Bisogna ammetterlo, caro Marco. Magari con tristezza, però bisogna ammetterlo: siamo nelle mani (ben curate) della influencer Chiara Ferragni. Siamo quindi in dolce compagnia? Mah! Io so solo che avevamo ringraziato Dio per la morte di Dio ... e ora ci troviamo al cospetto di questa novella sacerdotessa della religione della moda e del mercato. Rosa Luxemburg, la due volte premio Nobel Marie Curie, Hannah Arendt, madre Teresa ... e chi sono? chi le conosce? Oggi l’umanità attende trepidante un segno, una massima, un consiglio, un prodigio, dalla sacerdotessa Ferragni che, partendo da fashion blogger, è schizzata (pensa un po’) fin sull’Olimpo degli influencer, con più di un milione di follower su Instangram.A ben riflettere, non abbiamo motivo di meravigliarci: Dio è morto (per assassinio, per suicidio, per eutanasia?), e noi ci sentiamo un po’ orfani e un po’ spaesati. E ora che si fa? Si fa quel che si può, ci arrabattiamo, ci arrangiamo: ieri Mosè salì sul Sinai e parlò con Dio; oggi il papa sale sull’aereo e parla coi giornalisti, e in rarissimi casi, quando ha proprio nostalgia del divino, parla col dott. Eugenio Scalfari; ieri i cristiani, ritti in verticale, innalzarono al Cielo (con la c maiuscola) la cattedrale di Notre-Dame; oggi i nuovi pagani, sdraiati in orizzontale, costruiscono immensi megastores a lode e gloria del dio consumo; ieri i nostri padri sperarono in un paradiso di là da venire; oggi abbiamo trovato il paradiso a Las Vegas o in un Gratta e Vinci. Ci arrangiamo, purtroppo. Siamo perfettamente d’accordo - tu mi dici - ma almeno, in un sussulto di dignità, abbandoniamo la influencer Chiara Ferragni e affidiamoci ai maestri!E dove li peschiamo i maestri? Sono tutti spariti. Tu dici che ce ne sono ancora? No, che c’entra, io non sto parlando dei gran maestri della massoneria! Quelli sono eterni come il Padreterno. Io mi riferisco a quelle figure di intellettuali che un tempo rappresentavano un modello per schiere di discepoli o di simpatizzanti. Purtroppo, mio caro Marco, il maestro è merce esaurita. Tu mi vuoi rincuorare, ma sei fuori strada: Adriano Celentano? Beppe Grillo? Non scherziamo con le cose serie. Al massimo, per ipotesi assurda, se volessimo rimediare un maestro nel rutilante mondo dell’arte e del varieté, allora sarebbe ben più serio dare la corona di maestro al principe Antonio De Curtis, in arte Totò. In quest’ultimo caso, se così fosse, non ci sarebbe partita: infatti, per comicità e serietà, Totò sbaraglierebbe tutte le compagnie di guitti che bivaccano oggi in Italia, soprattutto fuori teatro. Ma, ripeto, sei fuori strada.Purtroppo è tramontata persino la nozione stessa di maestro. Ad esempio, se vai a leggere il dizionario Treccani, trovi questa definizione miserella: «Maestro: in senso ampio, chi conosce pienamente una qualche disciplina così da possederla e da poterla insegnare agli altri». Ma ci pensi? Maestro è chi conosce una disciplina e la insegna agli altri! Tutto qui? Una volta, una simile definizione avrebbe mosso a sdegno non solo il maestro Perboni, di gloriosa memoria deamicisiana, ma soprattutto una lunghissima schiera di rispettabilissimi maestri della scuola elementare italiana, che sono stati molto di più di una semplice bottiglia piena di nozioni da versare in un bicchiere vuoto. D’altronde, a pensarci bene, dobbiamo ammettere, multis cum lacrimis, che quella miserella definizione di maestro risulta persino generosa rispetto al deserto di oggi.Tu mi obietti che, su questa mia linea di ragionamento, non ci sono mai stati maestri, tranne quelli mitici creati da De Amicis o quelli eroici e mal pagati della vecchia scuola elementare italiana. Io però, senza volere scomodare alcuni giganti che rispondono al nome di Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Rousseau, Hegel, Marx (per citarne solo alcuni), ti rispondo che grandi maestri ne abbiamo avuti nel passato, eccome! Resto in Italia, e mi limito a sorvolare ad alta quota l’Ottocento e il Novecento. En passant, vedo Giuseppe Mazzini, e Francesco De Sanctis, e Giosuè Carducci, e Gabriele D’Annunzio, e Benedetto Croce, e Giovanni Gentile. Stai arricciando il naso per gli ultimi tre nomi? Piaccia o non piaccia, è storicamente assodato che questi tre intellettuali di caratura europea - D’Annunzio, Croce e Gentile - furono grandi e prolifici maestri (nel bene o nel male) di intere generazioni. Non possiamo negare, ad esempio, che giovani come Antonio Gramsci o Piero Gobetti furono figli di Croce e di Gentile. E Gramsci e Gobetti furono, a loro volta, maestri per tante altre generazioni. Aggiungo che, nella seconda metà del Novecento italiano, possiamo ancora vantare maestri come Pier Paolo Pasolini, Norberto Bobbio e Augusto Del Noce.A questo proposito, forte della mia licenza senile, ti porto la mia testimonianza su una delle ultime figure di maestro in Italia. Giovanissimo, inviai un mio lavoro a Norberto Bobbio. Lo inviai senza tanto sperare in un cenno di risposta: troppo in alto e troppo indaffarato - pensavo fra me e me - era il grande Bobbio, per degnarsi di rispondere a un giovane sconosciuto. E invece il severissimo Bobbio lesse il mio libro e mi scrisse non già un formale biglietto di ringraziamento (già con questo avrei fatto un doppio salto mortale per la gioia!), ma una lettera in cui condivideva certi punti e ne criticava altri. Il nostro dialogo continuò a distanza, fino a quando Bobbio mi scrisse che potevo andare a Torino per fare ricerca presso il Centro Studi Piero Gobetti, di cui egli era allora presidente. Saltai sul treno (allora non esisteva l’aereo? in verità, non esisteva per me, che viaggiavo sul treno in seconda, non essendoci più una terza classe!) e affrontai l’avventura di un viaggio interminabile e faticoso. Scesi alla stazione di Torino Porta Nuova, con l’aria inconfondibile del meridionale spaesato (sembravo un precursore di Giancarlo Giannini, nel film Mimì Metallurgico!), che sul treno ha mangiato la pagnotta con mortadella preparata dalla mamma e che in valigia porta soltanto la ricchezza dei suoi sogni. Andai emozionatissimo in via Sacchi 66, a conoscere, nella sua casa, l’austero maestro che mezza Italia ammirava e rispettava. Il famoso professor Bobbio mi accolse nel suo salotto, cominciammo a conversare amabilmente sull’ondata migratoria meridionale che aveva investito Torino a partire dagli anni Cinquanta e poi...e poi mi ritrovai sul maggiolino Volkswagen di Bobbio, accanto al filosofo che guidava in direzione di via Fabro 6, sede del Centro Studi Gobetti. Non vado oltre nei ricordi, e anzi ti chiedo scusa, ma ho voluto soltanto rendere il mio modesto omaggio al Bobbio maestro che, in quanto tale, sentiva forte la vocazione educativa nei confronti dei giovani.Ora tu mi chiedi di definire un po’ meglio chi è maestro; e io cerco di risponderti ponendo preliminarmente una necessaria distinzione: si può avere il maestro fisicamente assente che, nello spazio di secoli o di millenni, ti parla e ti risponde per mezzo delle sue opere; e si può avere il maestro fisicamente presente, che con te dialoga e con te condivide alcuni princìpi e alcune esperienze.Nel primo caso, è facile pensare ai «classici», ai modelli intramontabili come un Platone o un Aristotele, un Dante o un Goethe, un Michelangelo o un Raffaello, insomma a quegli autori con cui si dialoga sinceramente e rispettosamente, nello spirito magnificamente descritto da Machiavelli nella sua famosa lettera a Francesco Vettori: «Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori ricordomi de’ mia: gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada, nell’hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de’ paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d’huomini. Viene in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi. Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».Nel secondo caso, quello del maestro fisicamente presente, dobbiamo sottolineare che, essendo il cammino della vita irto di spine e di insidie, occorre una notevole capacità di discernimento, perché c’è il maestro, ma c’è pure il cattivo maestro. Beninteso, il cattivo maestro è ad esempio colui che teorizza e predica l’eliminazione fisica dell’avversario: basti pensare, tanto per gradire, al santissimo appello di Lutero a sterminare cristianamente i contadini in rivolta, perché bisogna «colpire, scannare, massacrare in pubblico o in segreto, ponendo mente che nulla può esistere di più velenoso, nocivo e diabolico di un sedizioso, giusto come si deve abbattere un cane rabbioso, perché se non lo ammazzi, esso ammazzerà te e con te tutto il paese»; o ai teorici della monarcomachia, o all’istigazione pubblica dei gesuiti a uccidere i giansenisti nella Francia del Seicento, sino ai predicatori della pistola P 38 nell’Italia del Novecento. Ma, scendendo dal maiuscolo al minuscolo, è anche cattivo maestro il professore fazioso che, nel suo piccolo, ogni giorno impartisce lezioni di intolleranza e di partigianeria, perseguitando non solo lo studente, pur bravo, che ha il difetto di indossare una maglietta di colore diverso dalla sua, ma addirittura eliminando i grandi autori che dovrebbero essere il pane quotidiano del professore e degli studenti. Nella luminosa storia dei maestri faziosi spicca - e tu lo sai - qualcuno che trascura, per sua aperta ammissione, Platone, perché aristocratico, o Aristotele, perché teorico della schiavitù, o sant’Agostino, perché cattolico, o Marx, perché comunista, o Pirandello perché fascista, e così via oscurando e ingaglioffando.Fatta questa premessa e purificate le nostre mani, tentiamo di accostarci al concetto di maestro, bussando alla sua porta. Qui, per attraversare il vestibolo, devi sapere che la vita è relazione, è riconoscimento, è incontro. Perciò, chi pensa che l’uomo sia un atomo o una monade senza finestre, deve tornare indietro per manifesta incapacità d’intendere il concetto di maestro. Chi invece è in grado di attraversare il vestibolo troverà, scolpite sopra la porta d’ingresso, queste auree parole di Seneca: «Se mi fosse concessa la sapienza a condizione di tenerla chiusa in me senza trasmetterla ad altri, rifiuterei: non dà gioia il possesso di nessun bene, se non puoi dividerlo con altri».Dobbiamo quindi capire, caro Marco, che sarebbe un’autentica mostruosità immaginare il dotto che, chiuso in sé, si nega alla trasmissione del sapere e alla relazione con gli altri. Dobbiamo capirlo, altrimenti non comprenderemo quel che ci dice misteriosamente l’ancella nell’aprire la porta d’ingresso: «Poni mente all’incontro». Tentiamo di sciogliere l’enigma: se la vita è relazione, allora essa è incontro con l’altro. Ma diciamo di più: l’incontro significativo ti cambia la vita. Per sempre? Non è detto. In bene? Non è detto. Ci sono incontri che ti arricchiscono, che ti fanno crescere; e ci sono incontri che invece ti devastano. Ecco perché dobbiamo stare attenti agli incontri, specialmente in gioventù, quando si avverte un gran bisogno di sognare, di innamorarsi, di fare progetti, di abbattere gli ostacoli, di vivere in una società più giusta e in un mondo più pulito.Un giovane lascia il suo sperduto e anonimo villaggio situato in un punto della terra, alla ricerca di Gerusalemme, cioè alla ricerca del bene, del vero, del bello e, soprattutto, alla ricerca di se stesso. Quanti sogni, quanta speranza, quanti progetti! Un altro giovane - deluso, tradito, disperato - lascia Gerusalemme e vuol tornare al suo villaggio. Ma, sulla strada che da Gerusalemme porta a Emmaus, egli incontra un viandante sconosciuto: questi potrebbe essere un brigante che ti ruba l’anima, ti maciulla il corpo, e poi ti lascia morire sul ciglio della strada. Potrebbe essere, invece, un pacifico e onesto compagno di viaggio che discute con te, che ti parla di verità, di bellezza e di bene, che modera le tue delusioni e fuga i neri fantasmi che opprimono il tuo cuore. E allora, nel difficile sentiero della vita, egli cammina accanto a te, cresce insieme a te, e insieme a te lascia Emmaus per ritornare a Gerusalemme.Ebbene, questo è il maestro: colui che ha già percorso tanta strada alla ricerca di se stesso, che nel cuore e nella testa ha idee e valori, che dialoga con te, che giorno per giorno acquista onestamente la tua stima e il tuo rispetto, che ha qualcosa da dirti e qualcosa da darti. Pertanto, maestro non è colui che pretende di versare il suo sapere nel vaso vuoto dell’allievo; maestro non è l’istruttore, né l’addestratore, né il life coach, maestro è colui che accende incendi di passioni, perché, come diceva Hegel, nulla di grande si fa senza passione. A questo punto, tu vorresti farmi dire: a morte le nozioni, viva le affabulazioni e le libere galoppate nella prateria delle chiacchiere. Non la penso così, mio caro Marco. Io ho sempre considerato una solenne stupidaggine la guerra al nozionismo, guerra in gran parte figlia di una certa stupidità sessantottina, che credeva in buona o in mala fede che bastasse leggere il Libretto rosso di Mao Tse-tung per essere dei buoni ingegneri, dei buoni nuotatori, dei valenti chirurghi, e così via fanatizzando, come oggi ci si illude che basta cantare Bella ciao, per essere dei buoni preti, dei buoni professori, dei buoni amministratori, dei buoni cittadini. A tal proposito, penso ancora con tenero raccapriccio ai tantissimi giovani miei coetanei che, mentre lottavano contro il dogmatismo dei vecchi insegnamenti, sfilavano poi nei cortei sventolando quel Libretto rosso di Mao, che in definitiva era una modesta raccolta di modesti pensieri per galvanizzare fideisticamente milioni di fanatici, a sostegno del più feroce regime di tutti i tempi.Insomma, se salgo su un aereo e mi si dice che il pilota non sa neppure cosa sia una bussola, però durante il volo canta benissimo Giovinezza oppure Bella ciao, io corro subito verso l’uscita. In verità, le nozioni sono necessarie per qualunque arte o mestiere: sia per effettuare un trapianto o un parto cesareo senza ammazzare la gente, sia per costruire un ponte senza far precipitare giù cavalli e cavalieri, sia per insegnare decorosamente uno straccio di materia senza leggere ogni anno gli stessi appunti e senza rovinare intere generazioni di futuri professionisti analfabeti. Ovviamente le nozioni non sono tutto, e diventano materia inerte se non hanno l’anima. Perciò, chi è bravo a trasmettere nozioni è certamente un valente insegnante, ma non è ancora un maestro.A questo punto bisogna intenderci: se io, schematizzando alquanto, affido la trasmissione delle concrete nozioni all’insegnante, ciò non significa che al maestro io assegni il ruolo del predicatore. So bene che con le prediche si ottiene ben poco. Su ciò, Ignazio di Antiochia ebbe a dire saggiamente: «Si educa molto con quel che si dice, ancor più con quel che si fa, ma molto di più con quel che si è». Infatti, se mentre predichiamo bene, razzoliamo male; se mentre esortiamo l’allievo a studiare, noi non tocchiamo da anni un libro; se mentre esaltiamo l’onestà, rubiamo lo stipendio facendo un bel nulla; allora, vivaddio!, abbiamo spazzato via il maestro e il suo ruolo educativo. Ma c’è di più: qui non si tratta soltanto di evitare il divario fra il predicare bene e il razzolare male; qui è la predica in sé a rivelarsi insufficiente e inefficace. Può bastare un discorso per convincere un giovane, per fugare tutte le sue paure, per incoraggiarlo e suscitare la voglia di andare avanti? Di fronte alle difficoltà della vita, le parole non bastano. Ci vuole ben altro, risponderebbe Ignazio di Antiochia: si educa molto di più con quel che si è.Come vedi, caro Marco, la scala del magistero ha diversi gradini: la parola, l’azione, l’essere. Il terzo gradino, quello dell’essere e dell’esserci, è il più importante e il più difficile. Quando si arriva a un’età in cui ci si sente pronti a spiccare il volo, quando si comincia ad avere voglia di autonomia, quando si allontanano i punti di riferimento familiari, allora si ha bisogno di un maestro che sia tale e che ci sia nella tua vita, condividendo alcuni momenti della tua vita e della tua giornata. Il poeta Persio immortalò nei versi la sua gratitudine per la «vicinanza» del suo maestro, il filosofo stoico Anneo, che seppe creare con l’allievo una comunanza di lavoro, di idee e di valori: «Ricordo, trascorrevo lunghe giornate con te, / e per cenare insieme sottraevo le prime ore alla notte; / comune il lavoro, e ugualmente insieme disponiamo il riposo».Ora però non cantare vittoria. Ci siamo accostati bensì all’idea di maestro, ma, come ti ho detto prima, è difficile oggi trovare un maestro. E che andiamo cercando in questo nostro mondo immerso nel nulla, dove al deserto di senso corrisponde il deserto della comunicazione? La famiglia, la scuola, il maestro? Un mucchio di ossame insepolto. Diciamoci la verità, caro Marco: nel naufragio del vecchio mondo, ci si salva soltanto sulle piatte spiagge del selfie, dell’autoritratto, dove ciascuno è nel contempo soggetto e oggetto, padrone e schiavo. E così ognuno si trova ad essere padre di se stesso, maestro di se stesso, orfano di se stesso. Come si vive? Si vive male. Si sopravvive: tanta musica (così la chiamano) sparata ad altissimo volume, in modo da spaccarti non solo i timpani, ma anche il petto e quel poco di cervello che ti resta; tanta droga e tanto alcol, per colmare il vuoto di autostima, per esorcizzare le paure inconfessate, per uccidere gli altri e te stesso; tanta solitudine, che ti sta inesorabilmente aggrappata alle spalle, che non ti lascia mai, anche quando sei al rave party, anche quando sei con tanta gente in un affollatissimo ristorante di un’affollatissima viuzza alla moda, perfino quando vai a letto con un partner più solo di te.Riconosciamo questa triste verità: al paese dei balocchi abbiamo sostituito il paese dei selfie. E qui il maestro è ormai un animale raro e in estinzione; infatti, al massimo abbiamo l’insegnante-parcheggiatore che bada alla custodia dei tanti giovani parcheggiati nelle scuole, nelle università e nei master. Abbiamo ucciso il tempo. Una volta sentivi il bambino che ti diceva: da grande farò il ... Poi sentivi il trentenne che ti diceva: da grande farò il ... Ora nessuno guarda più al futuro: abbiamo assolutizzato il presente; un presente da ingoiare senza assaporarlo, da godere senza grandi passioni, da veri e propri atomi colpiti da analfabetismo emotivo. D’altronde, quale meraviglia possiamo provare, quando i gruppi dominanti ignorano e maltrattano proprio quelle che sono le migliori energie, i giovani, di un paese e di una nazione? Anche a questi livelli riscontriamo un deserto di senso e una sorta di cupio dissolvi della nostra civiltà. Del resto, di che dobbiamo stupirci, quando il mondo della tecnica, della mercificazione e del consumismo ha avvelenato il mondo cristiano? Rifletti con me, caro Marco: sul tronco dell’ebraismo, il cristianesimo elaborò una sua filosofia della storia e una particolare concezione del divenire, in cui il passato era il male, per la hybris di Adamo e dei suoi discendenti; il presente era l’occasione della riconciliazione con Dio e della tensione continua verso un continuo riscatto; il futuro era la salvezza da costruire e da meritare. E bada bene che questo dinamico ottimismo cristiano influenzò anche le moderne dottrine laiche e scientifiche. Infatti, ci sarebbe molto da dire su una certa filosofia della storia di Hegel, o di Marx, o di Comte.Ma ora Dio è morto, ci dicono i profeti e i predicatori del nichilismo. Il futuro, le promesse, i progetti, i sogni, annegano e spariscono tutti nell’assoluto presente, in cui le generazioni dei selfie sventolano la bandiera gialla del «ci si salva da soli», del «devi voler bene prima a te stesso», salvo poi a scendere bellamente in piazza contro l’americano che grida «America first» o contro l’italiano che grida «prima gli italiani». Sono le commoventi contraddizioni di una gioventù occidentale che, da un canto, è schiacciata su un presente consumistico ed egoistico, e, dall’altro, riesce ancora a conservare un briciolo di coscienza etico-politica per battersi per un futuro in cui prevalga l’essere contro il non-essere. Sono le contraddizioni di una gioventù che marcia per salvare il pianeta dall’inquinamento, che sventola il vessillo della natura verde e incontaminata, e che nel contempo si batte per avere in ogni aula il riscaldamento e il climatizzatore, che va comodamente in auto o in moto a scuola, che fa eroicamente la fila per acquistare l’ultimo costosissimo modello di iPhone, che affolla i fast foodazzannando hamburger alti quanto la torre di Pisa, che compra costosi capi d’abbigliamento non per una deplorevole scelta di lusso (dicono loro), ma perché costretti (poverini) a essere trendy. Queste sono soltanto alcune delle contraddizioni della gioventù occidentale. Ma le contraddizioni giovanili, diventano deprecabili pagliacciate di qualche adulto con responsabilità di governo che, in fregola di giovanilismo e con tanta voglia di applausi, propone di giustificare le «assenze verdi» fatte per protestare contro l’inquinamento. Qui la desertificazione avanza a vista d’occhio!Per concludere, voglio chiudere questa mia lettera ricordando un grande maestro dell’umanità. No, non è Socrate, che pur ammiro. È il divino Platone. Giovane e promettente rampollo di una nobile e potente famiglia ateniese - il suo vero nome era Aristocle - ebbe giovanissimo qualche conoscenza della filosofia, ma soprattutto una notevole educazione artistica, con particolare riferimento alla musica, alla pittura, e alla composizione poetica e drammatica. A vent’anni circa, l’incontro della sua vita: conosce Socrate, diventa suo allievo, e diventa - lui che aveva già un passato di grande sportivo e di coraggioso soldato - un puro intellettuale. Non fu l’allievo prediletto, ma indubbiamente fu il più grande allievo di Socrate, a cui volle un bene infinito, come d’altronde era nella sua natura ricca di logosma anche di tanto pathos. Platone fu un gigante e nella filosofia e nell’arte (io non so ancora decidermi se dargli la palma della vittoria come filosofo o come scrittore), ma fu anche grandissimo come maestro e come uomo. Egli sta a metà strada fra le geniali stranezze di Socrate - che si compiace alquanto di fare il provocatore, di suscitare scandalo, fino alla sua paradossale autodifesa nel processo che gli costerà la condanna a morte - e la famosa riservatezza, venata di freddezza, di Aristotele. Socrate e Platone hanno nel sangue la politica, ma è il secondo che rappresenta il sublime modello antico di una politica che è teoria e prassi, che è filosofia politica che scende nell’agone della prassi. Aristotele, invece, evita di mettersi in mostra, di compromettersi, e, malgrado il suo rapporto con Alessandro Magno, sta alla larga dalla vita politica, e rappresenta il primo grande modello dell’uomo totus philosophus. Tutti e tre hanno una scuola: Socrate faceva scuola all’aperto, dialogando (e mai scrivendo un rigo) per le vie e le palestre di Atene, perfino nel carcere prima di morire; Platone fonda l’Accademia, una scuola che non solo fa moda (gli allievi, figli dell’alta società, vestono con eleganza snobistica, hanno un modo tutto loro di gesticolare, di parlare e di portare il bastoncino), ma soprattutto costituisce la prima grande struttura educativa con una notevole ratio studiorum. Sul frontone della porta sta scritto: esibire la geometria all’ingresso. E infatti vi si compiono bensì studi di matematica, di astronomia, di scienze naturali, ma l’indagine fondamentale è la filosofia incentrata sull’uomo come soggetto e oggetto di vita politica. Aristotele fonda il Liceo, una scuola che, a differenza dell’Accademia di Platone, recluta i suoi allievi fra i figli del ceto medio-alto e punta soprattutto sugli studi scientifici. Qui tutto è sistematico e sistemato: esistono gruppi di studio per diversi settori di ricerca, lo scolarca Aristotele tiene le sue lezioni di mattina passeggiando con gli allievi sotto i portici che circondano il Liceo. Nel pomeriggio egli tiene qualche conferenza su temi accessibili ai profani, ma soprattutto dedica il suo tempo e le sue energie nella cura della biblioteca, del museo naturale e del giardino zoologico.Ma la differenza fra l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele sta anche nella marcata differenza culturale e umana dei due grandi pensatori. Platone spicca voli su vette altissime della filosofia, dell’arte e della religione, per poi scendere sul terreno della polis, e poi risalire al regno delle madri e poi scendere meravigliosamente nel sottosuolo delle passioni dell’anima umana. Platone è energia pura che non può essere assoggettata a un solo metodo né incanalata in una sola materia; Platone stupisce e incanta coloro che gli stanno accanto; egli possiede un carattere aperto e cordiale che entra in confidenza con gli allievi e ne rispetta le diverse preferenze filosofiche. È certamente un grande filosofo e un grande uomo: un uomo al naturale, schietto, per nulla burbero o spocchioso, che diffonde intorno a sé simpatia e calore umano. Egli, come tutte le persone veramente serie e profondamente intelligenti, sa ridere e sorridere con molto sense of humour, diranno gli inglesi. In una parola, Platone è il maestro per antonomasia.Aristotele, invece, è pensatore metodico e rigorosissimo, diffidente verso chi esce fuori dai canali degli studi particolari e si permette libertà non concesse dal metodo scientifico. Anziché volare, egli preferisce stare con i piedi ben piantati per terra; e, di contro al meraviglioso coraggio di un Socrate o di un Platone che sfidano mille volte la morte, egli preferisce prudentemente abbandonare Atene e il Liceo, quando il partito antimacedone prende il sopravvento. Aristotele è un uomo riservato, alquanto freddo sia con gli allievi sia con gli estranei; un lavoratore instancabile e metodico, dalle cui mani usciranno tesori di scienza, ma che non possiede il calore e le qualità umane di Platone. Insomma, Aristotele è il professore per antonomasia.Ti può sembrare strano che io voglia ora paragonare questi tre grandi anche alla vigilia della morte, ma a me pare che anche quei momenti possono essere importanti per delineare il profilo di un uomo. Ebbene, tutti conoscono la morte eroica di Socrate, che serenamente parla con i suoi allievi sino all’ultimo istante di vita, dopo aver deciso di non chiedere clemenza al tribunale che lo manderà a morte e dopo aver rifiutato la possibilità di evadere prospettata dai suoi allievi. Conoscendo Socrate, il suo forte carattere, il suo coraggio in battaglia, si può dire che egli muore da semidio. Grigia e anonima è invece la morte di Aristotele: alla scomparsa di Alessandro Magno, nel 323 a. C., egli abbandona Atene e si rifugia a Calcide, in Eubea, dove morirà un anno dopo.Platone ha una vecchiaia serena: tutto immerso nella vita della sua scuola, egli si dedica pienamente all’insegnamento; e a volte, quando non insegna, porta in giro a piccoli gruppi i suoi allievi, per ragionare insieme e per esercitarli nell’arte di argomentare. Egli vive con i suoi allievi e per i suoi allievi.Un giorno, uno dei suoi giovani si sposa e lo invita a fargli da padrino al matrimonio. Nonostante i suoi ottant’anni (Platone era pur sempre un bel vecchio!), egli accetta l’invito ben volentieri. L’amato maestro assiste alla cerimonia delle nozze, partecipa alla festa, scherza con i suoi allievi sino a tarda notte, mangiando e bevendo. A un certo punto della notte, avverte un po’ di stanchezza e, mentre gli altri continuano a banchettare, egli si ritira in un angolo per riposare e concedersi una dormitina.L’indomani mattina lo troveranno esanime: era passato serenamente dal sonno alla morte senza accorgersene, senza le lacrime del distacco, senza offuscare la gioia degli sposi e la festa degli invitati. Tutta Atene sarà presente al suo funerale e lo accompagnerà nel suo ultimo viaggio.Io credo, mio caro Marco, che tanti maestri, pur non essendo Platone, si augurano di concludere questa vita terrena come il grande Ateniese dalle spalle larghe.
Giuseppe Pezzino