidico 25 luglio 1943. E lo immagino stanco, non solo per il maledetto caldo italiano, non solo per il caldo dei bombardamenti alleati, ma soprattutto stanco di fare il Duce.
Ha trascorso un’infinità di notti insonni Mussolini, fra l’incubo della sconfitta e il terrore della demoniaca figura del “fraterno” camerata tedesco sempre più nervoso, sempre più sospettoso, sempre più disgustato degli italiani.
La sua peggiore notte – tu mi chiedi – fu forse quella della riunione del Gran Consiglio del Fascismo, tra il 24 e il 25 luglio 1943? Macché! Quella fu invece la notte della speranza! Della speranza che qualcuno lo mettesse finalmente in pensione, che gli potesse offrire finalmente la possibilità di sparire. Della speranza che gli prestassero un mare d’ombra e d’oblìo, dove inabissarsi per un certo tempo, per poi riemergere e presentarsi con l’aureola del “messia tradito” da tanti Giuda.
Era stanco ed invecchiato Mussolini! Sembravano trascorsi cento anni, e non già tre, da quella trionfale e teatrale dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940. Vincere e vinceremo! Sembrava tutto facile. Bastava, allora, andare in soccorso del vincitore tedesco, che in quei mesi stava travolgendo l’Europa con le sue invincibili divisioni corazzate.
E invece poi ti arrivano addosso gli Stati Uniti d’America – che Iddio li strafulmini! – con il loro megagalattico potenziale economico, politico, militare e, soprattutto, ideale. Questi dicono di non fare una guerra di conquista, come si è fatta sempre tra le persone serie europee, questi dicono di combattere una guerra di liberazione. Una guerra all’americana! Addirittura una guerra di liberazione dalla dittatura, dalla fame, dall’arretratezza.
E Mussolini per mesi e mesi si mangia le mani, esclamando: «Avessi letto l’elenco telefonico di New York, prima di entrare in guerra! Avessi avuto tra le mani quel volumone di abbonamenti telefonici di New York, mentre gli italiani comunicavano ancora con i segnali di fumo o col tam tam! Di certo non mi sarei affacciato al balcone di Palazzo Venezia quel maledetto 10 giugno».
Un giorno, un grande sconfitto scrisse alla madre: «Madame, de toutes choses ne m’est demeuré que l’honneur et la vie qui est sauve». Era il re di Francia, Francesco I Valois, il quale, dopo la disfatta di Pavia, ammetteva che tutto era perduto, e non gli era rimasto che l’onore e la vita.
Ora, nell’Italia del 1943, Mussolini potrebbe affermare che tutto è perduto fuorché la vita, e non certo l’onore che, malgrado il sacrificio di tantissimi giovani italiani sui fronti di guerra, è proprio sotto i piedi.
Ma, per il destino personale di Mussolini, un barlume di speranza si accende. Da settimane, ora parallelamente ora in convergenza, l’intelligente gerarca fascista Dino Grandi (per capirci sul soggetto, Dino Grandi era stato ministro degli esteri, ministro di grazia e giustizia, e ambasciatore a Londra) e l’astuto re Vittorio Emanuele III tramano, non troppo nascostamente, per far cadere il Duce e andare così a trattare l’armistizio con gli Alleati vincitori.
Di queste congiure Mussolini era all’oscuro? Impossibile. Decisamente impossibile, per un dittatore che per vent’anni aveva piazzato alle calcagna di ogni italiano un poliziotto, un confidente, una spia. Verosimilmente, invece, il Duce sapeva, seguiva ansiosamente, e pregava che Dino Grandi e il re gli togliessero le castagne calde dal fuoco, lo mandassero in pensione e gli dessero l’aureola del “tradito”.
A prova di ciò, parecchi particolari assai strani: alle ore 17 del 24 luglio 1940, a Palazzo Venezia a Roma, si riuniscono i 28 membri del Gran Consiglio del Fascismo e (senti senti) per la prima volta nella storia del Gran Consiglio non viene schierata la guardia armata di Mussolini (i Moschettieri del Duce); e il Palazzo Venezia stranamente non viene presidiato dal solito distaccamento dei battaglioni “M” (emme come Mussolini).
Secondo particolare strano: il Duce si oppone alla presenza di uno stenografo per la stesura del verbale, per cui non viene redatto un documento ufficiale con tanto di firma del Segretario e del Capo del Gran Consiglio.
Nella prima fase del Gran Consiglio, c’è addirittura un vero e proprio gioco delle parti fra i due veri protagonisti della scena: Dino Grandi che abilmente cerca di colpire solo di striscio il Duce; e Mussolini che apre i lavori con un discorso aperto a due possibilità (Guerra o pace? Resa a discrezione o resistenza a oltranza?), per poi concludere con un rassicurante messaggio ai tedeschi, pacta sunt servanda, i patti si debbono rispettare.
In soldoni: io proclamo la fedeltà ai patti con Hitler, che hanno orecchie anche in questa sala, ma voi considerate le due alternative di continuare la guerra o di cercare la pace (e qui avrebbe potuto fare sempre ricorso a Hobbes, dicendo: pax est quærenda, ossia bisogna cercare la pace!).
Poco prudente, Galeazzo Ciano dà libero sfogo ai suoi ben noti sentimenti antitedeschi, dicendo che gli italiani hanno mantenuto i patti, mentre i tedeschi li hanno sempre traditi.
Dino Grandi illustra con grande abilità diplomatica il suo ordine del giorno, in cui si chiede al Duce di restituire al re il comando delle forze armate. E Mussolini deve fare la parte di respingere la proposta di lasciare il comando militare. Però … il Duce permette che il “suo” segretario del “suo” Partito Fascista, Carlo Sforza, legga due lettere che questi (il segretario del Partito Nazionale Fascista! un suo uomo, un suo fedele vassallo!) aveva indirizzato al Duce, chiedendogli di lasciare la direzione dei ministeri militari.
Si aggiunga che nella notte tra il 24 e il 25 luglio sono stati presentati per la votazione ben tre ordini del giorno: quello di Dino Grandi; quello del fascistissimo Roberto Farinacci; e quello di Carlo Scorza, segretario del P. N. F.
E mentre Grandi si dà ovviamente da fare nella stessa notte per raccogliere consensi, Mussolini tiene un atteggiamento distaccato. Anzi, inspiegabilmente (ma non troppo) mette a votazione per primo l’ordine del giorno di Dino Grandi. Questo è il segnale “decisivo” per gli “indecisi”, che si spostano a favore di Grandi. Così passa a maggioranza l’ordine del giorno Grandi, con 19 voti a favore; 7 contrari; un astenuto; e il fascistissimo Roberto Farinacci che non vota, perché aveva lasciato l’aula.
A leggere i nomi di quelli che votarono per Grandi, si può tranquillamente dire che quasi tutti i cervelli più illuminati e più vivaci si schierarono per la pace, e quindi contro il Duce.
La cosa strana ma significativa è che, in vent’anni di dittatura, quella riunione fu l’unico esempio di procedura scrupolosamente democratica!
Mussolini che mette ai voti l’ordine del giorno; la maggioranza che gli vota contro (per tutte le evenienze, Grandi e qualche altro arrivarono armati alla riunione!); Mussolini che accetta il verdetto senza fiatare (e avrebbe potuto farli arrestare e sparire in qualsiasi momento); e all’indomani va dal Capo dello Stato, re Vittorio Emanuele III, a comunicargli rispettosamente l’esito della votazione e a rassegnare le sue dimissioni da Capo di un governo che era durato vent’anni (dal 1922 al 1943!).
Una vera e propria lezione di democrazia! Mah!
Però, non molto democratico si rivelò il piccolo ma solido re savoiardo, che immediatamente fece arrestare, dai suoi fedelissimi carabinieri, il “cav. Mussolini”, e diede l’incarico di formare un nuovo governo al suo fedelissimo Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.
Per rassicurare i tedeschi, si proclamò ai quattro venti: la guerra continua. Ma erano già pronte le penne per firmare l’armistizio con gli anglo-americani.
E il “cav. Mussolini”? Lasciatosi arrestare e collocare in un’autoambulanza, fu condotto in un primo tempo in una caserma dei carabinieri nel più stretto segreto. Addirittura egli avrebbe voluto, sperato, che lo ponessero agli arresti domiciliari, ma fu poi chiuso nel carcere dell’isola di Ponza.
Ad ogni modo, le cose stavano andando per il verso giusto: lui – ridotto ormai alla controfigura di quel pettoruto Duce del ventennio – usciva finalmente di scena, poteva tirare un profondo sospiro di sollievo, giustificato agli occhi della storia, e soprattutto agli occhi di Hitler, dal fatto di essere stato vittima di una congiura imbastita dai “traditori” Dino Grandi, il re e il Maresciallo Badoglio.
Purtroppo, quel demonio di Hitler sconvolse tutti i piani, facendolo liberare da quei diavoli dei suoi paracadutisti, mentre era detenuto a Campo Imperatore, sul Gran Sasso.
Possiamo immaginare la delusione, lo sconforto, la rabbia di Mussolini, nel vedersi “liberato” e trasferito in Germania, per essere abbracciato dal vecchio camerata Hitler, il quale si servirà di lui, come un fantoccio, per instaurare nell’Italia del nord la Repubblica Sociale Italiana.
In quel tremendo 1943, Mussolini ha sessant’anni, ma ha l’aspetto di un vecchio ottantenne, stanco e sofferente, che a malapena si trascina nel finale della tragedia e malamente recita la parte del Duce. Ormai è veramente “prigioniero”! e la storia si è fatta beffa dei suoi ultimi progetti, delle sue disperate speranze. Ormai, l’odore del sangue si fa sempre più insopportabile e sempre più vicino.
E invece Hitler ha ancora la folle certezza della vittoria. Pensando alla preparazione in fase avanzata della bomba atomica tedesca, egli va dicendo fanaticamente: «A mezzanotte perdo la guerra. Ma a mezzanotte e mezza, Dio mi perdoni, vincerò la guerra!».
Fortunatamente per tutti, Hitler perse la guerra.
Ma, per giocare con la storia, ti invito a immaginare una vittoria finale e definitiva della Germania nazista all’ultimissimo minuto, grazie alla bomba atomica.
C’è da ridere!
Immagina il gran da fare di quegli antifascisti dell’ultima ora, che a valanga sono scesi per le strade ad abbattere le statue del tiranno, tornare di corsa a casa e tapparsi dentro per ascoltare alla radio un interminabile discorso del Führer und Reichskanzler ormai definitivamente padrone del mondo.
Immagina quelli che hanno nascosto la camicia nera per indossare quella rossa, e poi, a seguito della vittoria tedesca, tornare precipitosamente a indossare la camicia nera e il fez.
Immagina quel poverino che aveva letto le opere del Duce, e poi ha comprato quelle di Stalin pubblicate dall’editore Einaudi, tornare precipitosamente indietro a rispolverare il Mein Kampf di Adolf Hitler.
Immagina quei preti, che avevano pregato per il Re e per il Duce, che poi si sono dati in un caloroso abbraccio agli americani, alzare la sottana per meglio correre verso l’aspersorio per benedire nuovamente il fascio e la svastica.
Immagina quelli che avevano partecipato ai Littoriali fascisti, o che avevano scritto sulla rivista “La difesa della razza”, e poi si sono miracolosamente trovati a militare nei partiti antifascisti, catapultarsi a casa per scrivere un pezzo nuovamente contro gli ebrei o contro la demoplutocrazia.
Che spettacolo buffo! Irreale, ma buffo!
Che caldo insopportabile in questo mese di luglio!