Fanno tenerezza queste generazioni evergreen, che giocano a santificare e adorare la zucca vuota. Per loro fortuna, non hanno conosciuto la morte nelle trincee del Carso, nella steppa russa, nei lager nazisti o nei gulag comunisti; e giocano quindi a narrare la morte finta, inscenando una macabra danza di finti cadaveri sanguinolenti e sfatti. Un giorno, in uno smodato atteggiamento protettivo, a questi eterni giovani risparmiammo qualsiasi contatto col dolore, con la sofferenza e con la morte: per carità, - esclamavamo - evitiamo alla bambina (ventenne) di vedere la nonna morta; potrebbe subire un trauma! che se la ricordi invece quando era in vita e in salute la dolce nonnina, che già da tempo avevamo sbolognato in un ospizio.Pensavamo di fare il bene dei ragazzi, tenendoli lontani dal sacrificio, dal dolore e dalla morte, e invece li abbiamo paradossalmente tenuti lontani dalla vita. Sì, proprio così, perché questa benedetta vita reca nel suo grembo di madre-matrigna e il bene e il male, e la gioia e il dolore, e la mano benigna dell’amico e l’artiglio spietato dello stupratore, e la raggiante vita e la tenebrosa morte. Ci illudevamo; e intanto fabbricavamo un mostriciattolo: l’uomo a una dimensione, l’uomo che conosce solo il bene e, di conseguenza, è disarmato contro il male. Ed ora? Ora queste nostre creature, allevate nell’asepsi, avvertono un inspiegabile bisogno del negativo. Esse, prive di anticorpi e incuranti delle barriere asettiche che abbiamo innalzato attorno a loro, ora cercano inconsciamente la terra. E non già la gran Madre Terra, la divina Gea, che ai suoi figli dà forza di braccio e d’intelletto, bensì la nera terra dei cimiteri, dei sepolcri scoperchiati, che vomitano cadaveri e scheletri stupidamente vaganti nella notte.Meglio tardi che mai - dice qualcuno -, almeno ora fanno un bagno di concretezza! Nossignore, ora fanno solo una innocua carnevalata, un festival del travestimento, una saga della maschera, con finta morte, con teschi finti, con sangue finto, per giocare a data prestabilita scattando l’ennesimo originalissimo selfie.Certamente questi pargoletti non più implumi evitano di snocciolare la formuletta «dolcetto o scherzetto». E tuttavia mi aiutano a rivivere i tempi in cui i bambini veri aspettavano un anno intero quella notte tra l’uno e il due novembre, per avere dai loro morti un giocattolo o un dolcino. Beninteso, negli anni del dopoguerra i giocattoli andavano dalla spada di legno al fucile di latta, dalla modesta bambola al carrettino di legno. Anche per i dolci non c’era da scialare: per lo più fichi secchi e mostarda; poi, in modica quantità, ossa di morto, rame di Napoli e nzuddi.Quante volte sognai assieme a mio cugino i giocattoli che avremmo trovato quella benedetta mattina! Quanti giochi avremmo inventato, se i morti ci avessero regalato quella pistola di latta o quella spada di legno! E quante volte, con gli occhi lucidi, confidai a mia madre i miei sogni e le mie attese per un giocattolo, per quel particolare giocattolo! Lo confesso: sentivo più fame di giocattoli che di dolci! Lo ammetto: avevamo giocattoli poveri, ma eravamo ricchissimi di fantasia e creatività. Un manico di scopa fra le gambe diventava un focoso destriero che mi portava al galoppo per i campi di battaglia, dove facevo stragi di nemici con una spada di legno e con uno scudo fatato più prezioso di quello che Efesto forgiò per Achille: era bensì un vecchio coperchio di una grossa pentola di mia nonna quello scudo, ma vuoi mettere? era fatato e mi rendeva invulnerabile ai colpi dei nemici immaginari.Purtroppo quello scudo fatato non mi rese invulnerabile ai colpi tremendi della vita, perché Monna Morte passò troppo presto a casa mia. Passò troppo presto, e rapì mio padre - un giovane buono e forte, di ventotto anni - in un maledetto incidente sul lavoro. Così la mia povera mamma, a ventiquattro anni, rimase vedova per tutta la vita. E per tutta la vita, sino all’ultimo respiro, aspettò il momento in cui avrebbe potuto finalmente riabbracciare il suo ragazzo. D’altronde, lo aveva sempre aspettato il suo Mario, sia quando, fidanzatini, furono separati dalla chiamata al servizio militare; sia quando contavano i giorni del congedo, per potersi riabbracciare e vivere insieme e in pace. Invece, prima del congedo, il 10 giugno 1940, l’Italia entrò nella fornace della seconda guerra mondiale; e quel ragazzo restò in divisa grigioverde per tanti, troppi, lunghissimi anni. Così lei, a diciassette anni, tra una lacrima e un ricamo, continuò ad aspettare il suo ragazzo, che intanto fu mandato in Russia con il Corpo d’armata alpino sino alla zona di Stalino. A beffare il destino, quel ragazzo sopravvisse alla disastrosa ritirata in Russia. Si salvò, e tornò in un’Italia tormentata dalla fame, devastata dai bombardamenti aerei, e poi spaccata in due.Alla generazione dei miei genitori, i potenti della terra rubarono la gioventù. A mia madre, per giunta, la morte rubò il suo ragazzo. E lei, vedova a ventiquattro anni, rimase sola con il cuore spezzato e con un bambino di appena tre anni fra le braccia. Si può impazzire per amore? Si può morire per amore? Quella ragazza, nella folle idea di manifestare in modo assoluto il suo amore, il suo dolore e il suo lutto, per lunghissimi anni coprì di nero se stessa e il suo bambino, in attesa di morire. Non si dava pace, impazziva al solo pensiero che Dio fosse stato così ingiusto e spietato verso due giovani innamorati e verso il loro bambino. E così, pian piano, fu presa dal maledetto dèmone del cupio dissolvi. E voleva morire: dimagrì a vista d’occhio, si ammalò di nulla a motivo di tutto.Ci salvò la famiglia. Infatti, i miei giovani ed energici nonni materni, cioè i suoi genitori, subito dopo la morte di mio padre ci accolsero per sempre nella loro casa, che divenne la mia casa. Quasi ogni giorno, quella ragazza ventenne usciva con sua madre o per consultare medici o per andare al cimitero. E sembrerà assurdo, ma proprio quella seconda via strappò lentissimamente quella ragazza dagli artigli della morte: il cimitero divenne così l’altra casa della mia povera mamma. A piedi, con la pioggia o col sole che ardeva anche le pietre, lei andava a piangere sulla tomba di Mario, a parlargli, a baciare mille volte la sua foto. E la notte, con il bambino che le dormiva accanto, lei si svegliava con questa preghiera fra le labbra: «Dio! Fatemi morire!». Era la stessa preghiera accorata di Maria nella verghiana Storia di una capinera. Era l’eterna supplica dell’umanità dolente e calpestata, che non chiede più nulla se non di morire.Purtroppo è così. In un primo tempo, il dolore si tinge di follia. Si è in preda a impeti violenti contro la ragione, contro la natura e contro Dio: si vuol far tornare chi non tornerà più; si chiama chi non potrà risponderti; si abbraccia chi non potrà più stringerti fra le sue braccia, come Odisseo nell’Ade che per tre volte cerca di abbracciare la madre morta, la quale per tre volte gli sfugge «simile ad ombra o sogno». E vorremo sentire ancora una volta, per l’ultima volta almeno, il calore di quella mano che si è allontanata per sempre. Vorremmo vedere la luce di quegli occhi che un giorno ci parlarono, ci sorrisero, ci consolarono, e che ora il velo della morte nasconde in eterno. E intanto ti prende inesorabile il rimorso di sopravvivere alla persona amata che giace nel sepolcro; e ti sembra di consumare un’ingiustizia, rubando la vita a chi la vita non ha più. E monta la marea dei ricordi; e tornano i fantasmi di un passato non lontano, trapunto di risate e di amore, di canzoni, di baci e di corse per i verdi campi, e ti assale un rimpianto che ti salta alla gola sino a soffocarti. Si può morire per amore? Solo chi è stato sfiorato dalla fredda ala della morte, la quale ha rapito la persona amata, sa che si può morire per amore.Nondimeno, la strada dei sepolcri porta lentamente dalla follia alle forme maniacali, sino ai primi segni di un distacco che, però, non sarà mai un dimenticare o un non amare. Così mia madre, sempre ordinatissima e pulitissima, raccoglieva e conservava come in un reliquiario i mille oggetti appartenuti a mio padre. Tappezzava la casa di foto del suo ragazzo. Ma soprattutto inondava di fiori la tomba del suo amore, trascorrendo intere ore a pulire il marmo e a pregare. Proprio così: col tempo, quella ragazza tornò a pregare; e col suo bambino ormai in età scolare recitava ogni sera il santo rosario, sapendo di avere accanto a sé anche il suo unico vero grande amore, che non l’aveva mai abbandonata.Col tempo, quella giovane sventurata dedicò tutta la sua esistenza al suo bambino. Visse quasi un secolo quella ragazza, a cui avevano rubato la gioventù; e visse sempre nell’attesa e nella fede di ritrovare un giorno il suo amato.Bisogna dunque fare i conti con la vita, perché della nostra trascuratezza essa si vendica. E alla scuola della vita bisogna imparare a formare il carattere: infatti, nelle difficoltà, nelle sventure, nei piccoli problemi quotidiani, il nostro carattere si tempra, a patto che - come c’insegnò Giambattista Vico - riusciamo a scorgere le «opportunità» in quelle che inizialmente si presentano come «traversìe». È forse questa una sciocca visione ottimistica della vita? Tutt’altro. Stiamo alla larga, per carità, e dall’astratto ottimismo e dall’astratto pessimismo. Si tratta invece di una visione realistica e virile della vita, di una considerazione dialettica della realtà, che presenta sempre un nesso indissolubile di bene e di male, di valore e disvalore. Con ciò abbiamo forse trovato la formula magica per risolvere tutti i problemi della vita? Abbiamo forse rubato agli dèi dell’Olimpo il passe-partout, che ci farà aprire tutte le porte del successo? O crediamo forse d’avere scoperto, novelli alchimisti, la pietra filosofale che trasforma il male in bene, l’infelicità in felicità? Nulla di più sciocco, e nulla di più offensivo per la nostra intelligenza. In verità, il nostro carattere si fortifica non già chiudendo gli occhi di fronte alle avversità della vita, bensì fronteggiandole e combattendole con tanta umiltà e altrettanta risolutezza. E quando la realtà ci è ostile, quando tutto sembra tingersi di nulla e di irrazionale, quando la disperazione sembra l’ultima spiaggia, abbiamo il dovere e l’interesse di reagire, di fare la nostra piccola parte nel Tutto, di continuare l’opera nostra per il Tutto, senza la tracotante pretesa di sciogliere il mistero della Realtà, che è morte e vita, infelicità e felicità. Per cui, stando al nostro posto di combattimento, senza vile diserzione e senza sconsiderato ardimento, viviamo virilmente la vita pronunciando le parole che apprendemmo fin da bambini: lasciamo fare alla Provvidenza, che ne sa più di noi, e lavora con noi e dentro di noi e sopra di noi.
Giuseppe Pezzino