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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte I)

2023-06-16 11:37

Prof. Giuseppe Pezzino

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte I)

Con finta ingenuità mi chiedi perché mai io ricorra all’espressione “Manicomio Italia”, quando debbo affrontare seriamente le questioni del nostro «be

Con finta ingenuità mi chiedi perché mai io ricorra all’espressione “Manicomio Italia”, quando debbo affrontare seriamente le questioni del nostro «bel paese là dove il sì suona» (Inferno, XXXIII, 80). E tu sai, tra l’altro, che ho proposto un referendum per modificare e attualizzare questo verso dantesco, eliminando il sì e mettendo il ni. Infatti, il ni si attaglia meglio al carattere italiano.
Ebbene, c’è un vecchio adagio che così recita: Quos vult Iupiter perdere, dementat prius. Il che significa che Giove per prima cosa fa diventare pazzi coloro che egli vuol rovinare.
Questa ben nota massima mi ha sempre fatto pensare all’episodio biblico della Torre di Babele. Come tu sai, sugli uomini che superbamente progettano di dare la scalata al cielo, costruendo un’altissima torre, Dio fa scendere la confusione delle lingue: «Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Genesi 11, 5-9).
E se è vero, com’è vero, che la lingua è parola, logos, pensiero, ragione, allora la confusione della lingua equivale alla confusione del pensiero e alla frammentazione dei linguaggi. Dopo Babele, infatti, gli uomini verranno dispersi su tutta la terra, e saranno “erranti” sia nel senso di errabondi, incostanti, volubili, sia nel senso di chi vive nell’errore e quindi nel peccato.
Con la Pentecoste cristiana, invece, Dio concede a uno sparuto gruppo di uomini ignoranti – impauriti ma fortificati dalla fede – di parlare una lingua comprensibile da tutti gli uomini: «Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. […] A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?”» (Atti degli Apostoli 2, 1-4; 6-8).
Questa è senza dubbio la teofania di un Dio potente come il vento impetuoso; «un vento – dirà sant’Agostino – che non gonfia ma vivifica, un fuoco che non brucia ma accende». È la nascita della Chiesa universale di Cristo, della Chiesa che unifica le molteplici lingue e parla una lingua comprensibile a tutti, poiché lo Spirito Santo «concesse a degli ignoranti il dono di tutte le lingue, sottomise le lingue dei dotti, e riunì all’unità della fede le diverse lingue» (Sant’Agostino, Discorsi, 269, 1).
Oggi, purtroppo, l’Occidente sta perdendo sempre più la sua identità cristiana; è frastornato da una Babele di lingue che predicano la tolleranza e sono intolleranti e dogmatiche; ha la mente offuscata da un cupio dissolvi, ovvero da uno sfrenato desiderio di auto-distruzione, che si traduce nell’aprioristica e unilaterale condanna di sé e nell’altrettanto aprioristica e unilaterale assoluzione dell’altro, nel disprezzo di sé e nella magnificazione dell’altro.
In questa nostra Italia, addirittura, la tragedia babelica scivola spesso nella farsa, dove i personaggi dell’attuale commedia dell’arte si scambiano e i ruoli e i canovacci e le battute; dove tutti, senza preparazione e senza meditazione, improvvisano una parte e s’improvvisano attori. E chi è nato Pulcinella, volubile, furbastro e ladruncolo, si traveste da Gianduja; e chi è nato Arlecchino, servo ignorante e doppiogiochista, assume i panni di Capitan Spaventa; e Colombina abbandona Arlecchino per scappare con Brighella; e il vanaglorioso e fanfarone Scaramuccia si traveste da Peppe Nappa.
D’altronde, che c’è da meravigliarsi? Tu pensa che Engels, in pieno Ottocento, ebbe a dire che l’Italia è il paese della classicità, e per questo ha generato i tipi più perfetti di eroi, da Dante Alighieri a Giuseppe Garibaldi. Ma per lo stesso motivo – aggiungeva Engels con malignità – l’Italia ha generato i più perfetti tipi comici, le universali maschere della commedia dell’arte: buffoni come Pulcinella o Arlecchino.
In verità, viviamo in un’allucinata e allucinante Babele, in cui tanti comici fanno i politici e tanti politici fanno i comici; in cui qualche cantante sale sul pulpito e pronuncia il Sermone della Montagna, e qualche prete fa il cantante e intona Bella ciao durante la messa, ahimè, proprio quando si celebra non già la coppa vinta al torneo paesano di bocce, bensì il «sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana» (Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, 11).
Per stare poi sul piano più nobile ed elevato della Torre di Babele, abbiamo saputo che in questi giorni una brava e bella attrice, che lasciò un’orma indelebile nella storia del cinema mondiale come protagonista del film Il macellaio, e che da sempre è considerata la Madame de Staël della cultura democratica, ha indossato i panni dell’opinionista in tv e, raccogliendo in un sol colpo l’eredità di Montesquieu, di Tocqueville e di Constant, ha avuto il coraggio prometeico di rischiarare le masse televisive brancolanti nel buio dell’ignoranza, con questa sentenza: «Finché la popolazione non ha adeguata istruzione, non può essere in grado di votare in modo legittimo».
Capisci? Riesci a orientarti? Stiamo vivendo una nuova e più avanzata stagione dei Lumi! Qui in Italia si fa a gara a chi accende il lume più grosso. Già qualche mese addietro, un comico genovese aveva avanzato la rivoluzionaria proposta politica di togliere il diritto di voto agli anziani (con spirito democratico, s’intende!). Ora la nouvelle Madame de Staël lancia la proposta di negare il diritto di voto ai “diversamente istruiti” (sempre con spirito democratico, ovviamente!).
Pensaci bene: costei avrebbe potuto fare tanti mestieri; e invece si è sacrificata per noi, abbracciando la missione di liberare l’umanità dall’ignoranza! E come Lucrezio sciolse un inno a Epicuro liberatore, così io vorrei, ma non posso, cantare qualcosa per questa Minerva liberatrice.
Che donna coraggiosa, la nuova Madame de Staël! Sembra di sentire ancora il ruggito del foscoliano «spirto guerrier» della Pasionaria Dolores Ibarruri, reincarnata in questa bella e colta opinionista (e poi qualche asino non crede nella metempsicosi!). Sembra di ritrovare finalmente il rigoroso pensiero rivoluzionario di Rosa Luxemburg, nella battaglia per l’emancipazione delle masse popolari schiave dell’ignoranza e dello sfruttamento.
Finalmente, con questa luminosa e illuminante proposta di questa Madame de Staël della cultura democratica, ci togliamo dai piedi quel rudere borghese del suffragio universale!
In che modo? Ma è semplice: ispirandoci alla recente esperienza del coronavirus e del tampone.
Perciò segui la traccia del responso della nostra Sibilla Cumana, e tutto ti apparirà cartesianamente chiaro e distinto. Insomma, ricorrendo al tampone mentale, il Grande Fratello orwelliano potrà finalmente misurare il grado di istruzione di ogni suddito italiano, e quindi adottare i dovuti provvedimenti democratici senza fallo. Cosa succederà? Facile prevederlo: a coloro che avranno superato la prova del tampone, risultando “istruiti”, il nostro Big Brother orwelliano concederà la patente di elettore a tempo determinato; mentre agli analfabeti verrà affidata la guida del Ministero della Pubblica Istruzione, come da molti decenni usa fare spessissimo nella patria del grande Francesco De Sanctis (il primo ministro dell’Istruzione, dell’Italia unita).
Lo so, tu non metti in dubbio l’altissimo valore culturale e politico di un Francesco De Sanctis che, da un canto, partecipò ai moti del 1848, che nel 1850 fu imprigionato a Napoli nel carcere di Castel dell’Ovo, che pagò con l’esilio il sogno di un’Italia unita e libera; e, dall’altro, scrisse opere, come la Storia della letteratura italiana, che hanno educato intere generazioni di studiosi e di giovani, e che ancora restano un patrimonio prezioso per tutti.
Lo so, tu concordi con me che il neonato Regno d’Italia, sorto dall’epopea risorgimentale, non poteva inaugurare meglio la sua politica scolastica se non ponendo al Ministero dell’Istruzione un Francesco De Sanctis, sia nel primo governo Cavour, sia in quello di Bettino Ricasoli.
E poi? Poi l’Italia nata dal sangue versato dagli uomini del nostro Risorgimento seppe quasi sempre collocare in quel Ministero uomini di notevole livello culturale e politico. Lasciami ricordare l’illustre palermitano Michele Amari, studioso della Sicilia musulmana e fondatore della moderna sistemazione degli studi orientali in Italia; o il piemontese Michele Coppino, che nel 1877 varò una riforma, rivoluzionaria per allora, che rese obbligatoria, gratuita e aconfessionale la scuola elementare fino a nove anni; o il palermitano Vittorio Emanuele Orlando che, sul piano scientifico, fu il fondatore della scuola italiana di diritto pubblico; o il piemontese Francesco Ruffini, maestro di libertà e di laicità, che poi preferirà, con l’avvento del fascismo, perdere la cattedra universitaria pur di non giurare fedeltà alla dittatura.
Son questi gli uomini seri che, assieme a tanti altri, seriamente tennero il timone della scuola di un’Italia liberale, anticlericale, massonica e in gran parte positivistica. Il 20 settembre 1870, con la presa di Roma, essi s’illusero di avere realizzato il nobile sogno di una completa unità d’Italia, spazzando via quello Stato Pontificio che per secoli era stato non solo un modello di monarchia assoluta e teocratica, ma anche un impedimento all’unificazione e, soprattutto, la causa prima sia della frantumazione politica italiana sia dell’intervento di potenze straniere nella penisola.
Beninteso, quella era pure l’Italia che cominciava a covare i germi dei futuri mali nazionali: basti pensare allo scandalo della Banca Romana che, dal 1892 al 1894, come un bubbone scoppiò a livello nazionale, coinvolgendo politici del calibro di Crispi e di Giolitti, vari ministri, il Parlamento, il governatore della Banca Romana Bernardo Tanlongo, diversi giornalisti, e che, con il delitto Notarbartolo, mostrò pure lo spregiudicato legame fra poteri dello Stato, alta finanza e criminalità mafiosa. Anche allora, come oggi: grandi processi in Parlamento e sui giornali; e tutti assolti in tribunale.
In ogni caso, però, quella era l’Italia che custodiva gelosamente la laicità dello Stato e della sua scuola, l’Italia che s’ispirava al principio calvinisteggiante, prima ancora che cavouriano, della “libera Chiesa in libero Stato”, anche se a volte scivolava verso forme rozze di anticlericalismo.
Dopo la prima guerra mondiale, si ha una svolta nella conduzione del Ministero dell’Istruzione: nel 1920, Giolitti chiama nel suo governo come ministro dell’Istruzione – horresco referens – uno che non aveva la laurea!
Proprio così: si tratta di Benedetto Croce, del più grande pensatore italiano del Novecento, che durante la sua lunga vita raggiungerà vette inaccessibili nel campo della filosofia, della storiografia e della critica estetica.
Con Croce giunge al ministero un liberale che però non è, come tantissimi suoi predecessori, né positivista né massone; che intende tenere la scuola italiana alla larga da ogni ingerenza clericale, ma che non ha mai recitato il ruolo dello sguaiato mangiapreti.
Con Croce si pone all’ordine del giorno una riforma organica e complessiva della scuola italiana che, da diverse sponde e da diversi anni, propugnavano autentici “uomini di scuola” come Gaetano Salvemini, Ernesto Codignola, Giuseppe Lombardo-Radice e Giovanni Gentile. Ma il governo Giolitti cade nel 1921, e la riforma di Croce restò nel cassetto.
A rimpiazzare Benedetto Croce al ministero verrà, nel 1921, un grande scienziato: il siciliano Orso Mario Corbino. Per avere un’idea del valore scientifico, accademico e politico di Corbino, ci basta sottolineare che nel 1926 – da anni non più ministro – egli farà istituire a Roma, per Enrico Fermi, la prima cattedra di Fisica Teorica; e che nel 1930 farà istituire una cattedra di Spettroscopia per Franco Rasetti.
In breve, Corbino ebbe anche il merito storico di essere il protettore e il padre nobile dei “ragazzi di via Panisperna”, di quei giovani talenti che mieteranno Premi Nobel e che raggiungeranno prestigiosissimi traguardi mondiali nel campo della fisica. Parlo ovviamente di Enrico Fermi, Franco Rasetti, Edoardo Amaldi, Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, Ettore Majorana e Oscar D’Agostino.
Nell’ottobre 1922, con il primo governo Mussolini (attenzione, governo di coalizione! Dove, oltre a un gruppetto di tre ministri fascisti, c’erano ministri liberali, ministri cattolici del partito fondato da Sturzo, ministri nazionalisti e ministri militari) entra al Ministero (in qualità di indipendente) la figura più importante nella storia della scuola italiana dall’Unità ad oggi: il filosofo siciliano Giovanni Gentile.
Più giovane di Croce e sicuramente più esperto in campo pedagogico, Gentile trasformerà completamente nel giro di due anni la scuola italiana, grazie a una riforma che sostanzialmente durerà sin quasi ai nostri giorni. Con Benedetto Croce egli condivide la matrice idealistico-hegeliana della filosofia, ma il suo liberalismo è ben diverso. Più vicino al patrimonio ideale della Destra storica, Gentile pensa a uno Stato forte e centralista che ha il dovere d’intervenire nell’educazione dei giovani e nella formazione delle future generazioni.
Sicché, allo Stato liberale, laico e agnostico, egli contrappone una rielaborazione dello Stato etico di derivazione hegeliana: uno Stato che dovrebbe superare sia l’atomismo individualistico sia l’utilitarismo della società civile, grazie alla sintesi dialettica dell’eticità dello Stato. Ciò comportò non solo la pericolosa confusione fra politica e morale, ma anche una sorta di religione dello Stato accentratore ed educatore. In breve, lo Stato liberale perse la sua neutralità, per diventare uno Stato che interviene attivamente e costantemente in tutti i campi e i gradi dell’educazione.
A questo punto, ti prego di non cadere nell’equazione facilona e schematica: Riforma Gentile ═ fascismo. Nostalgia della Riforma Gentile? Manco per sogno! Io sto ai fatti. E i fatti mi dicono che quella riforma scolastica, con i suoi pregi e i suoi difetti, attraversò bene o male tutto il ventennio fascista e poi circa un ventennio della repubblica italiana. E visse e sopravvisse, quanto meno per la palmare incapacità politica dell’Italia repubblicana di progettare e realizzare organicamente il nuovo da sostituire al vecchio.
Tra l’altro, per fare piazza pulita di certe letture semplicistiche e faziose della Riforma Gentile, bisogna dire che l’idea gentiliana di Stato etico nasce e si definisce ben prima del fascismo. Ti faccio notare, a tal proposito, che Gentile pubblicò nel 1916 sia la Teoria generale dello Spirito come Atto puro, sia I fondamenti della filosofia del diritto, due colonne cioè del suo sistema filosofico. E qui scrive: «La libertà è questa unità inscindibile del reale e del soggetto; quella identità, cioè, di oggetto e soggetto che è l’Io, l’autocoscienza» (G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze, Le Lettere, 1987, p. 43). Insomma, nel 1916, Mussolini era solo un caporale dei bersaglieri al fronte di guerra; e il duce del fascismo era di là da venire!
Che poi la dittatura se ne sia appropriata e abbia dichiarato che la Riforma Gentile è la più fascista delle riforme, è un altro discorso; è il discorso di un’operazione politica a favore del regime e a discapito della verità.
Che poi Giovanni Gentile, dopo la sua adesione al fascismo, abbia adattato le sue precedenti teorie alle esigenze del regime, giungendo al punto di teorizzare penosamente l’efficacia morale del manganello, dichiarando, nel 1924 a Palermo, che «ogni forza è morale, perché si rivolge sempre alla volontà: e qualunque sia l’argomento adoperato – dalla predica al manganello – la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l’uomo», è un fatto innegabile che, da un canto, riguarda la coscienza e la logica del filosofo siciliano, e, dall’altro, rappresenta l’inesorabile destino di tantissimi intellectuels engagés, di tantissimi intellettuali politicamente impegnati – prima e dopo Gentile – che subordinano la cultura alla politica, spesso finendo col prostituire e la coscienza e la filosofia e l’arte e la scienza agli interessi e alle partigianerie della politica.
Detto fra di noi, e che non si sappia in giro, quando l’intellettuale non sa custodire gelosamente e difendere strenuamente la sua autonomia rispetto alla politica, si aprono davanti a lui due strade: 1) quella del servilismo e della cortigianeria verso la politica; 2) o quella della “mosca cocchiera” che, come nella favola Le Coche et la Mouche di Jean La Fontaine, non conta nulla, ma s’illude arrogantemente e stoltamente di guidare cavalli, carrozzone e passeggeri, sol perché sta a ronzare attorno a loro, per poi ripetere: Se non ci fossi io!
Comunque, alle corte: se la Riforma Gentile fu fascista, e fu addirittura la causa di tutti i mali della scuola italiana, perché mai – vien da chiedersi – gli uomini della repubblica non la smantellarono?
La verità vera è che la Riforma Gentile fu fascista, sin quando fece comodo e diede lustro alla dittatura. Prova ne sia che nel 1929, con i Patti Lateranensi fra Stato italiano e Chiesa cattolica, lo spirito della Riforma Gentile verrà in parte tradito dal fascismo. Basti pensare che la religione cattolica – collocata da Gentile solo nella fase elementare della scuola, per poi essere hegelianamente superata e inverata dalla filosofia – con i Patti Lateranensi sarà considerata «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica» e troneggerà nella scuola italiana di ogni ordine e grado: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi d’accordo tra la Santa Sede e lo Stato» (Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, art. 36, anno 1929).
Al Senato del Regno d’Italia, solo una voce si levò contro i Patti Lateranensi, e fu quella del senatore Benedetto Croce. Questi, pur accettando la necessità di un modus vivendi dello Stato con la Chiesa, il 24 maggio 1929 pronuncia un discorso che non transige sulla sovranità dello Stato e sulla libertà di coscienza. E alla tesi di coloro che pretendevano di presentare il Concordato come un capolavoro di alta politica, Croce non solo obietta che al di sopra dell’utilità politica esiste la coscienza morale, ma che addirittura tale accordo è un cattivo acquisto politico, perché nega il migliore patrimonio di libertà del nostro Risorgimento. 
«Come che sia – affermò solennemente Croce, fra le accese proteste dell’aula e delle tribune – accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Guai alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero mancati o le mancassero!» (B. Croce, Pagine sparse, II, p. 397).
Tra l’altro, bisogna dire che il Concordato del 1929 fu un colpo molto grave per lo stesso Gentile, sia dal punto di vista della sua riforma scolastica, che veniva in tante parti stravolta, sia dal punto di vista della sua filosofia idealistica che cominciava ad avvertire i segnali della perdita dell’egemonia in Italia e di una sorta di santa alleanza tra filosofi cattolici (i «tomisti») e i «vecchi positivisti» contro l’idealismo gentiliano.
Perduta quella sorta di primato culturale che Mussolini gli aveva concesso prima del Concordato con la Chiesa, Gentile sente sempre più minacciosa la polemica contro la sua persona e la sua filosofia.
«Chi ha qualche notizia della filosofia italiana d’oggi – afferma Gentile nel 1934 – sa quanta parte occupi nella sua letteratura la polemica. Giornali e riviste, congressi e società lottano senza tregua. Libri e opuscoli spesso non hanno altro fine che quello puramente negativo di abbattere l’avversario. E l’avversario, il grande avversario del quale tutti parlano e contro il quale da ogni parte si combatte, è l’idealismo. Questo, dal canto suo, non dimostra in verità di darsi un gran pensiero della battaglia. Agli attacchi risponde per lo più col silenzio […] In realtà nel coro delle voci che in questi ultimi anni si son levate contro l’idealismo, non ce n’è una che esprima un nuovo bisogno e un nuovo principio […] Sono le vecchie affermazioni del senso comune, della mentalità scientifica naturalistica realistica, o della grossolana coscienza religiosa contenta di fantastici miti e di sonanti luoghi comuni. […] I morti combattono i vivi. Tomisti a braccetto di vecchi positivisti, ai quali non par vero di aver finalmente degli alleati contro il formidabile nemico, che li aveva sbaragliati, ridotti al silenzio» (G. Gentile, Il carattere religioso dell’idealismo italiano, in “Leonardo” 1935).
E Gentile non può sapere che, dopo la seconda guerra mondiale, all’idealismo verrà sbrigativamente addossata la colpa del ritardo scientifico italiano, anzi il crimine storico-culturale di avere strangolato la scienza con la dittatura della filosofia idealistica. Infatti, una gran massa di demi-savants va ripetendo ancora questo ritornello, senza mai chiedersi almeno come mai la dittatura filosofica gentiliana non strangolò un valentissimo scienziato e potentissimo accademico come Orso Mario Corbino, e come mai non soffocò nella culla i “ragazzi di via Panisperna” che, sotto la direzione di Enrico Fermi, elevarono la scienza a livello mondiale.
In verità, Gentile sconta le acrobazie politiche e le avventure spregiudicate di un Mussolini che lasciava a metà ogni progetto e faceva malamente convivere res insociabiles, cose incompatibili, come socialismo e corporativismo; monarchia liberal-costituzionale e dittatura fascista; educazione dello Stato fascista ed educazione della Chiesa cattolica.
E i nodi verranno al pettine fascista, quando Mussolini, perdendo la guerra e la sua posizione di forza, si troverà circondato e sopraffatto dalla Chiesa cattolica, da alcune “anime dissidenti” del partito fascista, e dalla monarchia sabauda.

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