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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte III) BENEDETTO CROCE: PIETRA DELLO SCANDALO

2023-06-17 10:30

Prof. Giuseppe Pezzino

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte III) BENEDETTO CROCE: PIETRA DELLO SCANDALO

Con la scomparsa di Giovanni Gentile, il 15 aprile 1944, e di Benito Mussolini, il 28 aprile 1945, potrebbe sembrare che Benedetto Croce, avendo perdu

Con la scomparsa di Giovanni Gentile, il 15 aprile 1944, e di Benito Mussolini, il 28 aprile 1945, potrebbe sembrare che Benedetto Croce, avendo perduto i suoi due più grandi interlocutori-nemici, rischiasse di rimanere nella vuota e angosciosa agitazione dell’uomo che ha perduto la propria ombra.

Per circa vent’anni, infatti, il pensiero e gli scritti di Croce (dalla sua rivista La Critica al Manifesto degli intellettuali antifascisti, dalla Storia d’Europa alla Storia come pensiero e come azione, solo per fare qualche esempio) furono ispirati, animati e sorretti da un fine principale: la difesa della libertà contro la dittatura di Mussolini e contro la subordinazione della filosofia gentiliana alla politica del fascismo.

In quel ventennio Croce moltiplicò le sue energie tanto da poter scrivere che il fascismo, pur essendo un male da combattere, gli aveva infuso una seconda giovinezza.

Vent’anni sono tanti, eppure possiamo dire con sicurezza che a Croce non toccò affatto la sorte dell’uomo che aveva perduto la sua ombra. Non gli toccò, perché, con la caduta del fascismo e poi con la fine della guerra, il filosofo napoletano, malgrado il peso dei suoi ottant’anni, fu letteralmente risucchiato dal lavoro di direzione politica di un’Italia uscita dal conflitto letteralmente a pezzi, sia dal punto di vista materiale ed economico, sia da quello politico e morale.

Ma leggiamo cosa scrive Croce nei suoi Taccuini, il 17 aprile 1944, appena gli giunge la notizia che Gentile è stato assassinato: «La mattina a prima ora, è venuto da Capri il buon Brindisi a discorrere con me [a causa dei bombardamenti su Napoli, Croce e la sua famiglia si erano spostati a Sorrento] di quanto sta operando colà come sindaco molto zelante; e, nel bel mezzo del discorso, mi ha detto di avere udito nel battello che il Gentile è stato ammazzato in Firenze! La notizia, purtroppo, è stata poco dopo confermata dalla radio di Londra».

A questo punto, emerge in Croce l’emozione del ricordo di un sodalizio culturale e di un rapporto umano mai raggiunto in Italia, e nel contempo resiste la condanna degli errori politici e culturali di Gentile. Tuttavia il vecchio filosofo confessa di avere sempre sperato, una volta caduto il fascismo, di garantire a Gentile l’incolumità e di riportarlo al lavoro per cui era nato, agli studi abbandonati per la politica fascista: «Tale la fine di un uomo che per circa trent’anni ho avuto collaboratore, e verso il quale sono stato sempre amico sincero, affettuoso e leale. Ruppi la mia relazione con lui per il suo passaggio al fascismo, aggravato dalla contaminazione che egli fece della filosofia con questo; […] Ma, pur sentendo irreparabile la rottura fra noi, e, d’altra parte, essendo sicuro che in un modo o nell’altro l’artificioso e bugiardo edifizio del fascismo sarebbe crollato, io pensavo che, in questo avvenire, mi sarebbe spettato, per il ricordo della giovanile amicizia, provvedere, non potendo altro, alla sua incolumità personale e a rendergli tollerabile la vita col richiamarlo agli studî da lui disertati».

E qui ammette di essersi addolorato per la vile lettera-pugnalata inferta a Gentile, nel 1943, dal nuovo ministro della Pubblica Istruzione Leonardo Severi. E poi di essersi prodigato, tramite comuni amici, per consigliare a Gentile prudenza e basso profilo. Invano, perché la storia subì un’accelerazione incontrollabile: «Già nell’agosto scorso mi dolsi di una lettera di rimprovero che il nuovo ministro dell’istruzione [Leonardo Severi] gli aveva pubblicamente diretta, e raccomandai di procedere verso di lui con temperanza e fargli consigliare da qualche comune amico, poiché si avvicinava il tempo del suo collocamento a riposo, di anticiparlo con spontanea sua domanda. Poi accadde quel che accadde: l’Italia fu spezzata in due; di lui seppi che aveva accettato di presiedere l’Accademia d’Italia e stava molto in vista nella repubblica fascistica tenendo discorsi a questa intonati, dei quali mi fu ridetto qualche tratto dei più violenti».

Quindi la dolorosa scena si conclude con l’onore delle lacrime versate, per l’antico amico Giovanni, dalla signora Adelina, moglie di Croce: «Non si sa nulla degli autori né delle circostanze della sua morte; ma la radio Londra, che l’ha definita “giustizia” e ha aggiunto severi commenti sull’uomo, ha fatto scoppiare in pianto Adelina che l’ascoltava e che ricordava lui, nei primi tempi del nostro matrimonio, bonario uomo ed amico, da noi accolto a festa quando veniva a Napoli nostro ospite».

In precedenza, il 2 dicembre 1943 – quindi dopo la caduta di Mussolini il 25 aprile dello stesso anno e dopo l’armistizio dell’8 settembre sempre del 1943 – egli aveva fatto riferimento a Mussolini: «Riflettevo stamane che quasi da nessuno si parla più del Mussolini, neppure per imprecare contro di lui. La stessa voce che di tanto in tanto circola, che egli sia morto, comprova che è veramente morto nell’anima di tutti. Anche a me di rado sale dal petto alcun impeto contro di lui al pensiero della rovina a cui ha portato l’Italia e della corruttela profonda che lascia in tutti i rami della vita pubblica: persino nell’esercito, persino nei carabinieri. Né per niun conto so risolvermi a scrivere della sua persona, non solo oggi, ma anche trasferendomi con l’immaginazione in un tempo più calmo e di ravvivate speranze».

Quasi nessuno parla più di Mussolini. Pur ancora vivo, egli è morto nell’anima di tutti; e lo stesso Croce avverte prepotente un rifiuto di scrivere su di lui anche in futuro. Ben altre urgenze, ben altri problemi incombono ormai sull’Italia da ricostruire!

E tuttavia il filosofo napoletano vuol mettere le mani avanti contro una possibile futura riabilitazione storiografica del dittatore: «Ma pure rifletto talvolta che ben potrà darsi il caso, e anzi è da tenere per sicuro, che i miei colleghi in istoriografia (li conosco bene e conosco i loro cervelli) si metteranno a scoprire in quell’uomo tratti generosi e geniali, e addirittura imprenderanno di lui la difesa, la Rettung, la riabilitazione, come la chiamano, e fors’anche lo esalteranno. Perciò mentalmente m’indirizzo a loro, quasi parlo con loro, colà, in quel futuro mondo che sarà il loro, per avvertirli che lascino stare, che resistano in questo caso alla seduzione delle tesi paradossali e ingegnose e “brillanti”, perché l’uomo nella sua realtà, era di corta intelligenza, correlativa alla sua radicale deficienza di sensibilità morale, ignorante, di quella ignoranza sostanziale che è nel non intendere e non conoscere gli elementari rapporti della vita umana e civile, incapace di autocritica al pari che di scrupoli di coscienza, vanitosissimo, privo di ogni gusto in ogni sua parola e gesto, sempre tra il pacchiano e l’arrogante».

Dopo questa scultorea, e fin troppo passionale, rappresentazione dell’uomo Mussolini da parte di Croce, sarebbe facile sostenere che, in quel momento drammatico, non stava parlando uno dei più grandi storici italiani del Novecento, un maestro della storiografia, qual era per universale riconoscimento, bensì l’uomo Croce che attorno a sé, e su di sé, sente il peso delle macerie materiali e spirituali lasciate dalla dittatura e dalla guerra.

A prova di ciò, sarebbe bastato riproporre all’uomo Croce una pagina del grande storico Croce, una pagina della Storia d’Italia dal 1871 al 1915, pubblicata nel 1928, dove, riflettendo sulla decadenza del socialismo italiano alla vigilia della prima guerra mondiale – di un socialismo cioè prigioniero di antiquate teorie positivistiche e ridottosi da internazionalista a nazionalista, e da nazionalista a regionale e poi a provinciale – egli pone in risalto le qualità positive del Mussolini rivoluzionario che fa piazza pulita delle vecchie liturgie del suo partito invecchiato e decadente: «Nell’ala sinistra, era sorto in quel tempo un uomo di schietto temperamento rivoluzionario, quali non erano i socialisti italiani, e di acume conforme, il Mussolini, che riprese l’intransigenza del rigido marxismo, ma non si provò nella vana impresa di riportare semplicemente il socialismo alla sua forma primitiva, sì invece, aperto come giovane che era alle correnti contemporanee, procurò d’infondergli una nuova anima, adoperando la teoria della violenza del Sorel, l’intuizionismo del Bergson, il prammatismo, il misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni era nell’aere intellettuale e che pareva a molti idealismo, onde anch’egli fu detto e si disse volentieri “idealista”».

Sarebbe bastato riproporre questa pagina dello storico Croce su Mussolini rivoluzionario, ma non c’era proprio bisogno, perché, in quella stessa pagina di Taccuino del 2 dicembre 1943, egli, dopo aver fatto a pezzi l’uomo Mussolini sull’onda passionale di un giustificato risentimento, torna ad essere lo storico di razza qual era, e pone il problema della genesi del fascismo, delle responsabilità di chi appoggiò o lasciò fare a Mussolini: «Ma egli, chiamato a rispondere del danno e dell’onta in cui ha gettato l’Italia, con le sue parole e la sua azione e con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo di Firenze, di cui ci parla Giovanni Villani, rispose ai suoi compagni di esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: “E voi, perché mi avete creduto?” Il problema che solo è degno d’indagine e di meditazione non riguarda la personalità di lui, che è nulla, ma la storia italiana ed europea, nella quale il corso delle idee e dei sentimenti ha messo capo alla fortuna di uomini siffatti».

Ad ogni modo, bisogna prendere atto che Mussolini è ormai morto nel cuore e nella mente di Croce. Basti pensare che tornerà a parlare di lui, dedicandogli quattro righe scarne e fredde, quasi telegrafiche, il 29 aprile 1945, cioè alcuni giorni dopo la morte del dittatore: «Annunzio della fine del Mussolini e dei suoi gerarchi. Mi è parsa affatto naturale. L’uomo era nullo, e la fine ha confermato questo giudizio. Bisognerebbe dimenticarlo, ma insieme sempre ricordare che moltissimi o i più, in Italia e fuori, lo hanno creduto una grande forza geniale e benefica, e lo hanno plaudito e sostenuto per lunghi anni».

Pur nella stringatezza dello stile da diario, Croce era stato invece più equilibrato a proposito della fucilazione (11 gennaio 1944) di Galeazzo Ciano, a seguito del Processo di Verona, che aveva condannato a morte il genero di Mussolini e altri fascisti, i quali avevano messo in minoranza il dittatore nel Gran Consiglio del Fascismo del 25 aprile 1943: «Il giornalista americano Chinigo – annota Croce nel suo Taccuino del 12 gennaio 1944 – voleva da me per lo meno un giudizio sulla fucilazione del Ciano, del De Bono e degli altri, e io ho risposto che mi pareva superfluo dire quel che pensavano tutti: cioè, che era un delitto aggiunto agli altri, un orrore».

Per maggiore precisione bisogna dire che, caduta la dittatura, il problema non è più il fascismo ma il futuro dell’Italia. Un problema enorme in verità, che assilla giorno e notte il vecchio Croce: «Anche stanotte dormito poco – egli annota il 27 luglio 1943 – da mezzanotte alle quattro. Fisso è il pensiero alle sorti dell’Italia; il fascismo mi appare già un passato, un ciclo chiuso, e io non assaporo il piacere della vendetta; ma l’Italia è un presente doloroso».

E poi continua esprimendo, da italiano, sentimenti di tristezza e di ribellione per una certa ottusa ostilità manifestata da alcuni politici inglesi verso l’Italia, i quali non sempre riuscivano a distinguere le responsabilità del regime dalle responsabilità degli antifascisti, e soprattutto le responsabilità di Mussolini dalle responsabilità del popolo italiano, stremato, prostrato, in condizioni talmente penose e disperate da rischiare di abbracciare una nuova offerta di dittatura proveniente dal comunismo.

Miope valutazione quella inglese, che Croce combatterà ogni giorno con diplomazia ma con decisione: «Del resto, anche oggi ansiosa attesa di notizie, e molta tristezza e sentimento di ribellione per le parole pronunziate contro l’Italia da statisti inglesi, che forse si apprestano a fare pesare sopra di noi, nel nome della giustizia e della morale, la nostra guerra sciagurata».

Ti meravigli come mai Croce si impegni quasi totalmente nell’attività politica dopo la caduta del fascismo, proprio lui ottantenne e con i relativi acciacchi, proprio lui che ha sempre teorizzato la distinzione fra teoria e prassi, ovverosia l’autonomia di un’attività spirituale rispetto a un’altra? Ti rispondo subito che certamente Croce fu il filosofo dell’unità-distinzione delle forme spirituali, ma questo significa correttamente che l’autonomia si esplicita all’interno dell’unità spirituale: in Dante, ad esempio, la forma spirituale dominante è l’arte, ma essa non esclude nel nostro sommo poeta la forma della filosofia o quella della politica.

Orbene, Croce è senza dubbio un uomo di studi, un filosofo, uno storico; ma egli non si sente, e non è, un purus philosophus, un pensatore astratto che, chiuso nel suo studio, si va continuamente chiedendo: questo calamaio è dentro di me o fuori di me? Mentre fuori della stanza, a dispetto del calamaio, la vita scorre tumultuosamente!

Anzi, a tal proposito egli scrive: «Qual è l’origine del detto: Purus mathematicuspurus asinus, o quale ne è la più antica apparizione? Confesso di non saperlo […] Assai più giusta mi sembra la sostituzione che io soglio fare di quel detto con l’altro: Purus philosophuspurus asinus, perché il filosofo non può appagarsi di schemi e di astrazioni, ma deve rispondere ai quesiti che la realtà e la storia gli pongono e preparare con la verità la nuova storia: donde il mio aborrimento pei cosiddetti filosofi puri, ignari, ignoranti e indifferenti alle cose, e che riducono la filosofia a una scolastica e ne usano come del loro gagnepain».

Egli, pur rivendicando l’autonomia della cultura rispetto alla politica, ha dato sempre il carattere di magistero civile ai suoi studi. Di questo egli è stato sempre convinto; e questo magistero civile egli ha sempre esercitato anche nei momenti più bui della dittatura: «Ho riletto – scrive Croce nel dicembre 1943 – alcune pagine dei miei vecchi volumi e in ispecie delle Conversazioni critiche, e mi sono meravigliato che la gente mi sollecitasse più volte a prendere una cattedra universitaria, quando la cattedra io l’avevo già piantata nel mezzo dell’Italia, rispondendo a domande e dando schiarimenti (che ora restano in forma di quæstiones e di obiectiones), in quelli e in altri volumi: col vantaggio di rivolgermi a un pubblico assai più largo e vario che non potesse essere un uditorio di studenti per la laurea».

A tal proposito, ci aiuta sicuramente quello che si scrivono Einstein e Croce nel 1944. Questi due giganti del pensiero (Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui! – avrebbe esclamato Ariosto) si erano conosciuti a Berlino nel 1931, quando in Europa da tempo esistevano la dittatura comunista sovietica e quella fascista mussoliniana, e già si addensavano cupe nubi sul cielo della Germania, le quali da lì a qualche anno, nel 1933, porteranno la violenta tempesta nazista. E i due avevano parlato, con ansietà e preoccupazione, del destino dell’Europa sempre più sotto la demoniaca tentazione del totalitarismo.

Ebbene, il 7 giugno 1944, dalla prestigiosissima Princeton University, Einstein scrive una lettera a Croce.

Questa lettera, piena di sincero rispetto, di cortesia non formale e di calda affettuosità verso il filosofo italiano e verso l’Italia, merita di essere letta per intero: «Apprendo che una persona di qui, che ebbe la fortuna di visitarla, ricusò di lasciarle la lettera da me indirizzata a lui, ma scritta a Lei. Pure, di ciò mi consolo nel pensiero che Ella è ora presa da occupazioni e sentimenti incomparabilmente più importanti, e particolarmente dalla speranza che la sua bella patria sia presto liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro. In questo tempo di generale sconvolgimento possa a Lei essere concesso di rendere al suo paese un servigio oltremodo prezioso, perché Ella è dei pochi che, stando di sopra dei partiti, hanno la fiducia di tutti».

E qui Einstein rende omaggio a Platone – al grande Ateniese cioè che aveva teorizzato un governo dei filosofi nella Repubblica da lui ideata – per esaltare il ruolo etico-politico del filosofo italiano nella guida della ricostruzione di un’Italia devastata dalla dittatura, dalla guerra e dalla sconfitta: «Se l’antico Platone potesse in qualche guisa vedere quello che ora accade, si sentirebbe come in casa sua, perché, dopo lungo corso di secoli, vedrebbe ciò che di rado aveva visto, che si viene adempiendo in certo modo il suo sogno di un governo retto da filosofi; ma vedrebbe altresì, e ciò con maggiore orgoglio che soddisfazione, che la sua idea del circolo delle forme di governo è sempre in atto».

Nella parte centrale, Einstein affronta il tema dell’aristocrazia intellettuale, della respublica degli spiriti eletti, che accomuna nella Filosofia e nella Ragione i suoi membri al di là del tempo, dello spazio, e senza discriminazioni di alcun tipo.

E poi, pensando sicuramente a Socrate, egli conclude che coloro che appartengono a questa aristocrazia della ragione potranno bensì essere messi a morte, ma non certo essere offesi: «La filosofia e la ragione medesima sono ben lungi, per un tempo prevedibile, dal diventare guide degli uomini, ed esse resteranno il più bel rifugio degli spiriti eletti: l’unica vera aristocrazia, che non opprime nessuno e in nessuno muove invidia, e di cui anzi quelli che non vi appartengono non riescono neppure a riconoscere l’esistenza. In nessuna altra società i vincoli tra viventi e morti sono così vivi, e i nostri simili dei secoli precedenti stanno con noi come amici i cui detti non perdono mai la loro attrattiva, la loro fecondità e la personale loro magia. E, infine, chi realmente appartiene a quella aristocrazia, potrà bensì dagli altri uomini essere messo a morte, ma non offeso. Con rispettosi saluti e auguri, A. Einstein».

Croce risponde ad Einstein con una lettera del 28 luglio 1944.

In quel particolare momento storico, due amici si abbracciano, due anime sentono all’unisono l’amore per la libertà e per la pace: Einstein ha sessantacinque anni, ed è già pour tout le monde Albert Einstein; Croce ha settantotto anni, ed è giàpour tout le monde Benedetto Croce.

Quest’ultimo inizia il suo scritto ravvivando ricordi mai spenti: «La sua lettera mi è stata carissima, perché ho avuto sempre nel ricordo la lunga conversazione che facemmo in Berlino nel 1931, quando ci accomunammo nello stesso sentimento ansioso sul pericolo in cui versava la libertà in Europa: comunanza di sentimento e di propositi che vidi confermata allorché mi trovai a collaborare con Lei – fatta esule dalla sua patria per l’inferocita lotta contro la libertà –, nel volume di saggi sulla libertà (Freedom), preparato, or son quattro anni, in New York».

Ma poi va al cuore della questione posta da Einstein, ribadendo la sua distinzione fra teoria e prassi, e tuttavia fissando in maniera netta i compiti “politici” a cui l’uomo di pensiero non può sottrarsi, se non inaridendo la stessa fonte della sua attività teoretica.

Socrate fu indubbiamente filosofo, ma combatté a Potidea; Dante fu sommo poeta, ma combatté a Campaldino: «Quanto alla filosofia, essa non è severa filosofia se non conosce, con l’ufficio suo, il suo limite, che è nell’apportare all’elevamento dell’umanità la chiarezza dei concetti, la luce del vero. È un’azione mentale, che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che essa può soltanto sollecitare. In questa seconda sfera a noi, modesti filosofi, spetta d’imitare un altro filosofo antico: Socrate, che filosofò ma che combatté da oplita a Potidea, e Dante, che poetò, ma combatté a Campaldino; e, poiché non tutti e non sempre possono compiere questa forma straordinaria di azione, partecipare alla quotidiana, e più aspra e più complessa guerra, che è la politica».

Quanto alla bella descrizione einsteiniana della comunità degli spiriti eletti, a cui partecipano i vivi e i morti – e, detto per inciso, di cui aveva parlato secoli prima Machiavelli nella sua Lettera a Francesco Vettori – Croce aggiunge una postilla: anch’io pratico quella compagnia dell’aristocrazia dello spirito, ma non sempre è permesso restare al di sopra del mondo, quando il mondo, per brutto che sia, richiede l’impegno di tutti: «Anche io pratico la compagnia, della quale Ella parla con così nobili parole, di coloro che già vissero sulla terra e ci lasciarono le opere loro di pensiero e di poesia, e mi rassereno e ritempero in essa: di volta in volta m’immergo in questo bagno spirituale, che è quasi la mia pratica religiosa. Ma in questo bagno non è dato restare, e da esso bisogna uscire per sottoporsi agli umili e spesso ingrati doveri che ci aspettano sull’uscio. Perciò mi sento oggi, conforme ai miei convincimenti ed ai miei ideali, impegnato nella politica del mio paese; e vorrei, ahimè, possedere per essa a dovizia le forze che le sono più direttamente necessarie, ma tuttavia le do quelle, quali che siano, che mi riesce di raccogliere in me, sia pure con qualche stento».

Su questo tema dell’impegno politico che, in certi momenti storici particolari, spetta al filosofo o al poeta, Croce ebbe a riflettere anche tra sé, dopo la caduta della dittatura: «Io stesso debbo qualche gratitudine al fascismo perché m’infuse come una nuova giovinezza, riempiendomi di accresciuta operosità e di spiriti combattenti […] mi fece sentire sempre più che l’opera del pensatore e dello scrittore deve fondersi con quella del cittadino e dell’uomo».

Ora tu m’interrompi e mi chiedi, con una punta d’ingenuità mista a malizia, se per caso Croce sia stato “vecchio” sin dalla nascita, “vecchio” anche fisicamente, un “vecchio” decrepito con un pensiero decrepito sin dal suo sorgere, con una filosofia sempre “fuori moda”, un “vecchio” pensatore sempre provinciale, sempre isolato a casa nostra e all’estero.

Ed io ti rispondo che la tua domanda non è del tutto infondata né peregrina, perché, almeno dagli anni Quaranta in poi, fu tutto un coro di critici che liquidavano “il vecchio Croce”, che rifiutavano la sua “vecchia filosofia”, che bollavano di “vecchio conservatorismo” tutto il suo pensiero. Pensa che persino nella iconografia crociana hanno, più o meno volutamente, privilegiato le foto di un “vecchio novantenne”, curvo e imbacuccato in un “vecchio cappotto” o infagottato in una “vecchia vestaglia”. Quelle foto diventavano oggettivamente funzionali a un certo tipo di operazione molto politica e poco culturale.

Potrei aggiungere che i “superatori” ad ogni costo, gli “innovatori” di ruolo a tempo indeterminato, si sono dati da fare contro Croce già durante il fascismo. Durante la dittatura, nell’archivio della Polizia politica c’era un fascicolo intestato a tale Croce Benedetto, dove venivano inseriti i rapporti e le “soffiate” dei cosiddetti “confidenti”. In un rapporto del 1933, un confidente denuncia alla Polizia politica che tante scuole e università erano abbonate alla rivista crociana La Critica.

Mussolini legge la notizia, e immediatamente trasmette copia a Francesco Ercole, allora ministro dell’Educazione nazionale, con questa nota: «Caro Ministro Ercole, ecco una notizia che appartiene al genere delle “incredibili”».

Naturalmente il ministro corre subito ai ripari, disponendo la sospensione immediata degli abbonamenti a La Critica. Immediata è pure la lettera di protesta che il filosofo invia al ministro, e che così si conclude: «E perché mai, se già conosco la risposta che mi farebbe l’Eccellenza Vostra, Le scrivo questa lettera? Non certo per domandarle spiegazioni, e neppure per chiederle di cangiare atteggiamento verso le cose mie, o di riprendere quello più pacato dei suoi predecessori, che pure erano uomini del regime. Gliela scrivo perché sentirei di mancare a un dovere se a tutto ciò mi acconciassi senza protestare».

Bada bene, siamo nel 1933. E, proprio in quell’anno, Hitler ascende al potere della Germania, mentre Martin Heidegger ascende al rettorato dell’università di Friburgo, con una Prolusione inneggiante alla Germania nazista e al suo Führer.

E qui bisogna fare riferimento al prezioso carteggio che intercorse fra Croce e il grande filologo tedesco Karl Vossler, un carteggio di circa cinquant’anni fra due limpide coscienze europee, accomunate dalla battaglia per la verità e per la libertà.

Il 3 maggio 1933 – quando Hitler ha già fulmineamente conquistato il potere assoluto il 28 febbraio 1933 con il cosiddetto “Decreto dell’incendio del Reichstag”, Reichstagsbrandverordnung –Vossler scrive a Croce, per deplorare la vergognosa canea, poco culturale e molto politica, dei tanti intellettuali nazisti contro Thomas Mann: «Il povero Thomas Mann si trova in brutte condizioni: pare che adesso stia a Basilea. Un gruppo di intellettuali e artisti di Monaco ha pubblicato una protesta, parte stupida, parte di malafede e di vile opportunismo contro il suo discorso in onore di Wagner, facendo finta che si tratti di un atto di vilipendio dell’arte tedesco-wagneriana, la quale in realtà fu celebrata ed esaltata forse anche troppo dal Mann. Così ti cambiano le parole in bocca quando fa loro comodo. Mi dicon che Riccardo Strauss, che è tra i sottoscrittori della protesta, ha dovuto confessare che non aveva neanche letto il discorso incriminato. Quando soffia il vento politico, si alza la polvere – e si sa che c’è sempre – e turbina nell’aria e dà fastidio al naso e ai polmoni».

E la polvere alzata dal vento politico dà fastidio anche alla testa, se è vero come è vero che Heidegger pronuncia la sua prolusione filonazista Die Selbstbeauptung der deutschen Universitäten. E puntualmente Vossler avverte Croce di questa presa di posizione heideggeriana.

Perciò, scrivendo a Vossler da Meana di Susa il 10 agosto 1933, Croce esprime non molto stupore, perché da anni aveva avuto sentori preoccupanti del filosofo tedesco, bensì tantissima indignazione: «Ah quello Heidegger! Lo avevo indovinato già sei anni fa, attraverso quel che me ne fecero leggere suoi scolari e ammiratori italiani; e avevo preveduto che sarebbe finito come è finito».

E qui Croce non può evitare di paragonare la subordinazione della filosofia di Gentile alla politica fascista con quella di Heidegger alla politica nazista: «Bisognerebbe fargli conoscere il precursore che ha avuto in Italia nel Gentile. Ma forse lo Heidegger non saprà darsi agli affari con la sua filosofia pura come il Gentile ha fatto con l’atto puro. In questa politica pratica l’italiano è sempre di gran lunga superiore al tedesco: è meno ingenuo».

Dalla Spagna, il 25 agosto 1933, Vossler risponde denunciando i due “disastri intellettuali della nuova Germania”: «Il Heidegger, e accanto a lui quel Carl Schmitt, autore di libri di diritto pubblico e politico, discepolo, fino a un certo punto, di Georges Sorel, si van rivelando come i due disastri intellettuali della nuova Germania. Lo Schmitt mi pare anche più pericoloso».

Con il fenomeno Heidegger, secondo Croce siamo al tipico esempio di “cretinismo filosofico”, che egli aveva già diagnosticato in Italia con la filosofia gentiliana, in un articolo dal titolo Fissazione filosofica, apparso su La Critica del 1925: «In che consiste questa infermità, questa fissazione, questa ottusità, il “cretinismo filosofico”? Nel sostituire l’astratta proposizione filosofica alla concreta affermazione di fatto, e alla determinazione pratica e morale, che nel caso è richiesta; e dare l’una in iscambio dell’altra. Vizio che ha reso tante volte i filosofi oggetto di celia e di scherno da parte della gente di buon senso, la quale, sollecita di conoscere la verità delle cose particolari da cui è premuta e a cui s’interessa, vede il così detto filosofo avanzarsi in tono solenne e pronunziare una sentenza generale e astratta che, invece di rischiarare, sbalordisce, invece di dipanare, arruffa peggio di prima la matassa. Nel miglior caso, la gente sorride e considera il filosofo come un ingenuo o tale che abbia la testa nelle nuvole».

Ma torniamo al carteggio Croce-Vossler, su Heidegger e il nazismo. Il 30 agosto 1933, tra una disquisizione e l’altra con Vossler sulla Spagna e sul barocco, Croce conclude la sua lettera con una punta velenosa sull’incretinimento heideggeriano della Germania: «Il che non toglie che ora la Spagna possa prendere la direzione mentale dell’Europa, visto che la Germania incretinisce con Heidegger». Siamo al tema del “cretinismo filosofico”, già agitato contro l’uso politico della filosofia da parte di Gentile.

Acuta è la risposta di Vossler che, il 4 settembre 1933, sottolinea come Heidegger, accanto a una sua sterilità politica, goda di popolarità anche in Spagna con la frittura dell’ontologia in tutte le salse: «Strano come è forte qui nella Spagna moderna l’influenza di Heidegger, assai più in generale che in Germania. Tutti parlano di ontologia, che è una teologia mascherata, neo-mistica, neo-scolastica. In politica Heidegger non credo che possa far molto. I dittatori nostri s’infischian di teorie; son dilettanti puri senza gli ostacoli della riflessione».

Il caso Heidegger è fin troppo allarmante. E l’8 settembre 1933, Croce scrive pure ad Alessandro Casati una lettera tranchant: «Ho letto poi la prolusione dello Heidegger, che è vile, ma soprattutto è scema».

All’indomani, il 9 settembre, Croce torna a parlare, con lo stesso tono e con un certo spirito profetico, del caso Heidegger in un’altra lettera a Karl Vossler: «Ho letto poi per intero la prolusione dello Heidegger, che è una cosa stupida e al tempo stesso servile. Non meraviglio del successo che avrà per qualche tempo il suo filosofare; il vuoto e il generico ha sempre successo. Ma non genera nulla. Credo anch’io che in politica egli non possa avere alcuna efficacia: ma disonora la filosofia, e questo è un male anche per la politica, almeno futura».

Se dal privato delle lettere passiamo poi alle pagine crociane pubblicate sulla rivista La Critica del 1934, col titolo Un filosofo e un teologo, ci accorgiamo che lo stato d’animo di Croce e il suo giudizio severissimo sulle operazioni di “filosofico servaggio” prima di Gentile e poi di Heidegger, non sono affatto mutati: «Il prof. Heidegger, in un solenne discorso tenuto nell’occupare il rettorato dell’università di Friburgo (Die Selbstbeauptung der deutschen Universitäten, Breslau, 1933), non vuole che la filosofia e la scienza siano altro, per i tedeschi, che un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco […] E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia, senza con ciò recare nessun sussidio alla soda politica».

Ma torniamo ai nostrani “superatori” in servizio permanente, che un giorno seppelliscono il cadavere del nemico maledetto, e un altro giorno lo disseppelliscono macabramente, per imbastire lucubri processi e lanciare insulti e sputi contro uno scheletro da violare e oltraggiare.

E ogni volta sembra spaventosamente rinascere il famigerato Concilio cadaverico dell’897 d. C., quando, per volontà poco cristiana del poco caritatevole ma molto vendicativo papa Stefano VI, fu riesumato il cadavere del papa Formoso, che fu sottoposto a processo in una macabra messinscena, giudicato colpevole (ah, la giustizia! anche allora uguale per tutti, persino con i morti!) e così punito: gli tagliarono tre dita della mano destra, quelle con cui si suol benedire, fra grida disumane e animalesche fu gettato fuori dell’aula, e quindi trascinato tra mille offese per le vie della città, e infine, dopo strazi di ogni genere, buttato nel Tevere.

Insomma, un’anteprima della macelleria messicana!

Vivaddio, bisogna sempre uccidere i padri, lo so! E se per Gentile abbiamo fatto ricorso alla rumorosa e sbrigativa raffica di proiettili, per Croce abbiamo usato il veleno lento e silenzioso – versato quasi di nascosto – il veleno dello snobismo culturale, dell’esterofilia mostruosamente esasperata, della trivializzazione del pensiero del “nemico”.

E come sempre accade ed è accaduto in ogni tempo con i pensatori dichiarati “superati” e “maledetti”, nessuno più ha letto una paginetta di Croce, ma tutti ripetono pappagallescamente, nelle aule o nei giornali, le spocchiose liquidazioni di «don Benedetto», come gli acculturati si tengono in diritto di chiamarlo, manco facessero parte della servitù napoletana di allora, quando il domestico veniva spagnolescamente chiamato “creato”, e il padrone “don”.

Ora dico io: – Tu, caro il mio intellettuale, sei liberissimo di non leggere un solo rigo di Croce; ma, per amor del Cielo, abbi almeno il pudore di non trinciare a destra e a manca giudizi su “don Benedetto”!

E invece no, fai il gradasso. E nelle aule, davanti ai giovani, mentre hai condannato la Santa Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti, getti idealmente al rogo le opere dell’autore maledetto, come fece ad esempio un bello spirito di professore agli esami di maturità del 1959 nel liceo catanese “Spedalieri”, a pochi anni dalla morte di Croce.

Costui, ad un valente studente mio amico, che presentava alla maturità una tesina sull’Estetica di Croce, ebbe a rispondere – con insolente mancanza di rispetto verso se stesso e verso il giovane (non certo verso il filosofo napoletano!) – che Croce era definitivamente morto e sepolto. E così non aprì nemmeno la discussione, e cestinò brutalmente lo studente e la tesina.

Esasperato estremismo da giustificare e collocare nel calore della polemica anti-crociana degli anni Cinquanta? Forse. Ma soprattutto è, in certi “superatori”, una penosa tendenza allo psittacismo, correlativa alla mancanza di capacità critica e di onestà intellettuale.

E se ci spostiamo in avanti, e precisamente al 1990, troviamo ancora una professoressa – una Giovanna d’Arco della tolleranza e della libertà di pensiero – che al liceo catanese Cutelli non metteva sistematicamente in programma (per sua aperta ammissione) Luigi Pirandello, perché (udite, udite!) il drammaturgo siciliano (di valore mondiale) era fascista!

Dobbiamo aggiungere che tanti professori sono, però, arrivati tardi all’«eroico furore» di stracciare i libri di Croce o di snobbare le idee del filosofo napoletano. Sono arrivati in enorme ritardo, perché, ahimè, già Mussolini, nel 1925, si era vantato di non aver mai letto una pagina di Croce.

E il filosofo napoletano gli aveva risposto per le rime: «L’on. Mussolini ier sera, nel Congresso fascista, ha suscitato l’allegria dell’assemblea con la sua dichiarazione di “non aver mai letto una pagina” del sottoscritto. In questo modo, e certo senza averne intenzione, l’on. Mussolini è venuto a stabilire una mia effettiva superiorità, perché io ho letto e leggo le pagine sue e conosco bene quello che egli pensa, ed egli, invece, non conosce me […] Ma persino l’on. Mussolini non può mantenersi immune dai miei giudizi su cose letterarie. Ecco: ho innanzi una bella edizione dei Promessi Sposi, curata dallo scolopio e fascista padre Pistelli, e leggo in fondo al volume tre epigrafi sul Manzoni, una del Goethe, una del Verdi, e la terza dell’on. Mussolini. Ma quella dell’on. Mussolini è tolta di peso da un mio noto scritto sul Manzoni».

D’altronde, più volte Croce ebbe modo di raccomandare ai suoi “superatori” di ogni stagione e di ogni colore di non sprecare soverchie energie nell’improba fatica di superare un filosofo che considera la filosofia, e soprattutto la sua filosofia, come qualcosa che non è definitivo.

Il sistema filosofico? Certamente il sistema può diventare una gabbia, oppure una stanza mentale arredata una volta per tutte, oppure qualcosa di estrinseco a cui assoggettare la libera affermazione del pensiero. Ma il sistema può essere, invece, la necessaria e vitale e intima esigenza di sistemazione concettuale di un pensiero razionale che, in quanto tale, non può essere né sfrenata libertà della follia, né gioco di fantasia, né mera espressione poetica.

Comunque sia, un sistema filosofico non è mai definitivo, perché nulla è definitivo, non solo nel processo dialettico del pensiero, ma anche nello svolgimento storico di qualsiasi attività: «Nessun sistema filosofico – scrive Croce – è definitivo, perché la vita, essa, non è mai definitiva. Un sistema filosofico risolve un gruppo di problemi storicamente dati, e prepara le condizioni per la posizione di altri problemi, cioè di nuovi sistemi. Così è sempre stato e così sarà sempre […] Ogni filosofo alla fine della sua ricerca intravede le prime incerte linee di un’altra, che egli medesimo, o chi verrà dopo di lui, eseguirà. E con questa modestia che è delle cose stesse, e non più del mio sentimento personale, con questa modestia che è insieme fiducia di non aver pensato indarno, io metto termine al mio lavoro, porgendolo ai ben disposti come strumento di lavoro».

A questo punto, ti rivelo un segreto da custodire gelosamente. Ascolta: il “vecchio” Croce nacque il 25 febbraio 1866, a Pescasseroli, sotto forma di neonato che vagiva e cercava il latte materno.

Scampato miracolosamente al terribile terremoto di Casamicciola nell’isola di Ischia (1883), l’allora diciassettenne Benedetto perse in un sol colpo entrambi i genitori e la sorella. E, a seguito di una tale gravissima disgrazia, lo accolse a Roma, in qualità di tutore, lo zio Silvio Spaventa, uno dei politici italiani più in vista e più attivi del Regno d’Italia nella seconda metà del XIX secolo.

Ti dico subito che il giovane Croce fu più di una volta motivo di scandalo nell’Italia umbertina di fine Ottocento.

Cominciamo col dire che a Roma, su consiglio dello zio Silvio, che voleva far di lui un diplomatico, egli s’iscrisse all’università in Giurisprudenza. Non diede neppure un esame e, ovviamente, non si laureò mai!

Era forse uno scapestrato o un fannullone che intendeva vegetare all’ombra del potente zio? Niente affatto. Benedetto era un giovane serio, metodico e ordinato, che voleva studiare, e studiare bene, quello per cui era portato. E quindi andava bensì all’università di Roma, ma per ascoltare le appassionate e appassionanti lezioni di Antonio Labriola, professore di Filosofia morale.

Labriola non era un professore; era un maestro. Un vero maestro che, senza ostentare la gravitas, che è di molti dotti, aveva l’animus del maestro, che è di pochi. Quindi, non enfasi declamatoria nelle affollate lezioni di Labriola, non tono cattedratico o predicatorio, ma stringenti connessioni logiche e osservazioni pungenti.

Come ogni maestro, Labriola continuava le sue lezioni con gli studenti per la strada, poi nel retrobottega della libreria Loescher oppure nella saletta del caffè Aragno. Insomma, Labriola non insegnava formulette, che s’accartocciano e s’imbozzolano e poi figliano altre formulette. Egli, secondo il motto kantiano, non insegnava pensieri, ma insegnava a pensare.

Dopo tre anni di permanenza a Roma, il ventenne Benedetto tornò a Napoli … senza laurea ovviamente. Uno scandalo per allora! Ma lo zio Silvio lasciò fare, perché conosceva bene la serietà e l’operosità del suo valoroso nipote.

«Tornato che fui a Napoli nel 1886; – ricorderà Croce – quando la vita si fece più ordinata, il mio animo più sereno e talvolta quasi soddisfatto, ma ciò accadde perché, lasciata la politicante società romana, acre di passioni, entrai in una società tutta composta di bibliotecari, archivisti, eruditi, curiosi, e altra onesta e buona e mite gente».

Era forse un giovane “topo di biblioteca”, seppellito fra polverose carte, cartelle e documenti, senza mai vedere la luce del giorno e la luce della vita? Tutt’altro. Il giovane Benedetto girò mezza Europa, andò in Germania, in Spagna, in Francia e in Inghilterra, anche per mettere in pratica la sua conoscenza del tedesco, dello spagnolo, del francese e dell’inglese, sempre abbinando l’utile dell’erudito e del letterato al dilettevole del viaggiatore.

Così, il giovane Croce s’immerse nello studio erudito, frequentò gli archivi e le biblioteche di una Napoli che era una miniera di documenti preziosi. Diventò in breve un apprezzato studioso che non ha il fiato corto del topo di biblioteca, ma dimostra sempre di elevare la materia inerte dell’erudizione ai livelli della ricostruzione intelligente della realtà.

In altri termini, in quegli anni Croce acquista un rigoroso metodo di ricerca sul campo, un metodo di fedele considerazione del documento, che gli servirà costantemente nel suo futuro di filosofo e di storico, e che lo preserverà dal “fare filosofia” costruendo bellissimi castelli in aria o schemi tanto puri quanto astratti.

A tal proposito, bisogna aggiungere che Croce ebbe sempre presente, come modello negativo e come pericolo da evitare, il tipo di filosofia popolare, triviale anzi che no, di quel prete napoletano, professore di filosofia, «prete di mestiere e frequentatore del botteghino del Corpo di Napoli, dove dava ai passanti i numeri del lotto», che ai suoi discepoli illustrava le idee platoniche collocate nell’iperuranio, paragonandole in modo immaginifico a tanti «casicavalle appise», a tante provole di caciocavallo appese.

Comunque, sulla solidità dell’impianto filosofico crociano si ha la prova quando, nel 1893, il ventisettenne Croce affronta filosoficamente il problema della storia e dell’arte, nella dissertazione La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. Anche questo è uno scandalo, rispetto al positivismo imperante di fine secolo. Ed è la sua consacrazione di astro nascente nell’orizzonte culturale nazionale.

Ma lo scandalo continua quando, rivelando per la prima volta il suo genio di talent scout e di organizzatore culturale, a ventinove anni si fa editore del primo saggio italiano sul marxismo. Nel 1895, infatti, Labriola («il migliore conoscitore del marxismo che ci sia mai stato in Italia e forse nell’Europa tutta», ebbe a dire Croce) gli invia un suo manoscritto, In memoria del “Manifesto dei comunisti”, affinché trovi un editore a Napoli. Il giovane Croce fiutò il valore dell’opera labrioliana, si offrì di pubblicarla a sue spese, e Labriola accettò. Da quel momento il Croce editore fece pubblicare queste altre opere di Labriola: Del materialismo storico: delucidazioni preliminari (1896); e Discorrendo di filosofia e socialismo (1898).

Quel che più vale, però, è che in questi stessi anni di fine Ottocento, Croce fa i conti con Marx e il materialismo storico, scrivendo dei saggi che raccoglierà nel famoso volume, Materialismo storico ed economia marxistica.

Con ciò egli acquista prestigio e fama internazionale, tanto che il francese Georges Sorel e il tedesco Eduard Bernstein lo tengono in considerazione, e con lui dialogano, nell’opera europea di revisione del marxismo. Anzi bisogna dire che il trentenne Croce divenne amico del quarantottenne Sorel, con cui intrattenne un interessante carteggio, e fu collaboratore sin dal primo numero della rivista Devenir social, che il teorico del sindacalismo rivoluzionario aveva fondato nel 1895.

Però lo scandalo per i benpensanti di fine Ottocento si ampliò, quando il giovane Croce passò per un sovversivo, addirittura per un socialista!

E tutto questo in un’Italia che stava conoscendo i moti di Milano del maggio 1898, quando fu dichiarato lo stato d’assedio; quando le truppe italiane dell’italiano generale Bava Beccaris spararono più volte su dei lavoratori italiani; quando per lunghi giorni a Milano si videro i cannoni dell’esercito piazzati all’inizio di corso Sempione o a piazza Duomo o all’arco di Porta Ticinese.

Giornate di dura repressione a Milano, che videro dei morti e che culminarono nell’arresto di circa 2000 persone, di cui 1140 deferite al tribunale militare di guerra. Giornate in cui, più che di sospensione della libertà, si può parlare di demolizione della libertà, quando tre deputati (Filippo Turati, Luigi De Andreis e Oddino Morgari), malgrado l’immunità parlamentare, vengono imprigionati e poi posti sotto processo.

E certamente il nostro Benedetto qualche occasione di allarme e di scandalo la offrì ai benpensanti: ad esempio, apparve fra i sottoscrittori del famoso giornale socialista l’Avanti. Inoltre, il 2 agosto 1898, scrisse una lettera a Vilfredo Pareto, protestando per i processi politici imbastiti a Milano contro Filippo Turati e altri socialisti. Addirittura, per le feste natalizie, egli inviò a Turati ancora in carcere un biglietto di visita con gli auguri! E poiché il biglietto venne respinto dalle autorità carcerarie, il nostro Benedetto protestò pubblicamente nel Mattino di Napoli, ribadendo di avere inviato gli auguri «al mio amico on. Filippo Turati».

Riuscì persino a scandalizzare Labriola, che non si dava pace nel vedere il giovane “socialista” fornire armi teoriche all’odiato revisionismo, tradendo così le sue aspettative e quelle del socialismo. E spesso, lamentando l’imperturbabilità di Croce verso la crisi del marxismo, lo definiva, con l’affetto di sempre, «epicureo contemplante».

Ma, diciamolo pure, la peggiore e più pesante pietra dello scandalo (un vero e proprio macigno!), che Croce lanciò fra i piedi della buona società umbertina di fine Ottocento, fu quella di avere avuto per tantissimi anni una libera relazione amorosa, more uxorio, con Angelina Zampanelli.

Si conobbero casualmente a Salerno, nel 1893, e scoppiò un amore impetuoso ma duraturo e profondo. Benedetto aveva ventisette anni ed era già uno studioso di caratura nazionale. Angelina aveva ventitré anni. Era una ragazza romagnola, di Savignano in provincia di Forlì, bella, alta, estroversa, intelligente, di un’intelligenza vivace e spigliata, anche se non sostenuta da molti studi.

Durò esattamente vent’anni quella liaison intessuta di un amore straordinario, che s’inverava e s’incarnava nell’ordinaria quotidianità della vita trascorsa insieme sotto lo stesso tetto. Un miracolo vissuto per vent’anni, e che finì solo con la morte di lei, nel 1913, per una grave broncopolmonite.

Per vent’anni, Angelinella, come la chiamava Benedetto, fu la padrona di casa, fu la compagna di colui che andava scrivendo l’Estetica, la Logica e la Filosofia della pratica.

E fu – la loro unione amorosa – una miscela di vitalità romagnola e di prontezza intellettuale partenopea. I due innamorati viaggiarono molto: visitarono Parigi, Firenze, fecero villeggiature in Romagna e in Abruzzo, andarono a Perugia, a Palermo (a trovare Giovanni Gentile e famiglia), sul lago Maggiore, in Svizzera. Anche fuori di casa, Angelina si confermava “vivace”, “fresca”, “allegra”, così come la descriverà più tardi, rimpiangendola, il filosofo.

Agli occhi di tutti, e con evidente compiacimento di Benedetto, la giovane Angelina è la “signora Croce”. Addirittura lei stessa firma alcune lettere come “Angelina Croce”.

Bracco, Di Giacomo, Fortunato, Torraca, Schipa, Ricciardi – tutti amici e frequentatori di casa Croce – la ammirano e le vogliono bene. Addirittura non le mancano ammiratori e corteggiatori, puntualmente e inesorabilmente scoraggiati dall’amorosa dedizione per il suo Benedetto. Restarono affascinati, ad esempio, Renato Serra e Giuseppe Prezzolini. Quest’ultimo la definirà «donna di imperiale bellezza».

Ebbe pure un altro non trascurabile merito: “alleandosi” con Erminia Nudi, la moglie di Giovanni Gentile, Angelina aggiunse un tratto di simpatia e un timbro di umanità al sodalizio troppo filosofico di Croce e di Gentile.

Sicché le stesse lettere dei due grandi intellettuali passano a volte dal filosofico al familiare: «Carissimo Croce – scrive nel 1903 Gentile – ringrazio, anche a nome di mia moglie, l’ottima Donna Angelina dell’affettuoso pensiero avuto di metterci a parte de’ suoi capponi natalizi. Serviranno alla festa che vorremmo fare per lo scampato pericolo della nostra adorata Teresina per cui ieri passammo ore terribili di angoscia».

Insomma Angelina sapeva bene che alcuni galli avrebbero allontanato per un po’ lo spettro della fame in casa Gentile, e forse anche l’incubo dei concorsi universitari per il filosofo siciliano.

Angelina e Benedetto vanno a Palermo, dove Gentile insegna all’università, e, pur soggiornando in albergo, trascorrono tutte le giornate siciliane assieme a Erminia e Giovanni. «Questo viaggio in Sicilia – scriverà Croce al ritorno – è stato per me un vero riposo e conforto dello spirito e del corpo; ma il ricordo più dolce che me ne resta è quello di te e della tua cara famiglia. Sono partito dalla Sicilia col desiderio di ritornarci; e la visita annuale a Palermo sarà nelle mie abitudini fino a quando tu non te ne verrai di nuovo a Napoli».

E quando i due intellettuali s’immergeranno nel fiume dei problemi filosofici o, peggio ancora, annasperanno tra i flutti degli affanni concorsuali e accademici di Gentile, allora Angelina prende carta e penna e scrive direttamente ad Erminia, a cui fa da madre e da sorella: «Stamane vi ho spedito due pacchi, con un taglio di vestito per la cara Teresina, ed un altro per Federico con dei cioccolatini per i gemelli [sono Gaetano e Giovanni; e, oltre a questi gemelli, arriveranno ancora altri due figli in casa Gentile!]. Mi permetto darvi alcune spiegazioni riguardo ai vestitini. Quello di Federico dev’essere alla marinara, col gran collo bianco; quello di Teresina a grandi cannoni».

E Benedetto Croce? È forse un malfermo vecchietto, vacillante col bastone, avvolto in una vecchia zimarra, come l’iconografia dominante lo ha malignamente immortalato per sempre?

Facciamocelo descrivere da un testimone d’eccezione, cioè dall’autorevole Fausto Nicolini, che per la prima volta, il 1° giugno 1903, conobbe un Croce trentasettenne, di cui rimase amico intimo e fedele per tutta la vita.

«Ero così ignaro – scrive Nicolini – di qualunque particolare concernesse la persona del Croce, che, quando entrai nell’ampia sala ov’egli lavorava, avevo quasi la certezza di trovarvi un vecchio che contasse su per giù il triplo dei ventiquattr’anni che io avevo allora. Invece, mi vidi venire incontro, agile, vivace, gioviale, sorridente, un uomo dai baffetti biondi: un uomo che, dall’aspetto molto giovanile, sebbene contasse allora trentasette anni, mostrava di non essere giunto ancora nel mezzo del cammin di nostra vita; un uomo, infine, che indossava un gaio vestito chiaro dal taglio inappuntabile, non senza che sotto la giacca sbottonata, si scorgesse, giusta la moda del tempo, un sobrio gilet a fantasia, sormontato, se è lecito dir così, da un alto colletto inamidato».

Dalle pennellate di Nicolini esce fuori il vivido ritratto di Croce. Ma io voglio aggiungere che il nostro Benedetto, sin dai suoi primissimi passi a Napoli, al ritorno da Roma, si rivelò come un giovane che alla verde età abbinava la maturità e il buon senso.

Capace di diffidenza e confidenza, egli sapeva legare motti spiritosi alle parole serie. Gran fumatore e gran lavoratore (fumò sempre; e lavorò sempre 10/12 ore al giorno), era metodico e ordinatissimo, ma non freddo o indifferente. Era dotato di una memoria spaventosa; e si manifestava lucido, equilibrato, sorretto da una logica ferrea, ma al contempo appassionato e talora irascibile.

Memorabili le sue sfuriate. Pensa che un giorno, mentre due amici attendevano Croce nel suo studio, uno dei due, scovando sul monumentale tavolo il volume crociano della Logica, ebbe a dire all’altro in puro dialetto napoletano: «Quando penso a certe sue sfuriate che, in questa stessa stanza, culminavano nella sgridata “In questa casa non si ragiona più”, non riesco a capacitarmi come abbia potuto scrivere proprio qui la Logica, che è un inno alla ragione».

Impegnato per qualcosa, fu necessariamente contro qualcos’altra: da qui le sue grandi battaglie per la libertà, e contro i suoi nemici: dal positivismo al cattolicesimo, dal fascismo al comunismo e al nazismo.

Dello “scandaloso” Croce voglio segnalarti un particolare poco noto. In gioventù, Croce arrivò persino a sfidare a duello il duca Riccardo Carafa di Andria, per una divergenza sulla figura dantesca di Piccarda. Naturalmente, anche in quel duello valeva il detto francese cherchez la femme, solo che la donna per cui duellare era la casta e beata Piccarda Donati!

Orbene, vallo un po’ a dire a coloro che credono che Croce sia stato sin dalla nascita un vecchio catarroso e malmesso. Inutile aggiungere che il nostro Benedetto perse il duello al primo sangue, nonostante avesse preso lezioni di sciabola!

E avrebbe sfidato a duello anche Gabriele D’Annunzio, se quel giorno a Napoli lo avesse avuto tra le mani. Mi spiego. Nell’aprile 1892, nella redazione del Corriere di Napoli, Croce conobbe personalmente non solo Carducci ma anche D’Annunzio. Quest’ultimo aveva chiesto a Croce la cortesia di fargli da cicerone all’indomani, per una visita alla chiesa di santa Chiara. All’indomani Croce va puntualissimo, come suo solito, all’appuntamento. E aspetta per più di un’ora il divino poeta che, come suo solito, assume impegni con faciloneria, e poi lascia in asso amici, conoscenti e creditori.

D’altronde, essendo l’incarnazione del mito del superuomo, il nostro super D’Annunzio era superiore alle comuni regole della buona creanza, per cui non si degnò non solo di farsi vivo, ma neppure di avvisare Croce. Ovviamente, col carattere di Croce, quello fu il primo e ultimo incontro con D’Annunzio.

Di tempra robusta, solo negli ultimi anni della vecchiaia accettò di riscaldare la propria casa. Faceva perciò soffrire il freddo ai suoi ospiti al punto tale che, un giorno, il grande poeta e amico Salvatore Di Giacomo, vedendo su un banco della Biblioteca Nazionale di Napoli il volume della crociana Filosofia della pratica, non poté fare a meno di esclamare con divertente ironia e in dialetto napoletano: «Filosofia della pratica! Ma se a casa sua si muore di freddo!».

Nei pomeriggi domenicali, casa Croce si apriva agli amici sotto la regìa di donna Angelina. Allora la monumentale scrivania di Croce si trasformava miracolosamente da tavolo di lavoro in tavolo da pranzo, con al centro un trionfale vassoio pieno di paste. Accanto facevano da scorta tante coppe piene di altre prelibatezze, mentre un altro grande vassoio accoglieva un esercito di tazze da caffè.

Qui s’incontravano letterati, matematici, poeti, scrittori, tutti diversi e tutti accomunati dall’amicizia e dalla simpatia partenopea. E la festosa riunione si trasformava in godimento, quando Salvatore Di Giacomo, vivamente pregato e invocato, accettava di fare ascoltare qualche sua nuova poesia.

Ad ogni modo, tutto ciò non deve farti trascurare che i vent’anni di vita con Angelina non furono mai digeriti dalla buona società del tempo. Basti pensare che Fausto Nicolini, amico intimo del filosofo e di Angelina, nella sua monumentale biografia di Benedetto Croce, non cita mai Angelina Zampanelli.

Ho letto e riletto quella biografia tante volte, ma non sono riuscito a trovare un rigo, un accenno, un’allusione per quella che fu, per vent’anni, sostanzialmente e intimamente la moglie di Croce. Disperato, ho compulsato più volte anche l’Indice dei nomi, ma invano! Nicolini ti parla persino del gatto Filippo, il gatto bianco e nero che spadroneggiava in casa del gattofilo Croce, ma mai di Angelina.

In quelle stanze, alla morte di Angelina, non rimase nulla di quella bella e intelligente e vivace romagnola che portò con sé, per sempre nel suo cuore, il cuore di Benedetto. Come accadde a Eloisa con il suo Abelardo.

Eppure Croce non manca di scandalizzarci ancora una volta. Infatti, a cinque mesi appena dalla morte di Angelina, il quarantottenne Croce decide di sposare la trentaquattrenne Adele Rossi, una signorina torinese che in precedenza egli aveva conosciuto per “invigilare” sulla preparazione della tesi di laurea della giovane piemontese.

Probabilmente, stando ai documenti a nostra disposizione, Croce si sposerà non col cuore, ma con la ragione e col terrore della solitudine. A prova di ciò, ecco cosa egli scrisse in quei giorni a una sua cugina, considerata come una sorella: «Mia cara Teresina […] io ho pensato con molta calma e serenità, in questi ultimi mesi, sulla condizione nella quale mi trovo, e specialmente per l’avvenire […] Ora l’idea di una vecchiezza solitaria mi spaventa. Può accadermi di essere colpito, per esempio, da una debolezza d’occhi e dovrò sospendere le letture e gli studi […] Sicché ora che sono ancora in tempo mi conviene ricostituirmi una famiglia, avere accanto a me persona che mi sia devota. Per queste ragioni io mi sono determinato a sposare quella buona signorina Rossi di Torino, che tu conosci. […] Era amica della povera Angelina, e non mi parrà, prendendo lei, d’introdurre un’estranea in casa, e serberò vivi tutti i miei ricordi».

Da notare in questa lettera alcuni particolari significativi: nel primo caso, Croce scrive «mi conviene», quasi a confessare l’utilità, e non certo il sentimento, a proposito del matrimonio con Adele Rossi; nel secondo caso, egli scrive «ricostituirmi una famiglia», ossia ri-costruire, costruire di nuovo una famiglia, giacché per lui ne era già esistita una con Angelina; e infine «serberò vivi tutti i miei ricordi», per affermare la sua volontà e il suo bisogno di conservare tutto ciò che ricorda la sua amata Angelinella.

A dire il vero, forse Croce avrà serbato in sé tutti i suoi ricordi di un passato felice. Di sicuro, però, in casa Croce non rimase alcuna traccia di Angelina. Tranne un dipinto, rimasto nella biblioteca crociana di Palazzo Filomarino, che raffigura l’«imperiale bellezza» di donna Angelina nello splendore dei suoi ventinove anni, in un quadro realizzato da Salvatore Postiglione.

Sembra quasi che sia avvenuto un tacito accordo fra Croce e la sua energica e ferma moglie Adele Rossi: a lei, libero campo in tutta la casa; a lui, il dominio della biblioteca.

E forse, nella solitudine del suo scrittoio, il filosofo avrà tante volte sollevato gli occhi dai libri a contemplare quel ritratto dell’amata, e avrà forse meditato, lui filosofo, sui perfidi capricci del destino, che ti dà l’amore quando non te lo aspetti, e poi te lo strappa crudelmente, quando tu senti di non poterne più fare a meno.

E non a caso nel 1915, a due anni di distanza dalla morte di Angelina, Croce pubblicherà sulla sua rivista La Critica un piccolo capolavoro, un Frammento di etica dal titolo I trapassati, dove, nel riflettere sulla perdita delle persone care, la commozione e il dolore e i ricordi troppo pungenti prendono prepotentemente il sopravvento sulla serenità della filosofia.

«Nel suo primo stadio – scrive il filosofo – il dolore è follia o quasi: si è in preda a impeti che se perdurassero, si conformerebbero in azioni come quelle di Giovanna la pazza. Si vuol revocare l’irrevocabile, chiamare chi non può rispondere, sentire il tocco della mano che ci è sfuggita per sempre, vedere il lampo di quegli occhi che non più ci sorrideranno e dei quali la morte ha velato di tristezza tutti i sorrisi che già lampeggiarono. E noi abbiamo rimorso di vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di proprietà altrui, vorremmo morire coi nostri morti».

De te fabula narratur, verrebbe da dire con il grande poeta Orazio.

Comunque, Croce si sposerà con Adele Rossi il 7 marzo 1914, nella chiesa di Santa Giulia a Torino. E da questo matrimonio Croce avrà le figlie Elena, Alda, Lidia e Silvia, e l’unico figlio maschio, Giulio, morto prematuramente nel 1917.

Certamente amava studiare il nostro Benedetto, ma amava vivere, amava viaggiare, amava l’amicizia e … non disdegnava le grazie femminili.

A tal proposito, la dice lunga una vecchia foto in bianco e nero del 1889, che raffigura un Croce ventitreenne in Spagna (nel patio de los leones dell’Alhambra di Granada), ricco, elegante, scapolo, assieme a Francesco Capece-Galeota, al vice-console italiano a Granada, Eduardo Soria, al console italiano a Cadice, marchese Santasilia, e a due belle ragazze, figlie del marchese. Ebbene, per tardiva ammissione del vecchio Croce, sappiamo che il ventitreenne studioso, durante le sue vacanze spagnole, ebbe un flirt con una di quelle fanciulle.

Ti confido quest’altro particolare “scandaloso”: Croce, da buon filosofo, non fu mai superstizioso; ma, da buon napoletano, detestava ed evitava il numero 17. Razionale sì, ma non si sa mai! Pensa che, nel 1945, egli decise di por fine alla sua rivista La Critica, che usciva ogni due mesi, e di sostituirla con i Quaderni della Critica, che usciranno con numeri quadrimestrali. Ebbene, quando si avvicinò il tempo del Quaderno n. 17, Croce preferì fare un numero doppio del fascicolo n. 16.

Un altro scandalo scoppiò, quando, nel 1910, Croce fu nominato dal re senatore del Regno, su proposta del Presidente del Consiglio Sonnino. A quarantaquattro anni, era il più giovane senatore del Regno d’Italia! Tanta soddisfazione, tanta contentezza fra gli amici e gli estimatori, ma anche tantissimi mugugni, invidie e dissensi.

Ma come mai tanto merito da essere nominato senatore nel 1910? Vediamo un po’, e consideriamo alcuni meriti culturali del novello senatore, ossia la produzione crociana limitatamente al primo decennio del Novecento. Ebbene, già nel 1909 Croce ha completato la sistemazione della sua Filosofia dello Spirito con tre opere che lo collocano di diritto fra le stelle di prima grandezza nel firmamento filosofico mondiale: l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale; laLogica come scienza del concetto puro; e la Filosofia della pratica. Economica ed Etica.

A tal proposito, consideriamo il giudizio formulato a caldo da Karl Vossler sul capolavoro crociano Filosofia della pratica. Il 25 novembre 1908, da Heidelberg, Vossler scrive a Croce per chiedergli, fra l’altro, una copia della Filosofia della pratica: «Mi giunge in questo momento il nuovo fascicolo della “Critica”, ove vedo annunziata la pubblicazione della tua Filosofia della pratica. Rallegramenti! Potresti mandarmene una copia?».

Nel giro di circa un mese, il libro arriva a destinazione (non finirò mai di stupirmi della celerità postale, a partire dalla civiltà mesopotamica sino al Regno d’Italia!) e Vossler ha il tempo di leggerne già metà.

Sicché, il 9 gennaio 1909, il famoso filologo tedesco, gran conoscitore di cose filosofiche, scrive un giudizio entusiasticamente positivo sulla Filosofia della pratica, e al contempo tratteggia, con due pennellate efficaci, la differenza tra il carattere umano, quello inumano e quello superumano dei libri di filosofia.

«Sto leggendo – scrive Vossler, rivolgendosi a Croce – la tua Filosofia della pratica. Me l’assaporo piano piano, perché non vorrei che finisse troppo presto il piacere della lettura. Ne ho letto la metà. È bello, è stringente ed è anche molto simpatico, vivo, vivace, arguto, grazioso, forte e buono questo tuo libro. Insomma, è un libro di filosofia umano, ove i nostri o sono inumani come quelli di Nietzsche e Schopenhauer, o sono superumani come quelli di Kant, Fichte e Hegel; non parlo degli altri che sono noiosi».

Perché tu possa avere un’idea della fama mondiale che nel 1907, a quarantuno anni, ha raggiunto Croce, tieni presente che il grande filosofo tedesco Wilhelm Windelband, nell’organizzare il III Congresso Internazionale di Filosofia del 1908 in Heidelberg, prega Vossler di “prenotare” Croce per una delle relazioni di apertura.

Infatti, in una lettera del 13 ottobre 1907, Vossler preannuncia a Croce l’intenzione di Windelband di offrirgli una vera e propria tribuna mondiale della filosofia: «Ieri è venuto a trovarmi il prof. Windelband, mi ha chiesto il vostro indirizzo e mi ha pregato di esporvi la sua domanda. Probabilmente vi scriverà egli stesso. Nella prima o seconda settimana del settembre dell’anno venturo avrà luogo qui a Heidelberg il congresso internazionale di filosofia. Vi sarà, come di solito, una sezione generale e altre sezioni speciali. Nella sezione generale il Windelband vorrebbe che si tenessero quattro conferenze di indole piuttosto generale: una in lingua tedesca, una in francese, una inglese e una italiana. Gli importerebbe moltissimo di guadagnare voi per la conferenza generale in italiano, essendo persuaso di avere in voi il più cospicuo rappresentante del pensiero filosofico in Italia».

A questo punto, tu interrompi la lettura della lettera, per osservare che la lingua italiana stava allora alla pari con le altre grandi lingue europee. Neppure l’Europa di oggi è arrivata a tanto affratellamento! Merito di Windelband? Demerito dell’Europa di oggi? Merito di Benedetto Croce? A me sembrano plausibili tutte e tre le ipotesi insieme.

Ma torniamo alla lettera di Vossler a Croce: «Pel programma da lui [cioè da Windelband] tracciato gli riuscirebbe particolarmente comodo se voi voleste decidervi per un tema estetico, essendo persuaso che nessuna delle altre nazioni rappresenterebbe meglio di voi la cerchia estetica. Ed io mi associo di tutto cuore ai suoi desideri e vi prego di non rifiutarvi a questa specie di obbligo morale».

Croce accettò. E l’anno dopo, al III Congresso Internazionale di Filosofia del 1908, lesse in Heidelberg la sua comunicazione L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte.

Ma, nei primissimi anni del Novecento, accade in Italia un fenomeno culturale che fino ad oggi non ha pari. In breve, nel 1903, a trentasette anni, Benedetto Croce, che ha già un nome affermato in Italia e all’estero, fonda la sua rivista La Critica, che segnerà ininterrottamente e profondamente quasi mezzo secolo di vita culturale e politica italiana.

Senza dubbio, tante riviste sono nate prima e dopo La Critica – pensiamo a caso a Leonardo di Giovanni Papini, a Hermes di Borgese e Corradini, a Il Regno di Enrico Corradini, a Lacerba di Papini e Soffici, a La Voce di Giuseppe Prezzolini, a L’Unità di Gaetano Salvemini, a La Rivoluzione liberale di Piero Gobetti, a Gerarchia di Benito Mussolini, a Critica fascista di Giuseppe Bottai, a L’Italiano di Leo Longanesi, a Vita e Pensiero di Agostino Gemelli, a Il Ponte di Piero Calamandrei, a Il Politecnico di Elio Vittorini – ma nessuna rivista poté vantare la strabiliante longevità de La Critica.

Non si tratta però solo di un primato di durata temporale, dato che La Critica uscì puntualmente per quasi mezzo secolo, ogni due mesi, sempre il giorno 20, dal 1903 al dicembre 1944, coprendo un arco di tempo che va dall’Italia liberale, alla prima guerra mondiale, al fascismo e alla fine della seconda guerra mondiale.

In verità, il vero e proprio primato della rivista crociana sta nel suo carattere peculiare, nella sua anima. Insomma, mentre le altre riviste sono generalmente segnate dall’essere un magazine, una sorta di vetrina che espone i contributi di diversi autori su diversi argomenti, e che difficilmente si lancia in polemiche o in stroncature, La Critica è invece il “microfono” o la “tribuna” di Benedetto Croce e dei suoi pochi collaboratori, per realizzare un comune progetto culturale e politico di libertà, che va dalla battaglia contro il naturalismo e meccanicismo positivistico alla polemica contro il dannunzianesimo e l’attivismo, dalla battaglia contro il fascismo a quella contro il comunismo.

E quando il lettore andava ad acquistare La Critica, apriva la rivista con l’unico pensiero di vedere cosa riservasse Croce in quel numero. E fu un successo sin dal primo fascicolo, un successo sempre crescente. Pensa che, un mese dopo la pubblicazione del primo numero de La Critica, gli abbonamenti erano già 116, e divennero prestissimo 700. Per non dire che altre due-trecento copie venivano vendute nelle librerie.

Attenzione, questo accadeva non oggi, bensì in quell’Italia che la spocchia di certi intellettuali nazionalisti definì “Italietta”, in quella Italia che conosceva la fame e l’analfabetismo, che lesinava sul cibo e sul vestiario, che magari puzzava di cipolla, ma nell’anima odorava di bucato acqua e sapone.

E quando in Italia calò pesante la cappa della dittatura, e dominò una sorta di pensiero unico dove il duce aveva sempre ragione, e dove il fascista perfetto teneva fra le mani il libro e il moschetto, tantissimi antifascisti – per loro stessa ammissione – attendevano con ansia quel giorno 20 di ogni bimestre, per respirare un soffio di libertà sia nei saggi di alto livello scientifico, sia nelle Postille che Croce scriveva in ogni fascicolo, per polemizzare argutamente ora contro un personaggio della cultura o della politica, ora contro una tendenza filosofica o una moda letteraria.

Ebbene, dopo aver parlato del grande filosofo Croce nel primo decennio del Novecento, quando cioè si aggirava sui trentasette anni, ora tu immagina questo stesso Croce trentasettenne che passeggia con l’amico Fausto Nicolini, entrambi grondanti di sudore in un caldissimo pomeriggio estivo, al ritorno da una lunga passeggiata al Vomero. Immagina, dunque, il filosofo che si lancia di corsa alla conquista di una fontanella, per bere con una maestrìa da fare invidia al povero Nicolini.

«Come ammiravo – ricorda Nicolini – l’ancor giovane e molto giovanile Benedetto, quando si lanciava a passo di carica verso quell’invitante fontanina, ne premeva il pulsante e, chinato il capo, riusciva a far penetrare nelle proprie fauci tutto quel turbinio d’acqua, senza che se ne spargesse intorno ciò che si dice una stilla! E come mi sentii piccolo di fronte a lui una volta che mi venne il ticchio d’imitarlo in quel bere a garganella, col bel risultato d’immollarmi dalla testa ai piedi».

Ora dimmi tu, se non è uno scandalo sorprendere il “filosofo della libertà” in una delle sue tante bevute ristoratrici ai piedi di una pubblica fontanella, dopo una delle sue passeggiate. Che rozzezza, che zoticità, che volgarità! – esclamerebbe, pieno di orrore, ogni buon radical-chic dei nostri tempi.

Un vero e proprio scandalo è, invece, che la nostrana intellighentzia abbia scoperto da poco l’abominio delle leggi razziali nell’Italia fascista del 1938, misconoscendo i meriti di Benedetto Croce che, fin dal 1935, a forte rischio di repressione, prendeva pubblicamente posizione contro il razzismo, con un pezzo intitolato L’ibrida “germanità” della scienza e cultura tedesca apparso sulla sua rivista La Critica: «A che cosa è valsa la persecuzione che in Germania si è fatta e si fa degli ebrei? Ad apprenderci che una grandissima ed efficacissima parte di quella che ammiravamo come opera tedesca in critica, storia, filosofia, filologia, scienze naturali, matematica, tecnica, medicina, e in letteratura, e in musica e in pittura, è opera di ebrei. Non lo sapevamo, non ce ne accorgevamo, ma la persecuzione, separando il grano dal loglio, ci ha aperto gli occhi e ci ha indotti a enumerare; e le cifre dell’enumerazione s’ingrossano di giorno in giorno, e ogni giorno si scopre un nuovo ebreo in persone finora da noi reputate tedesche perché scrivevano in tedesco».

In questa rampogna contro i tedeschi in difesa degli ebrei perseguitati, si rischia di leggere erroneamente una sorta di ribaltamento crociano che esalterebbe una “superiorità” degli ebrei sui tedeschi. In verità, per il filosofo napoletano non esiste alcuna superiorità razziale, perché la radice di tutti gli uomini è nella «comune umanità» che tutti affratella e tutti pone sullo stesso piano di dignità.

Perciò Croce prosegue e chiarisce: «Superfluo aggiungere che quegli uomini che servivano al vero e al bello, e che noi ammiravamo, non erano poi né ebrei né tedeschi, e l’opera loro aveva origine non nella loro nazionalità, ma nella loro comune umanità, che ora è, in essi e per essi, offesa in noi tutti».

L’anno dopo, nel 1936, con amara ironia, e quasi profetando sugli scenari di sterminio razziale, Croce torna sulle colpe dell’intellighentzia tedesca nell’aizzare la furia bestiale che prende la Germania nazista: «L’etnologia o razzismo sta ora passando in Germania, per opera dei signori professori, così intelligenti, così fini, così saldi, così coraggiosi, come sogliono essere, dallo stadio della raccolta e dell’ordinamento del materiale a quello dello stabilimento della legge».

Ma in Germania non si fanno mancare nulla. Infatti, se è vero che i professori tedeschi, «così intelligenti, così fini, così saldi, così coraggiosi», forniscono armi teoriche alla politica di Hitler, è anche vero che i farmacisti tedeschi a congresso fanno la loro parte. Perciò Croce continua con accentuata ironia: «Alla quale consolazione, per altro, che offrono i professori, ci sarà chi preferisca l’altra che viene dal congresso in Stuttgart dai farmacisti tedeschi […] in cui l’oratore razzistico ha celebrato la gloria della Germania per avere affermato il carattere sopratemporale della razza […] onde l’oratore si augura che anche gli altri popoli presto entrino nella via segnata dalla Germania, se vogliono salvarsi come popoli. Fatevi bestie come noi, perché alle bestie è promesso il regno della razza. Questi farmacisti hanno, senza dubbio, del largamente comprensivo e del generoso. Un professore sistematicamente conseguente avrebbe proposto lo sterminio degli altri popoli».

Rischiava grosso Croce in quegli anni di crescente follia razzista. Addirittura, proprio nel 1939, a un anno dalle leggi razziali in Italia, il filosofo pubblica nella terza edizione de La Storia come pensiero e come azione, un capitolo intitolato Specie naturali e formazioni storiche, dove possiamo leggere questa pagina di solenne e inconfondibile condanna del “preconcetto delle razze”: «Ma all’uomo morale, all’uomo religioso tocca il diverso ufficio di sempre fronteggiare quello che ben si suole chiamare il “preconcetto delle razze”, combatterlo incessantemente e ristabilire di continuo la coscienza dell’unica umanità […] Se il giudeo Esdra separò i suoi a populis terrarum, il giudeo Gesù, innalzandosi alla comune e universale umanità, riconobbe nel samaritano l’uomo qui fecit misericordiam, come non l’avevano saputa fare né il sacerdote né il levita della sua gente. Nella vita morale, non Esdra ma Gesù è qui il maestro».

Il martellamento crociano contro il razzismo continua anche durante la guerra. E questa volta, sempre pubblicamente su La Critica del 1943, Croce capovolge la pretesa superiorità della razza tedesca in una ben fondata “coscienza di inferiorità” della Germania: «Non ho mai creduto, e di certo non crederò, ora per passionale ritorsione, al mito dei popoli e delle razze e dei loro caratteri indelebili […] Ma forse nella boria di superiorità dei tedeschi verso gli altri popoli, nella loro candidatura all’impero europeo o addirittura mondiale, nel loro vagheggiare sempre gli argomenti della forza, nel linguaggio di Brenno che è a loro consueto, c’è, più che dapprima sembri, un’ascosa tormentosa coscienza di inferiorità per non essere riusciti finora a gareggiare con gli altri popoli nella vivezza e chiarezza dell’intuito, nel tatto e nel garbo e nell’arte di comportarsi».

In una precedente occasione, recensendo su La Critica del 1940 l’opera di E. Grassi, Vom Vorrang des Logos (München 1939), Croce, con la scusa di dare dei suggerimenti a Grassi, fa notare la decadenza del pensiero tedesco dal 1830, cioè dopo la scomparsa di Hegel, sino alla seconda guerra mondiale; e, per contro, esalta la secolare “storia del martirio della filosofia italiana” per mano del trono e dell’altare: «Se al Grassi, italiano, il quale insegna a studenti tedeschi, dovessi io suggerire un tema nel quale avrebbe buon sussidio dagli studi italiani e che tornerebbe di utilità ai giovani tedeschi, gli direi di mettere a loro sotto gli occhi la storia della decadenza del pensiero in Germania, dimentico del suo gran passato, già poco dopo il 1830, via via, fino all’odierna miseria […] E se gli dovessi suggerire un altro tema d’importanza precipuamente morale […] gli direi di raccontare qualche volta ai giovani suoi uditori la storia della filosofia in Italia dal cinque all’ottocento, che fu chiamata la storia del martirio della filosofia italiana, tutta piena di roghi, carceri, esilii e persecuzioni d’ogni sorta, eroicamente affrontati per servire alla verità».

La mattina del 20 novembre 1952, venne la morte a interrompere il lavoro di Benedetto Croce.

Dico il “lavoro”, perché per lui la vita s’identificò sempre col lavoro, col fare qualcosa di utile a sé e agli altri.

Fu benigna la morte con Croce, perché a lui – che per quasi un secolo aveva lottato per la libertà e per la promozione morale e civile dell’Italia – proprio a lui essa risparmiò il dolore di vedere il declino di questa Italia e di questa Europa che stiamo conoscendo.

Fu veramente propizia la morte col filosofo della libertà, perché così non ebbe modo di esclamare: – Ma ne valeva la pena? Valeva veramente la pena perdere i migliori uomini dell’antifascismo, le più vive intelligenze e i più elevati caratteri morali, per questa Italia mediocre e vile, traballante palcoscenico di comprimari e di comparse?

Alla sua morte, fu salutato come un Padre della Patria.

Pur non avendo voluto funerali di Stato, dietro al feretro c’era il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi (il migliore Presidente sino ad oggi!).

Da tutto il mondo accorsero i giornalisti, per raccontare quel funerale che vedeva tanti uomini della politica e della cultura, e soprattutto la gente di Napoli, che non masticava filosofia, ma considerava il senatore Croce come un’istituzione.

Era il saluto dell’Italia a un Pater patriæ che, come tutti i padri, se ne andava mestamente fra l’universale ossequio formale e la sostanziale indifferenza dei suoi figli.

Per quasi un secolo insegnò a tante generazioni che «ogni pensatore non può essere passato senza frutto, senza deporre un elemento di verità che fa parte, consapevole o no, del pensiero vivo e moderno».

Esortò gli uomini a scoprire, nel fangoso fiume del passato, quelle pagliuzze d’oro che preparano e favoriscono il progresso del presente e dell’avvenire.

Ammonì tutti a conoscere i padri, che hanno avuto le loro ragioni e i loro torti, non certo per mummificarli, né per idolatrarli ciecamente, ma per superarli in una nobile e incessante e necessaria competizione, che deve tendere de claritate in claritatem, dal bene al meglio.

E invece, dopo Croce, l’Italia innalzerà stoltamente a proprio vessillo e a proprio motto quegli ingiusti e impietosi e perniciosi versi di Quasimodo: – Dimenticate i padri!

Beato Croce, che ebbe la fortuna di non vedere il frutto di tante battaglie e sacrifici manifestarsi in questa Italia anonima, che ha dimenticato i padri; che ha smarrito, col passato, la propria identità e la propria meta; e che ora galleggia pericolosamente nel nulla del presente e dell’avvenire.

 

                                                                              continua

 

 

 

 

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