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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

Passeggiando fra gli alberi della storia - Terza passeggiata

2025-01-14 10:56

Prof. Giuseppe Pezzino

Manzoni, Promessi Sposi, Albero della Croce, Fede, Pensiero,

Passeggiando fra gli alberi della storia - Terza passeggiata

Terza passeggiata. Anche in questa Terza Passeggiata, all’ombra dell’Albero della vita che è il legno della Croce, restiamo assieme al Manzoni.

Anche in questa Terza Passeggiata, all’ombra dell’Albero della vita che è il legno della Croce, restiamo assieme al Manzoni. Ci fa compagnia, però, non più il Manzoni poeta, bensì il Manzoni romanziere, autore di quell’immortale capolavoro che è I Promessi Sposi.

In questo romanzo manzoniano si fondono magistralmente la teologia, la filosofia (filosofia della storia; filosofia morale; filosofia politica) e la storia (sia come res gestæ ossia complesso di accadimenti storici, sia come historia rerum gestarum ossia riflessione sugli accadimenti, sui fatti storici).

Accostiamoci, dunque, a quella vera e propria cattedrale che è rappresentata dal romanzo manzoniano.

Intendiamoci, quella di Manzoni non è una secentesca cattedrale barocca, che ti fa inebriare di andamenti sinuosi, con suggestivi giochi di luci e ombre, con il forte senso della teatralità e il ricorso all’accentuazione scenografica.

Non è, insomma, un tempio barocco del “meraviglioso”, né una singolare occasione di destare ed eccitare la “meraviglia”, secondo i canoni barocchi riassunti nei celebri versi di Giambattista Marino:

 

«È del poeta il fin la meraviglia

(parlo de l’eccellente e non del goffo):

chi non sa far stupir, vada alla striglia!»[1].

 

Tra l’altro, nel romanzo manzoniano, non c’è neppure quel bisogno tipicamente barocco (e vicino alla Controriforma) di conciliare la fede religiosa con la vita terrena, i dogmi severi con la frivolezza della mondanità.

Decisamente no: la cattedrale dei Promessi Sposi non è un’opera d’arte barocca. Ma non è neppure una cattedrale gotica, con i suoi superbi slanci verticali verso il cielo, con i suoi archi a sesto acuto, con la sua maestosa foresta di pinnacoli collegati fra loro da archi rampanti.

Insomma, nel capolavoro del Manzoni tu non hai né il tempio gotico, dove lo slancio verso il cielo sembra offuscare l’uomo a vantaggio di Dio; né il tempio barocco, dove sembra trionfare l’uomo e il mondo a discapito di Dio.

In verità, la cattedrale dei Promessi Sposi incarna lo spirito severo e rigoroso dei cistercensi e delle loro abbazie. Anzi, essa si abbevera alle fonti delle secentesche abbazie francesi (anch’esse legate all’Ordine monastico cistercense) di Port-Royal di Parigi e di Port-Royal des Champs, nella valle di Chevreuse.

E in queste due abbazie di Port-Royal si assiste a un rigoglioso fiorire di limpida fede cattolica e di cultura agostiniano-giansenistica. Una cultura, quest’ultima, ben distante da certe involuzioni “rilassate” della morale e della politica di alcuni ambienti del gesuitismo.

Nel tempio dei Promessi Sposi regnano la semplicità e l’austerità, senza però scadere nell’insignificante nudità scarna e brulla. Qui il rigorismo morale investe parimenti sia il clero sia fedeli, per rispondere alle diffuse esigenze di un ritorno ai costumi evangelici, per soddisfare le notevoli richieste provenienti dal basso di un’autentica e genuina vita cristiana.

E qui, perciò, non svettano né superbi campanili né torri minacciose. Le facciate sono sobrie, prive di ornamenti, ma senza indulgere al lugubre o allo squallido.

Se tu penetri nella cattedrale dei Promessi Sposi, ad ogni passo avvertirai un inno alla fede e alla carità; gusterai la celebrazione di quella divina Provvidenza, che opera in noi, sopra di noi, accanto a noi.

E se poi ristai, e trattieni il fiato, e porgi l’orecchio, sentirai come un coro di angeli che cantano: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!».

E proprio queste bellissime parole affiorano sulle labbra di Lucia Mondella, una povera lavoratrice di una filanda, un’umile popolana del Seicento spagnolo in Lombardia.

Sono, queste, le parole che sgorgano dal seno di una giovinetta atterrita, oltraggiata, sequestrata; parole che implorano pietà e misericordia ai piedi di un potentissimo e misterioso e malvagio gran signore, l’innominato, che l’ha fatta rapire per poi consegnarla a don Rodrigo.

In una stanza del castello dell’innominato, la povera Lucia giace in un cantuccio, in lacrime e singhiozzi, rannicchiata come un animale ferito, come una cosa «presa a tradimento», come una merce rubata da consegnare a un prepotente gaglioffo che ha commissionato il crimine.

Ad un tratto entra l’innominato che, vedendola immersa nel pianto e nel terrore, le chiede tra il curioso e l’imperioso: «V’hanno forse maltrattata? Parlate»[2]. E Lucia risponde piangendo:

 

«Oh maltrattata! M’hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m’hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio…»[3].

 

Come colui che, posseduto dal diavolo, scatta rabbioso al solo sentire la parola “Dio”, così l’innominato interrompe Lucia con affermazioni blasfeme nei confronti di un Dio considerato vano rifugio degli impotenti, perché i potenti non hanno bisogno di Dio:

 

«Dio, Dio, interruppe l’innominato: sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi...?»[4].

 

Cosa pretende Lucia? Ma la poverina non “pretende”. Lei implora pietà. Lei è una vittima innocente, che fa appello non già al Dio degli impotenti – come malignamente insinua l’innominato – ma al Dio onnipotente e misericordioso:

 

«Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M’hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a ***, dov’è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui.... ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!»[5].

 

Questo implorare di Lucia – dove per ben due volte prorompe la frase: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!» – va miracolosamente al cuore dell’innominato. E la giovane coglie l’effetto della sua stessa implorazione; e confusamente osserva in quest’uomo un qualche segno di esitazione: «Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica».

In verità, il fenomeno che sta investendo l’innominato non è per nulla improvviso. Il processo di ripensamento, come una talpa, ha già scavato nel sottosuolo dell’animo di questo terribile individuo un percorso che inesorabilmente, prima o poi, verrà alla luce.

Quest’uomo – forse sarebbe meglio dire “questo diavolo” – avverte in se stesso qualche segno di tentennamento, qualche dubbio, sul rapimento di una giovane sconosciuta da consegnare a don Rodrigo.

E, per giunta, costui non è affatto un agnellino: sui sessant’anni, l’innominato si mantiene talmente vigoroso nel corpo e nell’animo da non temere confronti con un giovane. Ecco come lo dipinge il Manzoni:

 

«Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de’ sessant’anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de’ lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e d’animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine»[6].

 

Comunque, la talpa del “ripensamento” (nel duplice significato di “riesame” del proprio passato e di “mutamento” di opinione o di decisione) aveva già cominciato a scavare la sua galleria nel sottosuolo dell’animo dell’innominato, sin da quando egli aveva deciso di aiutare don Rodrigo nel rapimento di Lucia.

Addirittura, ben prima di stringere il patto scellerato con don Rodrigo, l’innominato aveva già cominciato ad avvertire confusamente non un rimorso, ma un certo fastidio, nelle occasioni in cui tornava con la mente al proprio passato:

 

«Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d’un peso già incomodo»[7].

 

E poi la vecchiaia! Infatti, pur essendo un sessantenne ancora vigoroso, l’idea della morte non gli si presentava più come quando era in giovinezza.

In verità, nella primavera e nell’estate della vita tutto si proietta in un avvenire che appare lontanissimo, tutto si risolve in una fiduciosa e alquanto spensierata aspettativa o preparazione di progetti da realizzare.

Ma, quando sopraggiungono l’autunno e le avvisaglie dell’inverno della vita, allora si fa sempre più pesante il fardello del passato e pian piano si aprono spazi per certe idee inquietanti come quella della vecchiaia, quella della morte, quella di Dio.

Un tempo, per l’innominato, l’idea della morte avrebbe moltiplicato le energie della sua volontà e della sua mente per annientare, nel silenzio della coscienza morale, i propri nemici.

Un tempo, l’idea di Dio sarebbe stata soltanto un “sentito dire”, un qualcosa talmente distante da non pensarci, perché fin troppo impegnato a parare i colpi dei nemici e a infliggere loro dei fendenti mortali.

Ora, invece, «quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però»[8].

In questo stato d’animo, l’innominato impegna la sua parola con don Rodrigo e pensa già a come apparecchiare il crimine. Ma, appena don Rodrigo parte, già l’innominato ha qualche perplessità, non si sente più perfettamente deciso a rispettare il patto scellerato. Addirittura non vorrebbe più mantenere la parola.

Che fare? Bisogna cacciare via ogni indugio, rispettare il patto e perciò avviare subito i primi preparativi per il rapimento di Lucia. Non ci vuole molto, basta chiamare il Nibbio, capo dei suoi sgherri, e ordinargli di partire subito per Monza.

Così il Nibbio e gli altri bravacci ai suoi ordini realizzano alla perfezione il rapimento; e quindi tornano al castello dell’innominato, portando Lucia come preda. L’innominato conosce bene il “valore” delinquenziale dei suoi sgherri, la loro esperienza nel consumare delitti; e in altri tempi egli non avrebbe dato gran peso a tale operazione.

Ma ora è impaziente di sapere com’è andata la spedizione capeggiata dal Nibbio. Ora, dopo aver visto da lontano arrivare la carrozza con Lucia rapita, va ad attendere sulla porta del castello il fidato Nibbio, per avere un resoconto dell’accaduto.

 

«Intanto l’innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e vedeva la bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo fu in cima, il signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello. “Ebbene?” disse, fermandosi lì. “Tutto a un puntino” rispose, inchinandosi, il Nibbio: “l’avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma...”. “Ma che?”. “Ma... dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso”. “Cosa? cosa? che vuoi tu dire?”. “Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M’ha fatto troppa compassione”. “Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?”. “Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo”. “Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione”. “O signore illustrissimo! tanto tempo...! piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole...”»[9].

 

La parola “compassione”, pronunciata da un’anima nera come il Nibbio, in altri tempi non avrebbe scalfito la maligna sicurezza dell’innominato. Ma ora quella parola aggrava la crisi interiore di costui:

 

«Non la voglio in casa costei, – pensava intanto l’innominato. – Sono stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso. Quando sarà lontana... – E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, “ora,” gli disse, “metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un compagno, due se vuoi; e va’ di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai. Digli che mandi... ma subito subito, perché altrimenti...”»[10].

 

Il Nibbio deve andare a rotta di collo presso la casa di quel don Rodrigo, affinché gli tolga dai piedi quella giovane, capace di suscitare compassione.

Ma subito sorge in lui una decisione diametralmente opposta, per bloccare il Nibbio e rimandare tutto all’indomani: «No, disse con voce risoluta, quasi per esprimere a sé stesso il comando di quella voce segreta, no: va’ a riposarti; e domattina... farai quello che ti dirò!».

E poi, rimasto solo, immobile, con le braccia incrociate sul petto, continua a pensare a quella ragazza che possiede forse una misteriosa impronta soprannaturale, per quella sua capacità di turbare un tipaccio come il Nibbio e, soprattutto, un mostro malefico come lui:

 

«Un qualche demonio ha costei dalla sua, […] Un qualche demonio, o… un qualche angelo che la protegge... Compassione al Nibbio!... Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, – proseguiva tra sé, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà – e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che... non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perché... perché ho promesso: e ho promesso perché... è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco... E voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso per compenso, e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole: compassione al Nibbio! – Come può aver fatto costei? – continuava, strascinato da quel pensiero. – Voglio vederla... Eh! no... Sì, voglio vederla»[11].

 

Ondeggiando, quasi barcollando da una decisione all’altra, dal sì al no, l’innominato finalmente va a vedere questa misteriosa giovane.

E a questo punto si presenta la scena che abbiamo visto prima: la famosa scena in cui Lucia pronuncia l’inquietante frase «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!».

E intanto la talpa della coscienza procede nel suo lavoro sotterraneo. Sicché, giunta ormai la sera, rimasto solo a letto, quelle parole di Lucia si trasformano nel brontolìo di un tuono che preannuncia e prepara un violento temporale. Anzi, durante la notte, il temporale si fa tempesta, perché costui viene travolto e trascinato dall’onda dei tanti ricordi lordi di malvagità e di sangue.

È la notte in cui, per la prima volta, nel petto dell’innominato scoppia fragorosa la voce della coscienza, che lo costringe a ripercorrere a ritroso tutta una vita di scelleratezze, di prepotenze, di iniquità.

Senza dubbio, questo individuo cerca di resistere all’onda dei ricordi; ricorre persino alle giustificazioni che altre volte gli avevano garantito sicurezza di sé e cinica imperturbabilità di fronte al crimine commesso. Ma, ogni tentativo risulta vano.

Adesso questo terribile gigante del male non riesce ad averla vinta nella lotta contro la sua coscienza; adesso egli avverte nitidamente l’acre odore del sangue innocente sparso per troppo tempo dalle sue mani; adesso rotola travolto dalla valanga dei ricordi di un passato criminale.

Ed ha orrore dei suoi misfatti. E la condanna della sua coscienza lo perseguita a tal punto che, disperato, decide di farla finita.

Di furia si siede sul letto; cerca impetuosamente la sua pistola attaccata alla parete accanto al letto; l’afferra, e cerca di suicidarsi per porre fine a una vita divenuta insopportabile.

Ma la mano resta inerte, perché una nuova ondata di pensieri travolge l’innominato. È una terribile e lunghissima e incerta battaglia fra il Male e il Bene, fra le Tenebre e la Luce:

 

«E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. – Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è; se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perché morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia... E se c’è quest’altra vita...!»[12].

 

Se c’è quest’altra vita! Sembra così riecheggiare l’argomento della “scommessa” affrontato nel Seicento da Blaise Pascal: oltre questa vita, ne esiste un’altra? Se non esiste, tutto il male commesso finisce con la morte del malvagio.

E sembra, inoltre, presagire la problematica dostoevskiana, nei Fratelli Karamazov, sul rapporto fra immortalità e moralità. Per cui, secondo Ivàn Karamazov,

 

«se si distruggerà nel genere umano la fede nella propria immortalità, senz’altro s’inaridirà in lui non soltanto l’amore ma ogni forza viva capace di perpetuare la vita nel mondo. Non basta: allora non ci sarebbe più nulla di immorale, tutto sarebbe lecito, anche l’antropofagia. Non basta neppure questo: […] per ogni singolo individuo […] che non creda né in Dio né nella propria immortalità la legge morale della natura deve immediatamente convertirsi nel perfetto contrario dell’antica legge religiosa, e che l’egoismo spinto fino al delitto non soltanto dev’essere permesso all’uomo, ma anche riconosciuto come la soluzione necessaria, la più ragionevole quasi la più nobile nelle sue condizioni»[13].

 

Ma – ecco il dubbio atroce per l’innominato – se un’altra vita esiste, se Dio esiste, si andrà certamente alla resa dei conti, al redde rationem.

E a questo punto ritornano inesorabili le parole: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!». Però, non è più la misera e indifesa Lucia a pronunciarle. Ora quelle parole scendono quasi dall’alto, assumono un tono di divina autorità che tuttavia lascia adito alla speranza:

 

«A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: – Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! – E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni»[14].

 

Come, sulla via di Damasco, ovvero sulla via della conversione, muore l’uomo vecchio, Saulo, – spietato persecutore dei cristiani – e nasce l’uomo nuovo, Paolo, il grande «apostolo per vocazione»[15]; così si potrebbe dire che, nella terribile notte dell’innominato, muore l’uomo vecchio, tremendo campione del Male, e nasce l’uomo nuovo, ardente paladino del Bene.

In entrambi i casi, è il grande mistero della conversione. È quel mistero che Manzoni conosce bene per esperienza diretta, dopo essersi convertito al cattolicesimo.

La conversione implica certamente un rinnovamento radicale dell’essere, l’accoglienza di un messaggio nuovo rispetto a vecchie categorie di giudizio e a vecchi valori.

Ma, come nasce la conversione religiosa? Chi è l’attore principale fra l’uomo e Dio? Sì, è vero: è l’uomo che decide di convertirsi. Ma è Dio che in precedenza ha arato, seminato e irrigato il terreno su cui fiorirà la pianta della conversione. E quali meriti ha, agli occhi di Dio, l’uomo che vive la sconvolgente esperienza della conversione? Quali furono i meriti dell’ebreo Saulo di Tarso, per diventare il cristiano Paolo, “Apostolo dei Gentili”?

A leggere la Prima Lettera ai Corinzi, Paolo ammette di non avere alcun merito. Egli stesso, intransigente persecutore dei cristiani, si definisce un “aborto”, indegno di qualunque favore divino. E quindi? E quindi il merito della conversione spetta a Dio. Infatti, unicamente «per grazia di Dio» [gratia Dei] egli si è convertito al cristianesimo:

 

«In seguito [Cristo] apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me»[16].

 

La conversione religiosa è forse un’improvvisa e sconvolgente decisione umana, la quale avviene in un preciso istante e in un preciso luogo? Paolo si converte improvvisamente sulla via di Damasco, mentre va ad arrestare dei cristiani? L’innominato si converte improvvisamente nella famosa notte dopo aver parlato con Lucia? Manzoni si converte improvvisamente entrando nella chiesa di san Rocco, a Parigi, in rue Saint-Honoré? Invero, è più ragionevole pensare che, mentre il divino agricoltore zappa e semina la terra, si avvii nell’individuo un lento, lungo e inarrestabile processo di ravvedimento che porterà alla conversione.

Insomma, la conversione cristianamente intesa, la conversio ad Deum, nasce da un atto di amore disinteressato di Dio verso l’uomo. E qui ci aiuta ancora una volta san Paolo nella sua Lettera a Tito:

 

«Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda. Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute [non ex operibus iustitiæ, quæ fecimus nos], ma per la sua misericordia [sed secundum suam misericordiam], con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna»[17].

 

A questo punto bisogna operare una distinzione fra due diverse concezioni dell’amore: e cioè fra l’idea platonico-pagana di eros [ἔρως] e l’idea cristiana di agàpe [ἀγάπη]. In entrambi i casi, traduciamo e spesso unifichiamo e confondiamo i due termini greci con l’italiano amore, e perciò bisogna distinguere.

Nel Simposio di Platone, eros, per bocca di Socrate, rappresenta l’umano desiderio di ciò di cui si sente la mancanza, e più precisamente di cose belle e buone, addirittura desiderio di possedere il Bene.

Da qui una dinamica ascensionale di eros-amore, una ἀνάβασις, un ascensus, che l’uomo compie per desiderio di amore per la bellezza dei corpi, poi per la bellezza delle anime, poi per la bellezza delle conoscenze, sino all’ultimo e più alto gradino che è l’amore del Bello in sé.

Per contro, l’agàpe-amore rappresenta la dinamica discendente, la κατάβασις, il descensus dell’amore di Dio verso l’uomo. E questo amore di Dio è dono unilaterale, sacrificio, abbassamento, amore disinteressato e immotivato. Infatti, se l’agàpe-amore divino non fosse disinteressato e immotivato, se dovesse esigere i meriti dell’uomo, Dio non si sarebbe sacrificato sulla croce per una umanità che era una massa damnationis, non si sarebbe benevolmente indirizzato verso un persecutore di cristiani come Saulo di Tarso, o verso un sanguinario bandito come l’innominato.

Insomma, prima di quella famosa e burrascosa notte, l’innominato ha vissuto e vive una profonda e lenta dinamica di trasformazione. Egli – facendo pian piano spazio alla coscienza, che è severa voce di Dio – diventa il «tormentato esaminator di sé stesso»[18]. E le esitazioni, le incertezze, i pentimenti, e il pentirsi dei pentimenti, e il rimembrare una vita di malvagità, son tutti segni premonitori del “mistero della conversione”.

Proprio così: per la limitata ragione umana la conversione è un mistero. Un mistero a cui il teologo o il filosofo possono accostarsi, tentare di comprenderlo razionalmente, ottenere alcune nozioni limitate, ma giammai giungere alla piena conoscenza razionale.

Al confronto con l’uomo, Dio è come un albero immenso ed infinito. Con i nostri limitatissimi mezzi di conoscenza, noi possiamo bensì accostarci a quest’albero divino; possiamo addirittura toccare e abbracciare una piccola parte del tronco; ma giammai potremo interamente abbracciare, concepire (concipere, con-capere, prendere) tutto l’albero.

Ma torniamo nel castello dell’innominato. Il sorgere dell’alba segna già l’inizio della vittoria della Luce. Con i primi chiarori del giorno, infatti, arriva alle orecchie dell’innominato un suono di campane che reca un qualcosa di sereno e di allegro. Cosa succede? – si chiede l’innominato, che mai aveva fatto caso al suono di campane.

 

«Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. – Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro? – Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria»[19].

 

In lontananza era tutto un pullulare di gente: «uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s’accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s’univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto»[20].

Costoro erano la vita, con i suoi affanni e le sue serenità, con le sue tribolazioni e le sue letizie. Erano la vita, la vita che andava piena di gioia ad accogliere un messaggero cristiano di consolazione e di speranza: il cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. Per l’innominato è il segnale della rinascita e del riscatto. Perciò decide di seguire la stella cometa di quella folla e di tentare la strada della Luce, andando in presenza del cardinale.

Una volta giunto alla meta, due giganti si fronteggiano non per scontrarsi, ma per incontrarsi. La meraviglia è il primo sentimento che pervade i due. Una meraviglia, quella del santo cardinale, piena di gioia per la «preziosa visita»; una meraviglia, quella dell’innominato, piena del sospetto che il suo interlocutore non conosca bene il mostro che gli sta di fronte («Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome?»), ma anche una meraviglia con un sottile filo di speranza per la benevola e paterna accoglienza.

«Dio ha operato in voi il prodigio della misericordia»[21], dirà il cardinal Federigo all’innominato, quando si renderà conto della volontà di cambiamento dell’innominato. Per ben due volte il cardinale ricorre alla parola “prodigio”. E sempre non per vantarsi come autore, ma per celebrare la gloria di Dio, vero e unico autore di quel «prodigio della misericordia».

D’altronde, è proprio vero: la misericordia è sempre un prodigio; un evento straordinario che trascende non solo l’ordine naturale, ma anche i disegni degli uomini. Insomma, la misericordia è la risposta di Dio ai mali degli uomini. E, soprattutto, la misericordia divina – scandalo e follia per il razionalista ateo – è verità e fede per il cristiano, il quale considera la storia come un periglioso cammino che dalla terra conduce alla Gerusalemme celeste.

Così il prodigio della misericordia si manifesta nelle lacrime di pentimento dell’innominato, nell’abbraccio fra il cardinal Borromeo e l’innominato singhiozzante:

 

«L’innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: “Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!”»[22].

 

Al cospetto di Dio misericordioso giungono parimenti sia le lacrime delle vittime sia quelle dei peccatori pentiti. E al disperato, che versa lacrime senza l’attesa della giustizia, il molto cattolico e molto giansenista Alessandro Manzoni risponde con i versi della speranza fondata sulla fede operosa, perché il Regno di Dio è dei “miseri” e perché Dio, sulla Croce, si sacrificò per «tutti i figli d’Eva», per tutta l’umanità:

 

Non sa che al regno i miseri

Seco il Signor solleva?

Che a tutti i figli d’Eva

Nel suo dolor pensò?[23]

 

L’albero della croce di Cristo è come l’axis mundi, l’asse al centro della terra, che collega il sottosuolo dei peccati e il Cielo, le viscere infernali dei valori terreni e i valori celesti.

Questo albero della vita affonda le sue radici nel Golgota, ossia nel “luogo del cranio” dove, secondo Origène, fu sepolto Adamo e tutta l’umanità macchiata dal peccato originale. E i bracci orizzontali della Croce sono i rami e le foglie e i frutti dell’albero che si innalza verso il Cielo, rappresentando simbolicamente la missione di Gesù “nuovo Adamo”, salvatore di una umanità da lui redenta e “creatore”, grazie al sacrificio della Croce, di un “uomo nuovo”.

«Ora, invece, – scrive a tal proposito san Paolo – Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita»[24].


 

[1] G. Marino, Versi satirici, VII, Il poeta e la meraviglia.

[2] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXI.

[3] Ivi.

[4] Ivi.

[5] Ivi.

[6] Ivi, cap. XX.

[7] Ivi.

[8] Ivi.

[9] Ivi.

[10] Ivi.

[11] Ivi.

[12] Ivi, XXI.

[13] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano 1974, vol. I, p. 75.

[14] Ivi.

[15] San Paolo, Lettera ai Romani, 1, 1.

[16] San Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 15, 6-10.

[17] San Paolo, Lettera a Tito, 3, 3-7.

[18] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXI.

[19] A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXI.

[20] Ivi.

[21] Ivi, cap. XXIII.

[22] Ivi.

[23] A. Manzoni, La Pentecoste, 69-72.

[24] San Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 15, 20-22.

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