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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

VECCHIO, DIRANNO CHE SEI VECCHIO

2023-06-16 11:34

Prof. Giuseppe Pezzino

VECCHIO, DIRANNO CHE SEI VECCHIO

Ieri eravamo quattro amici al bar, e mi han detto che un noto comico prestato alla politica aveva partorito non già una barzelletta, bensì una bella p

Ieri eravamo quattro amici al bar, e mi han detto che un noto comico prestato alla politica aveva partorito non già una barzelletta, bensì una bella proposta per la repubblica italiana: togliere, cioè, il diritto di voto agli elettori anziani. Sarà vero? Mi han risposto di sì. Superata la sorpresa, ho posto due semplici domande: 1. A quale età i cittadini italiani saranno eventualmente dichiarati «anziani», e quindi colpiti da impotentia eligendi, ossia espropriati dei diritti politici? 2. Quanti anni ha questo comico profeta della nuova Italia, il quale ha scelto di nascere a Genova per imitare Giuseppe Mazzini, profeta del Risorgimento? Solo la mia seconda domanda ha trovato risposta. In parole povere il gran burlone, essendo nato nel 1948, oggi pedala sui settantadue anni. E quindi mi segue a ruota nella volata verso il traguardo della demenza senile.Ad ogni modo, ho ottenuto un’assicurazione e una rassicurazione: da un canto, mi hanno assicurato che siffatta proposta non è da collocare fra la spazzatura delle fake news (insomma non è una bufala) e, dall’altro, mi hanno rassicurato sulla dignità filosofica di questa ideona. Pare, infatti, che - facendo il verso ai profeti dell’Antico Testamento, che costellavano le loro predizioni con un martellante «oracolo del Signore» - il nostro comico ami lardellare codeste sue visioni profetiche con tocchetti di «oracolo del filosofo Philippe Van Parijs».Carneade, chi era costui? Non facciamoci conoscere, per l’amor di Dio! E, soprattutto, non facciamo i filistei! Per vostra norma e regola, il belga Philippe Van Parijs è il principale sostenitore della proposta del reddito di base, che poi in Italia è stata tradotta nella recente politica del reddito di cittadinanza. E se vi pare poco, e magari sghignazzate, aggiungo pure che l’«oracolo di Philippe Van Parijs» ha ispirato questa grandiosa trovata di togliere agli anziani il diritto di voto, per realizzare così «una democrazia più efficace quale garanzia di giustizia sociale». Capito?A quel punto, nel furore della concatenazione logica, il mio vecchio amico alpino, tra un fiasco di vino e una canzone montanara, ebbe a dire la sua: «Amici, dobbiamo ammetterlo. Questi pensatori europei, imbottiti di rigorismo protestante, impartiscono sempre lezioni di coerenza a noi italiani che siamo stati deformati dall’accomodantismo cattolico. Io non so se gli svedesi abbiano concesso il premio Nobel o il premio Ikea a questo tizio belga (e lo meriterebbe!); ma so di certo che il tizio troverà più di un discepolo che, per conseguente deduzione logica, teorizzerà l’eliminazione fisica degli anziani».Io, astemio e sobrio, cominciai ad arrossire e a tossire nel vano tentativo di metterlo a tacere. Ma il vecchio alpino, con voce chioccia, proseguì imperterrito: «Non vi scandalizzate. In fondo, che se ne fanno dei vecchi? Dopo averli sfruttati in gioventù, è giusto che vengano eliminati fisicamente come limoni spremuti da gettare nella spazzatura. Niente scrupoli ipocriti, niente tentennamenti all’italiana, niente finte conciliazioni tra giovani e vecchi. Giù la maschera dell’ipocrisia, e trionfi la sincerità! Dopo aver concesso il reddito di cittadinanza a tutti, e dopo aver negato il diritto di voto agli anziani, è più serio e sbrigativo passare alla "soluzione finale": cioè, all’eliminazione fisica degli anziani. In tal modo, i giovani potranno gioire della decrescita felice; e noi vecchi godere dello sterminio felice».Non diciamo eresie, dissi io. Non è politicamente corretto parlare di sterminio. Non diciamo follie, mio caro. «Ma non è follia - rispose l’amico alpino - è rigore razionale: due più due fanno quattro, anzi due fiaschi più due fiaschi fanno quattro fiaschi di vino! O, se proprio ci tenete a parlare di follia, questa è la lucida coerenza del pazzo. Infatti, per non mantenere una massa di vecchi parassiti che divorano montagne di pensioni e di medicinali, è più razionale e serio eliminarli fisicamente, anziché ricorrere alla mezza misura di castrarli politicamente, togliendo loro il diritto di voto. E vi assicuro che questa "soluzione finale" sarà gradita ai tanti schieramenti politici che hanno perduto il favore elettorale degli anziani. Ma, - mi obietterete - così facendo, in Italia resterebbero solo i giovani. Meglio! così nella penisola si diventerà elettori in età puberale. D’altronde, un giorno gridammo "la fantasia al potere". Ebbene, adesso grideremo "la tempesta ormonale al potere". Ma vorreste forse dirmi che, con la denatalità galoppante, saranno pochi i giovani italiani? Meglio ancora! spalancheremo le porte a chiunque dall’estero voglia recare sangue nuovo in un corpo anemico; e li battezzeremo elettori sul campo. Come vedete, non sono io il vero ubriaco. Io ragiono benissimo. In vino veritas».Cominciai a guardarmi attorno con timore e con sospetto; mi assicurai che nessuno degli astanti avesse sentito quegli sproloqui; mi accostai cautamente al vecchio alpino; e poi gli dissi sottovoce: «Vuoi tacere? Ci vuoi rovinare? Con i tuoi vaneggiamenti da avvinazzato, tu ci porti davanti al Tribunale speciale del politicamente corretto. La devi smettere! Con le tue farneticazioni su questi stramaledetti campi di sterminio per anziani, tu ci spedisci difilato al rogo della Santa Inquisizione». «State tranquilli - rispose l’alpino, ammiccando con gli occhi - perché la parola "sterminio" è condannata, e molto giustamente, quando si accompagna ai lager nazisti. Ma se quel filosofo belga dovesse accoppiare la proposta dello sterminio degli anziani con la formula magica "per una democrazia più efficace quale garanzia di giustizia sociale", allora state sicuri che otterrebbe il nulla osta della Santa Inquisizione, con contorno di benedizioni, applausi e Bella ciao».A quel punto avrei voluto esclamare est modus in rebus, per far capire che la misura era colma e si stava esagerando. Ma, sapendo che il vecchio alpino non conosce il latino e mastica solo l’italiano, abbandonai l’imprudente amico, facendo ricorso alla spudorata e abusata bugia dell’«ohibò! mi sto ricordando di avere un appuntamento. Scusate, ma vi debbo lasciare». E fu così che, seguìto dagli altri amici, mi alzai mollando l’alpino, che restò da solo al bar come un cane abbandonato sul ciglio della strada.In verità, ci liberammo bensì dell’ingombrante macigno dello "sterminio", ma ci rimase nel gozzo il problema della vecchiaia. Nessuno aveva voglia di parlare, forse perché ciascuno di noi aveva bisogno di parlare con se stesso. Sicché, cammin facendo, i miei compagni di viaggio mi lasciarono solo: infatti, nella loro operosa inoperosità di vecchi al servizio dei giovani, uno andò a prendere la nipotina all’uscita della scuola, un altro s’incamminò verso l’ufficio postale per una raccomandata di suo genero, e l’ultimo andò in farmacia alla ricerca di medicine per il figlio.Restai solo, e chiesi asilo politico a un sedile della mia piazza, la quale mi aveva visto giovane e aveva ospitato crocchi di anziani contadini al sole del mattino o intere famiglie nella frescura del tramonto, mentre sul sagrato della chiesa il parroco discuteva con un nugolo di giovani. Ora quella piazza non c’è più. Ora c’è la sua carcassa popolata di scippatori e spacciatori. Mi sedetti; e naufragai in un mare tempestoso di nostalgia, d’indignazione, di sconforto, di ripugnanza. Mi chiesi accorato: ma cosa abbiamo fatto di male e di sbagliato - noi anziani, noi che un tempo avevamo doveri e responsabilità - per ridurre l’attuale società a un mostruoso aggregato di atomi litigiosi e impazziti? In questa interminabile guerra di tutti contro tutti, possiamo noi meravigliarci che l’anziano sia considerato un fastidioso ingombro, una costosa zavorra per la famiglia, per la società e per lo Stato?E mi tornò in mente l’immagine virgiliana di Enea che sottrae alle fiamme e alla distruzione di Troia i suoi beni più preziosi: il vecchio padre Anchise, con i sacri arredi e i patrii Penati, la sua donna Creusa, il figlioletto Iulo. Per mano degli Achei cade per sempre la potentissima città di Troia; e tuttavia non muore la troiana societas, perché essa risiede nel petto di Enea, che si salva salvando il suo passato, i suoi dèi, il suo presente e il suo futuro, liricamente trasfigurati nei Penati, in Anchise, in Creusa e in Iulo.Certamente, da solo il troiano avrebbe potuto con più celerità e sicurezza allontanarsi dalla città in fiamme e sottrarsi all’immane massacro perpetrato dagli Achei. Ma l’eroe Enea non è un atomo vigliacco ed egoista, che cerca di salvare solamente la sua pelle. Il pio Enea è un tutto, le cui parti - gli dèi, Anchise, Creusa e Iulo - sono a lui legate da un nesso inscindibile, pur nella loro distinzione e nella loro particolarità.Ergo age, care pater, cervici imponere nostræ, son questi gl’immortali versi virgiliani che c’insegnarono a scuola. Son queste le trepide e amorevoli parole di un figlio, Enea, che rivolge al proprio padre: «Su dunque, diletto padre, sàlimi sulle spalle; ti sosterrò con gli omeri, e il peso non mi sarà grave; dovunque cadranno le sorti, uno e comune sarà il pericolo, una per ambedue la salvezza». Uno e comune il pericolo, una e comune la salvezza. Ecco l’insopprimibile unità sociale, pur nella distinzione delle persone e dei ruoli.Gli Achei - dissi sconsolato tra me e me - bruciarono Troia. Noi abbiamo fatto di peggio: abbiamo bruciato Enea. Abbiamo tagliato i ponti del passato che innervava il presente, quel passato che era tradizione, esperienza di vita, saggezza, culto dei nostri padri e dei nostri dèi. E per conseguenza, anche se può sembrare paradossale, abbiamo bruciato le navi che ci avrebbero portato verso il futuro. Non ci sentiamo più chiamati a una sia pur modesta missione, non siamo più travagliati dal bisogno di realizzare nell’avvenire i nostri progetti, i nostri sogni. Siamo penosamente sdraiati sul comodo divano di un presente assolutizzato, senza passato e senza futuro. Ragion per cui scarsissimo valore assumono sia i nostri padri sia i nostri figli. D’altronde, gli dèi sono morti, Anchise marcisce in un ospizio per vecchi, Iulo gioca in un asilo nido, ed Enea, non più pio, consuma ormai il suo grigio presente senza pensare affatto alla sua missione, infischiandosene altamente di gettare nel Lazio le fondamenta della nuova Ilio che, sui sette colli, sfiderà il tempo e sarà la dea Roma.Stamattina, passata la bufera, mi trovo a riflettere «con mente pura» sull’argomento di ieri. E mi pongo la domanda: son io vecchio? Se per vecchio s’intende un individuo dotato di un pizzico di prudenza e di assennatezza, debbo dire che, anche a giudizio altrui, ero vecchio sin da giovane. In famiglia mi consideravano un ragazzino giudizioso. Al liceo Cutelli, capitava che il mio severissimo professore di Filosofia e Storia, il grande Francesco Maricchiolo - negli appassionati e appassionanti dibattiti che quasi ogni giorno egli suscitava chiamando alla cattedra i suoi allievi - mi invitasse a dire la mia con questa sorta di chiamata alle armi: «Sentiamo cosa ha da dire il vecchio saggio».Ma, se vogliamo parlare d’invecchiamento biologico, allora debbo dire con molta modestia e prudenza che io non sono e non mi sento vecchio. Lungi da me ogni forma di ridicolo giovanilismo, però debbo dichiarare che, Deo gratias, io ogni giorno lavoro senza salario dalle cinque del mattino sino alle otto di sera. Il che, sottraendo un’ora per il pranzo e un’ora per la cena, mi dà un totale di tredici ore al giorno di lavoro intellettuale. Insomma, considerata la mia età, sono pieno di vitalità e di voglia di vivere.Beninteso, non sono vecchio, ma non ho vent’anni. So tantissime cose che i giovani non possono sapere; ho tesaurizzato un’esperienza che il giovane non può possedere; porto con me le ferite e le cicatrici del lungo cimento della vita che un ventenne non può portare, e forse nemmeno sopportare. Però debbo ammettere che non so tante cose che i giovani sanno; e non sempre riesco a tenere il loro passo nella velocità di apprendimento. È proprio vero, andando avanti negli anni, ci affezioniamo all’ordine che abbiamo dato alle nostre idee e alle nostre cose. E il nuovo è vissuto come elemento di disturbo di quell’ordine che con tanta fatica abbiamo raggiunto. Così rischiamo di scivolare nell’eterna fenomenologia del vecchio, che unilateralmente loda il passato (ai miei tempi!) e altrettanto unilateralmente condanna il presente (che tempi!).Ma non sempre la velocità di apprendimento e la novità costituiscono un elemento positivo in assoluto. Se guardo agli ultimi sessant’anni, mi viene il mal di mare al solo pensare con quanta velocità e voracità la cultura italiana ha divorato, e poi scaricato nel pozzo nero dell’oblio, interminabili schiere di homines novi nel mondo degli intellettuali. Non fai in tempo a sapere che Martin Heidegger ha ricevuto il diploma di «il più grande filosofo del Novecento», che subito dopo ti comunicano che quello stesso diploma è stato invece conferito a Jean-Paul Sartre, e poi a Ludwig Wittgenstein, e così via galoppando nella galleria del più grande filosofo del Novecento.Sono le mode culturali, accademiche e soprattutto editoriali? Certo. Le mode sono sempre esistite. È vero. Anche Platone faceva moda ai suoi tempi, e il far parte della sua Accademia era un blasone che tanti ostentavano con orgoglio; anche Hegel ai suoi tempi era di moda, e le sue lezioni richiamavano uditori provenienti da mezza Europa. Ma, vivaddio!, Platone è ancora oggi Platone, ed Hegel è ancora Hegel.So bene, inoltre, che alla vecchiaia si lega qualche paradosso: tutti desideriamo raggiungerla, ma tutti la temiamo e la coloriamo di viola e di negativo. E non ci consola il filosofo che dice che bisogna accettare il corso naturale della vita, che ha le sue stagioni. Non ci consola perché, dopo il nostro inverno, non torna più la nostra primavera. Ma poi, chi l’ha detto che il vecchio sia da considerare come una sorta di torso umano senza braccia e senza gambe, che non può avere relazioni con gli altri? Questa è la risultante di una non-società di monadi senza finestre, in cui le generazioni faticano a comunicare e a riconoscere l’altro.La triste verità è che stentiamo ormai a riconoscere la vitale funzione etico-politica dei vecchi. E così abbiamo scaricato in un ospizio l’eroe omerico Nestore, il più vecchio e il più saggio dei re sotto le mura di Troia, il quale sostenne e illuminò col suo consiglio non solo i greci durante la guerra, ma anche il giovane Telemaco a cui mancava il padre Ulisse lontano da Itaca.Altro paradosso: con la vecchiaia si perde lentamente la memoria, e tuttavia il vecchio vive sempre più di memoria. E laddove il giovane abbonda di memoria del presente, il vecchio coltiva la memoria del passato.A dire il vero, io non sono rincantucciato nel tempo del passato, quasi senza vivere il tempo del futuro. D’altronde, se riesco ancora a lavorare più di dieci ore al giorno, vuol dire che col prodotto del mio lavoro intellettuale mi proietto al di là del presente e al di là della mia modesta persona. Io, nella mia piccola campagna, pianto gli alberi che daranno frutti alla generazione successiva. E tuttavia riconosco che frequento sempre più, ma non esclusivamente, il mondo del passato. Proprio così: a volte vado a visitare i miei ricordi, a volte sono i miei ricordi a sorprendermi inaspettati. Mi piace e mi rattrista visitare il mondo della memoria.Mi rattrista, perché vorrei che quel mondo che porto con me non andasse via con me, che potesse passare ai miei figli, ai miei giovani, che potesse continuare a vivere negli altri e per gli altri. Mi piace, perché ritrovo il mio passato: i miei sentimenti, i miei risentimenti, le persone che ho amato, quelle che mi hanno amato, i rimorsi che ho provato, i rancori che ho suscitato, le passioni che hanno scaldato il mio petto, le crude esperienze che hanno gelato il mio sangue. Alla mia età, dolce e tonificante è la rimembranza: rivedo i miei giochi da bambino, accarezzo i volti dei miei compagni di scuola, rivivo gli amori passati, sento nitidamente il vociare dei miei compagni della parrocchia, incontro gli educatori che mi formarono, torno giovane professore assieme ai miei studenti, ripercorro le strade che mi erano familiari, ascolto le canzoni che cantai a squarciagola con gli amici di una vita, sento i muti singhiozzi di alcune mie notti di adolescente che si augurava che l’alba non tornasse più.Intendiamoci però. Prima ho detto che ancora non mi nutro solo di passato e di memorie. Sino ad oggi, infatti, io vivo il presente, mi appassiono, lavoro, cullo i miei sogni, accendo i miei sentimenti, vivo bene con me, perché vivo con gli altri e per gli altri. Ogni sera faccio il mio bilancio giornaliero e ringrazio il Cielo non solo perché mi fa vivere, ma addirittura perché mi fa vivere pienamente, autenticamente.In verità, mi ha sempre reso triste quell’aneddoto del poeta Salvatore Di Giacomo che, facendo visita al duca di Maddaloni ormai avanti negli anni, e avendogli rispettosamente chiesto «Come state?», ebbe dal vecchio che si scaldava al sole questa risposta: «Non lo vedi? Sto morendo». È vero: si muore ogni giorno; e la vita è un cammino verso la morte. Non c’è dubbio alcuno. Ma, se ci è consentito e finché ci è consentito vivere, allora dobbiamo vivere vivendo, dobbiamo vivere per la vita e non già per la morte. E la coscienza di una vita spesa bene è un’immensa soddisfazione, che c’incoraggia ad affrontare con serenità il cammino che ci resta da fare.Chi come me appartiene alla generazione che nacque nell’immediato dopoguerra, nel doloroso ed esaltante clima della ricostruzione e della rinascita politica, economica e morale dell’Italia uscita a pezzi dal conflitto mondiale; chi come me appartiene a quella generazione che fu educata al sacrificio e alla religione del lavoro in uno spirito di solidarietà sociale, non può concepire una vita, seppur fiaccata dagli anni, senza attività, senza apertura verso gli altri, senza dedizione a un ideale.Fin dove arriva il mio futuro? Fin dove si proiettano i miei piani di lavoro? Non lo so; e francamente non m’interessa. Io non metto limiti alla Provvidenza. E spero di affrontare la mia sera con la serena consapevolezza d’aver fatto il mio dovere di uomo e di cittadino. «La morte - scrisse divinamente Benedetto Croce - sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci dalle mani il compito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare».

 

Giuseppe Pezzino

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