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Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento

La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte II) LA MACELLERIA MESSICANA

2023-06-17 09:29

Prof. Giuseppe Pezzino

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte II) LA MACELLERIA MESSICANA

Dopo la significativa presenza di Giovanni Gentile al ministero dell’Istruzione (dal 1922 al 1924), ovvero dopo la Riforma Gentile realizzata in due a

Dopo la significativa presenza di Giovanni Gentile al ministero dell’Istruzione (dal 1922 al 1924), ovvero dopo la Riforma Gentile realizzata in due anni (pensa un po’, come il nuovo ponte Morandi a Genova! i vichiani corsi e i ricorsi storici!), qualcuno potrebbe pensare che sul Ministero calò la pesante coltre di una reazione che mortificò gli spiriti per vent’anni. E invece l’Italia che, come disse Engels, è il paese dei più puri eroi come Dante e Garibaldi ma anche dei più classici eroi comici della commedia dell’arte, trovò modo di strabiliare il mondo col prof. Balbino Giuliano. Costui, da ministro per l’Educazione Nazionale (leggi fascisticamente: Pubblica Istruzione), nel 1931 impose a tutti i professori universitari il giuramento di fedeltà non solo al re, in quanto capo dello Stato, ma anche al regime fascista. Beninteso, già esisteva l’obbligo del giuramento di fedeltà al re, capo dello Stato, ma ora la formula si presenta così: «Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista».
E se un professore universitario già in servizio si rifiutava di prestare questo giuramento, cosa gli accadeva? Niente di male, quel professore perdeva la cattedra, senza diritto alla liquidazione e senza pensione!
Ovviamente tutti i professori universitari giurarono senza fiatare, tranne una sparuta pattuglia di eroi (una quindicina circa) i quali si rifiutarono di giurare e affrontarono le durissime conseguenze.
Ad ogni modo, la gravità del provvedimento non sfuggì a Benedetto Croce, che, subodorando la presenza di Gentile dietro il provvedimento del ministro Balbino Giuliano, così scrisse a caldo nel 1932: «Il Gentile, sempre più impegnato a rendere col mezzo della filosofia, cioè delle formule filosofiche, prestazioni politiche, è arrivato via via sino al segno di scrivere che “interessi superiori possono a volta a volta imporre doveri al pensiero”; cioè a sottomettere il pensiero a legge diversa da quella del pensiero stesso. E poiché egli si è fatto suggeritore o primo raccomandatore e propugnatore di un giuramento politico imposto agli insegnanti universitari, torturando le loro coscienze di liberi indagatori e assertori del vero; […] non è più il caso di tradurre i suoi detti di filosofia politica in meri termini logici e dottrinali, né di discuterli come tali».
Per la stessa questione del giuramento, Albert Einstein scrisse al famoso giurista Alfredo Rocco, allora ministro fascista di Grazia e Giustizia: «Egregio signore, due dei più autorevoli e stimati uomini di scienza italiani, angosciati si sono rivolti a me [...] al fine di impedire, se possibile, una spietata durezza che minaccia gli studiosi italiani [...] La mia preghiera è che lei voglia consigliare al signor Mussolini di risparmiare questa umiliazione al fior fiore dell’intelligenza italiana. Per quanto diverse possano essere le nostre convinzioni politiche [...] entrambi riconosciamo e ammiriamo nello sviluppo intellettuale europeo beni superiori. Questi si fondano sulla libertà di pensiero e di insegnamento e sul principio che alla ricerca della verità si debba dare la precedenza su qualsiasi altra aspirazione [...] La ricerca della verità scientifica, svincolata dagli interessi pratici quotidiani, dovrebbe essere sacra a tutti i governi; ed è nell’interesse supremo di tutti che i leali servitori della verità siano lasciati in pace. Ciò è anche senza dubbio nell’interesse dello Stato italiano e del suo prestigio agli occhi del mondo». 
Vani i riferimenti di Croce e di Einstein ai valori della verità non subordinabili ai valori della politica. Vani perché l’operazione, secondo Mussolini, era squisitamente politica e dimostrava che il fascismo aveva dalla sua la stragrande maggioranza dell’università italiana. Ormai era definitivamente tramontato il tempo dell’Italia fascista ancora a metà, in cui si fronteggiavano gli intellettuali del Manifesto a favore del fascismo e gli intellettuali del Manifesto antifascista. Ormai, negli anni Trenta, Mussolini può mostrare al mondo il consenso pressoché totale degli intellettuali alla dittatura.
A dimostrazione di questa orgogliosa sicurezza, si consideri che il ministro Alfredo Rocco non si degnò di rispondere personalmente ad Albert Einstein, e affidò questo compito a un suo collaboratore che cortesemente “rassicurò” lo scienziato sul fatto che in Italia non era stato consumato alcun torto alla libertà di pensiero, visto che i professori che non avevano prestato giuramento si contavano sulle dita di due mani.
E se questo capitò ai professori universitari, che dalla loro avevano prestigio e fama a livello internazionale, ci tremano le vene e i polsi al solo pensiero dell’atroce destino che colpì gli studenti, vittime innocenti e indifese dell’autoritarismo ministeriale. E invece no! Per raccattare un consenso politico studentesco, già nel 1927, a soli tre anni dalla Riforma Gentile, sotto il ministero del fascista prof. Pietro Fedele (nulla a che fare con la riccioluta ministra Valeria Fedeli!), il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione affrontò il problema delle lauree in Italia, risolvendolo così: quando uno studente non riusciva a superare l’esame in una determinata materia, poteva ugualmente conseguire la laurea senza ripetere la prova d’esame. A condizione, però, che compensasse la bocciatura, superando l’esame in un’altra materia in sostituzione di quella sgradita o difficile. Sembra di vivere nel 1968; e invece siamo nell’Italia fascista del 1927! E, per giunta, a pochi metri di distanza dalla Riforma Gentile, considerata da quasi tutti, sino ad oggi, una sorta d’ingombrante monolito non scalfibile né modificabile.
E se qualcuno si dovesse meravigliare per questa forma di lassismo statale a soli tre anni dall’entrata in vigore della severissima Riforma Gentile, sappia che questa Riforma subirà stravolgimenti e adattamenti già nel ventennio, per non parlare del periodo repubblicano. Un utile esempio: l’esame di maturità voluto da Gentile era una prova difficilissima, atta a selezionare il meglio della futura classe dirigente, una prova che oggi metterebbe in qualche difficoltà un giovane liceale aspirante alla Normale di Pisa.
L’esame di maturità classica o di maturità scientifica si basava su quattro prove scritte, articolate in quattro giorni (1. Italiano; 2. Versione dal latino in italiano; 3. Versione dall’italiano in latino; 4. Versione dal greco in italiano, per il classico; e 1. Italiano; 2. Latino; 3. Matematica; 4. Lingua straniera, per lo scientifico); e su una prova orale che normalmente si articolava in due giornate (un giorno tutte le materie del gruppo letterario; un altro giorno, tutte le materie del gruppo scientifico). Totale delle giornate di esami per ogni singolo studente maturando: 4+2=6.
Ho detto “tutte le materie”; e aggiungo di tutti e tre gli anni del liceo classico (non erano compresi i due anni del ginnasio, sol perché lo studente ginnasiale aveva dovuto superare a suo tempo un difficile esame di ammissione per passare al liceo classico) e di tutti e cinque gli anni dello scientifico! Proprio così, perché per Gentile i programmi non erano riferibili al singolo anno scolastico, bensì all’intero corso liceale, in quanto programmi di esame e non di studio.
La Commissione esaminatrice era costituita esclusivamente da docenti esterni (quasi tutti universitari) e gli esami erano tenuti fuori sede. Lo studente aveva tre possibilità: essere promosso a giugno o settembre; essere rimandato agli esami di riparazione; essere respinto a giugno o a settembre. Non era prevista la foto sul giornale per chi otteneva il massimo dei voti.
Se poi diamo una sbirciata al bollettino di guerra dell’anno scolastico 1924/25, vediamo che i promossi (tra giugno e settembre) furono il 59,5% alla maturità classica; e 54,9% alla maturità scientifica. Un’ecatombe!
Facile immaginare le reazioni contro Gentile. Magari non troveremo masse popolari che scesero in piazza, perché l’Italia di allora aveva il problema non già della scuola di massa, bensì quello dell’analfabetismo di massa. Ma i potentati in genere, gli stessi gerarchi fascisti, i gestori delle scuole private, i papà dei figli di papà, ecc., fecero salire la protesta sino a Roma. Per cui il ministro Pietro Fedele (sempre da non confondere con la riccioluta ministra Valeria Fedeli!) pose mano, bon gré mal gré, a ritocchini, aggiustamenti e stravolgimenti della Riforma Gentile (ma non ci avevano detto, per quasi mezzo secolo, che la Riforma Gentile fu una riforma fascistissima che, come una pietra tombale, gravò sulla scuola italiana sino al 1968?). Sicché il grande filosofo siciliano ebbe già modo di misurare il minaccioso fronte dei suoi avversari che stavano dentro e fuori il partito fascista.
In verità, orribili furono gli anni Venti per l’Italia, ma anche per Gentile. Man mano che egli si va appiattendo sulle posizioni di Mussolini, perde le simpatie del mondo liberale rappresentato soprattutto da Croce. Un crescendo di avvenimenti gravissimi si va sviluppando in direzione autoritaria: il 10 giugno 1924, viene assassinato il deputato socialista Giacomo Matteotti; ai primi di luglio 1924, Mussolini ricorre a un rimpasto del suo primo governo ed esclude Gentile, che verrà sostituito da Casati; il 21 aprile 1925, Gentile si fa promotore di un Manifesto degli intellettuali a favore del fascismo; il 1° maggio dello stesso anno, Croce lancia una Protesta degli intellettuali antifascisti; il 6 giugno 1925, viene arrestato Gaetano Salvemini; il 21 giugno dello stesso anno viene aggredito a bastonate Giovanni Amendola.
Tra la fine del 1925 e il 1926, vengono adottate le “leggi fascistissime”, che porteranno a diversi e sostanziali mutamenti nell’ordinamento dello Stato italiano: abolizione del diritto di sciopero e legge sulla stampa; istituzione del Gran Consiglio del Fascismo; confino di polizia; istituzione del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato; approvazione della legge per cui il capo del governo (Mussolini) non risponde più al Parlamento, bensì al capo dello Stato (il re).
Aggiungiamo che il 26 febbraio 1926, muore in Francia il giovane Piero Gobetti, già più volte aggredito e bastonato a Torino dai fascisti. Il giorno 8 novembre 1926 è arrestato Antonio Gramsci, che verrà dichiarato decaduto come deputato, e uscirà dal carcere, in gravissime condizioni di salute, il 21 aprile 1937, per morire dopo alcuni giorni, all’alba del 27 aprile, nella clinica “Quisisana” di Roma.
Ho già detto che gli anni Venti furono orribili non solo per l’Italia, ma anche per Gentile. Ebbene, pensiamo alla polemica che, almeno dal 1913 in poi, va crescendo fra Croce e Gentile: polemica filosofica prima, poi sempre più polemica politica, che rischiava ad ogni passo di seppellire anni di fervente e feconda collaborazione fra i due, anni di reciproca stima e rispetto, anni di fraterni rapporti che non potevano non coinvolgere la benestante famiglia Croce e la modestissima famiglia Gentile.
A tal proposito, ricordo sempre con commozione e trasporto affettivo la testimonianza che Orio Vergani offrì, sul “Corriere della Sera” del 1956, riguardo alla vita privata di Gentile nel 1917. In quell’anno di guerra, il prof. Gentile aveva quarantadue anni, ed era già un filosofo autorevolissimo e un intellettuale di caratura internazionale, mentre Orio Vergani era un ragazzotto di diciotto anni che lavorava come redattore al “Messaggero della Domenica” di Roma, e condivideva la stanza della redazione con dei grossi calibri come Pier Maria Rosso di San Secondo, Luigi Pirandello e Grazia Deledda.
Un giorno Pirandello si trovò fra le mani un articolo di Gentile troppo lungo per la pubblicazione; ma non se la sentiva (lui, Pirandello!) di tagliare cento righe del filosofo. Si trovò allora una soluzione sulla pelle del più piccolo: sicché il giovanissimo Vergani, timido e per giunta balbuziente, fu mandato, sotto mentite spoglie di fattorino, a consegnare le bozze dell’articolo direttamente a casa di Gentile, che allora abitava in uno squallido condominio in via Palestro.
Quando fu vicino alla porta d’ingresso, Vergani, già preoccupato dal fatto che Gentile si arrabbiasse, fu attratto da «una infantile cagnara» che proveniva dall’interno. Forse il giovane Vergani, che credeva di andare nel sacro tempio della dea Filosofia, pensò d’avere sbagliato indirizzo. Ma poi si fece coraggio e bussò. Gli aprì una donna; e gli disse che il professore stava mangiando. Ma subito una voce ordinò di far passare.
Fu così che il timido Vergani si trovò al cospetto del Nume: Giovanni Gentile, il grande filosofo, stava a capo di una tavolata di ragazzi, i suoi figli.
Alla comunicazione che bisognava tagliare cento righe nelle bozze, Gentile non fece una piega e disse soltanto che prima doveva mangiare. E poi aggiunse: ma anche questo ragazzo deve mangiare. Lo vuoi o non lo vuoi un piatto di minestra? Non fare complimenti. Ragazzi stringetevi un po’, e uno vada a cercare una sedia. D’altra parte, Gentile sapeva bene che, in quegli anni, la fame era una compagna fedele e affezionata di tanti italiani! E fu così che l’imbarazzatissimo Vergani dovette pranzare con il filosofo, che gli scodellava un bel piatto di minestra brodosa, rinforzata di tanto pane, come usavano fare le masse derelitte della Sicilia.
Gentile non parlava più: su un angolo della tavolata si era messo a guardare le bozze, senza interrompere il ritmo delle cucchiaiate e senza perdere di vista i suoi ragazzi.
Alla frutta, Vergani si accorse che le pesche erano contate e che la sua, ovviamente, non c’era per il semplice fatto che non era stata prevista. Perciò, ringraziando, disse che non la voleva. Ma Gentile insistette. E, ponendogli quasi con forza affettuosa la pesca nella mano, disse bonariamente: «Per mia moglie e per me ne basta una sola».
Questi fu, dalla nascita alla morte, l’uomo Giovanni Gentile: il siciliano (quello autentico) che può arrivare in cima al successo, ma non dimentica né rinnega le sue radici; il patriarca che si spende per i figli e per gli allievi; l’isolano che non è isolato, perché con tutti parla la lingua del cuore; l’uomo d’intelligenza superiore, che è superiore anche negli impeti passionali; l’amico fedele, ma non passivo, che sa dire a se stesso e agli altri: a torto o a ragione è il mio amico. Questi fu Giovanni Gentile, con i suoi meriti e le sue colpe.
Ma, tornando alla polemica fra Croce e Gentile, vale la pena riportare per intero (e pesare parola per parola) una bellissima lettera che il filosofo siciliano scrisse a Croce, in data 23 ottobre 1924, quando il solco fra i due «filosofi amici» si era fatto sempre più profondo e avvelenato: «Mio caro Benedetto, apprendo con dolorosa sorpresa che tu sei già passato per Roma e sei tornato a Napoli. Io speravo che al tuo passaggio in questi giorni ci saremmo visti, e desideravo parlare un po’ a lungo con te a voce. Desideravo sopra tutto domandarti se era vero (che mi pare impossibile) ciò che m’aveva, benché alquanto oscuramente, detto Casati, che tu eri tanto scontento di me da volerla rompere; e scontento per motivi d’ordine morale. Ho fatto parecchie volte esami di coscienza; fatto ogni sforzo per frugare e rifrugare nella memoria. Ho trovato che qualche volta gli atti miei potevano esserti spiaciuti; come ho trovato che dalla parte tua non c’era stata sempre una grande cura per risparmiarmi ogni dispiacere. Ma, tutto sommato, son venuto sempre alla conclusione che nulla ci sia stato da attenuare, nonché spezzare, quel vincolo che ho sempre considerato indissolubile, di reciproca stima e di affetto reciproco che ci lega da tanti anni. M’inganno? Non ti chiedo una lunga lettera che ti costringa a rimescolare cose che so ad ogni modo dolorose all’animo tuo, come al mio. Ti chiedo soltanto due parole franche e nette, quali che esse debbano essere, ma che vengano dal fondo del tuo cuore. Malgrado tutto, io sarò sempre il tuo Giovanni».
Questa lettera giunse all’indomani a Croce (miracoli delle Poste di allora!); e lo stesso giorno, il 24 ottobre 1924, il filosofo napoletano rispose in modo impeccabile alla sua maniera: con molta logica, molta prudenza, e poco spazio a quel cuore cui aveva fatto appello Gentile. Sta di fatto che, dopo queste due lettere, s’interruppe uno dei carteggi più importanti della storia italiana fra Otto e Novecento.
Per un attimo, andiamo indietro nel tempo: era il 27 giugno 1896, quando il trentenne e già affermato Croce scrisse per la prima volta una cartolina postale al ventunenne Giovanni Gentile: «La sua erudizione è sobria e calzante. Ella rifugge dalle generalità, e le conclusione cui giunge mi paiono esattissime». Croce fu in tutta la sua lunga vita un maestro severo ma generoso per tantissimi giovani. E quella volta, di fronte alle carte di un giovanissimo Gentile, non ebbe dubbi: aveva di fronte a sé un autentico fuoriclasse.
Alla fine degli anni Venti, quando la rottura con Croce e col mondo liberale è ormai cosa fatta, ecco che un colpo micidiale viene inferto alla Riforma Gentile con i Patti Lateranensi del 1929. Senza dubbio, Gentile aveva riservato un ruolo esclusivo all’educazione cattolica solo nella scuola elementare, e di questo gli erano grati alcuni ambienti del cattolicesimo; ma alla fine egli era riuscito a scontentare l’arco politico anticlericale, senza conquistare la piena simpatia dei cattolici. Sarà invece Mussolini ad attraversare il Rubicone, e a firmare quel Concordato che dava nelle mani della Chiesa cattolica tutta l’educazione religiosa di tutta la scuola italiana. E quando in Senato si discuterà l’approvazione del Concordato tra Chiesa e Stato italiano, Gentile, obtorto collo, voterà a favore, mentre Croce voterà contro con un discorso che rimarrà nella storia.
Nello stesso 1929, dopo l’approvazione del Concordato, si celebrò a Roma il VII Congresso nazionale di filosofia. Fu l’occasione per passare in rassegna le forze in campo dei filosofi italiani alla presenza di Mussolini, che inaugurò il congresso. Si capì subito che i cattolici, capeggiati da padre Agostino Gemelli, intendevano confermare definitivamente il loro trionfo dopo il Concordato, non lasciando spazio né alla filosofia atea, agnostica e anticlericale, né a quella idealistico-gentiliana che stentava a riconoscere il monopolio dell’educazione ai cattolici.
«Il professore – tuonò con voce vigorosa e impressionante padre Gemelli – se è idealista o positivista non conta, non ha da insegnare quel sistema filosofico nella verità del quale crede lui, ossia non ha da insegnare una filosofia negatrice e distruggitrice del Cristianesimo, ma invece, in quanto funzionario dello Stato, di uno Stato che si proclama cattolico e che solennemente firma un trattato in cui riconosce il fondamento cattolico dell’istruzione, ha il dovere di insegnare una filosofia che sia in armonia con l’insegnamento della religione; insomma, ha da insegnare cattolicamente». E, affinché non ci fossero dubbi sugli strali contro Gentile, padre Gemelli aggiunse: «In un paese cattolico, ai giovani figli di genitori cattolici, nessuno ha il diritto di propinare il veleno dell’idealismo […] veleno mortale perché uccide ciò che è sostanziale per l’anima cristiana». E aveva ragione padre Gemelli, perché parlava agitando il trofeo politico del Concordato fresco di firma.
Rispose con altrettanto vigore il filosofo idealista Gentile: «Professor Gemelli, senza l’idealismo voi non sareste qui; e non ci sarebbe l’Università Cattolica; e non ci sarebbe neppure quel movimento neotomista che voi con tanto ardore venite promuovendo». E aveva ragione pure il perdente Gentile, perché l’idealismo gentiliano aveva persino rotto il fronte laico e anticlericale, per favorire un’apertura verso i cattolici.
Comunque sia, in quel congresso, l’intellettuale cattolico padre Gemelli pronunciò la “condanna a morte” della filosofia gentiliana. Basterà aspettare poco più di un decennio, per vedere un intellettuale comunista pronunciare la condanna a morte dell’uomo Giovanni Gentile.
Per intanto, vediamo che le durissime parole di padre Gemelli non erano campate in aria: il 22 giugno 1934, infatti, la Chiesa metterà all’Indice dei libri proibiti le opere dei due più grandi pensatori idealisti del Novecento: Croce e Gentile. Il Sant’Uffizio farà così il miracolo di mettere assieme, nella condanna, i due dioscuri dell’idealismo che si fronteggiavano da moltissimi anni «l’un contro l’altro armato».
In ogni caso Mussolini, pur riconoscendo il valore eccezionale di Gentile, la profondità del suo pensiero, la sua autorevolezza in campo mondiale, e la sua ammirabile qualità di organizzatore culturale, non era disposto a difenderlo incondizionatamente sia dagli attacchi cattolici sia da quelli degli stessi fascisti. Perciò, durante gli anni Trenta, il filosofo siciliano condusse una vita relativamente appartata. Egli non condivise, ma non contestò, le grandi scelte politiche dello Stato fascista alla vigilia dei fatali anni Quaranta: e cioè la Riforma Bottai, che per molti aspetti “riformava” la Riforma Gentile; l’alleanza soffocante con la Germania; le leggi razziali.
Poi venne la guerra in Italia. E con la guerra il ritmo della storia italiana subì un’accelerazione inimmaginabile. Bisogna dire in ogni caso che, sin dai primi mesi dello scoppio della seconda guerra mondiale, con l’infame invasione e la spartizione dell’infelice Polonia da parte del dittatore nazista Hitler e del dittatore comunista Stalin, si capì che si stava perdendo ogni sentimento di umana pietà verso le popolazioni civili, inermi e innocenti; ogni cortesia cavalleresca verso il combattente nemico; ogni residuo rispetto delle convenzioni internazionali; ogni illusione che i contendenti, sia i vincitori sia gli sconfitti, potessero un giorno sedere al tavolo della pace. Si capì sempre più che la lotta era senza quartiere, senza limiti, senza scrupoli; lotta sino all’ultimo uomo, sino alla morte, sino all’annientamento della nazione nemica.
Vivaddio, in ogni teatro di guerra c’è stato sempre un fronte interno e un fronte esterno, ma allora si capì che quella guerra mondiale si costituiva sempre più come una guerra totale, che non distingueva affatto il militare dal civile, e che unificava tutti i fronti di guerra non solo sui cieli, sulla terra e sui mari, ma soprattutto sul fronte interno della produzione bellica, dell’economia in genere, sul fronte della produzione di viveri per i soldati e per le popolazioni affamate, sul fronte psicologico, cercando di sfiancare le popolazioni civili con bombardamenti, con il ricorso alla propaganda radio, con l’uso spregiudicato dei servizi segreti.
Lo si capì con la cinica invasione tedesca di tanti paesi neutrali, con i feroci bombardamenti dell’aviazione tedesca su Londra e su altre città inglesi; lo si capì con l’infame attacco giapponese a Pearl Harbor, con le immense e crudeli carneficine dei giapponesi in Cina; lo si capì con i bombardamenti aerei degli alleati sui quartieri del centro delle città italiane, tedesche e giapponesi, alcune delle quali, come Dresda nel 1945, si sciolsero come cera al sole; lo si capì quando nei pressi di Montecassino, nel maggio 1944, il comando alleato in Italia fece ricorso a truppe marocchine (i goumiers francesi) a cui fu data licenza di uccidere i civili e di stuprare le donne, pur di rompere il fronte tedesco. Fu un inferno per le donne italiane violentate in massa dai marocchini in divisa francese; e fu il funerale dell’umanità.
Restava solo da sganciare la bomba atomica. E puntualmente fu fatto sulle città giapponesi di Hiroshima e di Nagasaki.
Il 9 luglio 1943, le truppe alleate effettuarono un grande sbarco sulla costa sud-orientale della Sicilia. Senza trovare una vera e propria resistenza, la settima armata americana e l’ottava armata inglese occuparono la Sicilia. Fu un fatto gravissimo sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista politico: infatti, con l’occupazione della Sicilia, iniziava l’invasione del territorio nazionale italiano. E non ci fu proprio una chiamata alla difesa della Patria (come era successo dopo il disastro militare di Caporetto nel 1917), ma un fuggi fuggi generale, un crollo degli apparati militari oltre che statali. Si capì che la guerra era perduta.
Infatti, a meno di venti giorni di distanza dallo sbarco in Sicilia, nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del Fascismo, presente Mussolini, votò a favore dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi contro Mussolini. Nello stesso 25 luglio, Mussolini si reca dal re per comunicargli l’esito della votazione. Dopo circa venti minuti di colloquio col re, Mussolini fa per lasciare la residenza del monarca, ma viene arrestato dai carabinieri per ordine del monarca. A tarda sera dello stesso 25 luglio, la radio annuncia che il re ha accettato le dimissioni di Mussolini da capo del governo, nominando al suo posto il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.
In quel momento l’Italia sperò nella fine della guerra, della fame, dei lutti. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Intanto arrivò l’armistizio: il 3 settembre 1943, a Cassibile nel siracusano, fu firmato l’armistizio che verrà reso noto l’8 settembre dello stesso anno.
Fu così che l’Italia si trovò divisa in due, con la monarchia e le truppe anglo-americane al sud; con la repubblica sociale di Mussolini e le truppe tedesche al nord. Non si poteva immaginare una condizione peggiore per la nazione italiana; non si poteva immaginare quanto sangue sarà versato e quanta crudeltà sarà manifestata in una guerra che, oltre ad essere guerra contro lo straniero, fu guerra civile, guerra fratricida.
Che il bellum civile, o bellum intestinum, fosse la peggiore e più crudele guerra lo sapevano benissimo i nostri padri nell’antica Roma, con Mario e Silla, con Cesare e Pompeo, con Marco Antonio e Ottaviano. Noi lo sperimentammo, tra il 1943 e il 1945, sulla nostra pelle già martoriata.
Così, la frattura fra Croce e Gentile divenne geografica, oltre che politica: il primo si trovò al sud; il secondo al nord. Quest’ultimo, alla nascita della repubblica sociale italiana e al ritorno di Mussolini in Italia, non seppe resistere ai pressanti inviti che tanti politici fascisti, e personalmente lo stesso Mussolini, gli fecero per un suo prestigioso ritorno sulla scena politica. Gentile, che era rimasto fascista pur vivendo nell’ombra in cui era stato accantonato, ora s’illude di presentarsi come il vate di un fascismo che deve chiamare alla concordia nazionale tutti gli italiani, fascisti e antifascisti, per continuare una guerra per la salvezza dell’Italia.
Nel gennaio 1944, apparve un suo articolo che non destò molta attenzione, mentre è la più chiara testimonianza della dolorosa condizione di un uomo della vecchia Italia, dell’Italia figlia del Risorgimento, di un uomo che non sa accettare la fine della Patria, e non sa immaginare un mondo di valori culturali, politici e morali senza la Patria: «Per quale Italia ora vivere, pensare, poetare, insegnare, scrivere? Giacché se non impossibile, molto difficile sarà sempre aprir l’anima all’espansione sia pure dell’astratto pensiero, senza appoggiarsi alla Patria, ossia a quel patrimonio spirituale di cui ognuno vive, senza partecipare a quell’eterno dialogo dei vivi coi morti, in cui l’Italiano può sentirsi Italiano. E quando la Patria sparisce, manca l’aria e il respiro. Manca la voglia di guardarsi intorno, di cercare lo sguardo degli altri, che non hanno più nulla da dirti e nulla si aspettano da te».
Se sfrondiamo il concetto di Patria dall’alone retorico otto-novecentesco, se consideriamo ben bene la nostra condizione di anonimi abitanti di un villaggio globale, mostruosi umanoidi senza identità, senza radici, senza genere, senza passato e senza avvenire, allora possiamo cogliere l’afflato profetico di questo grande filosofo che vide molto più in là e molto più in profondità di coloro che pur progettavano un’Italia post-bellica, nella pace e nella giustizia sociale.
Parole fatalmente anacronistiche e votate all’insuccesso, quelle di Gentile, perché mescolate assieme a un’assurda fedeltà a un cadavere di fascismo e a un Mussolini che, nelle mani dei tedeschi, era ormai una sorta di pupazzo senza segatura, che si andava afflosciando di qua e di là.
E Gentile scontentò tutti. Scontentò non solo i fascisti che cercavano la rappresaglia e la vendetta contro la guerriglia partigiana; ma anche gli antifascisti: sia quelli che speravano in un ritorno all’Italia liberale e prefascista, sia quelli che sognavano un’Italia nuova, rivoluzionaria, affratellata con la dittatura comunista sovietica.
Ma torniamo a Gentile. Nel 1943, un po’ prima dello sbarco alleato in Sicilia nel mese di luglio, il filosofo compie due atti importantissimi per il suo pensiero e per la sua vita. In primo luogo, porta a termine il suo libro più bello, Genesi e struttura della società, che verrà pubblicato nel 1946, due anni dopo la sua morte. Nell’Avvertenza a questo libro, egli fa una confessione al lettore: «Questo libro è stato scritto a sollievo dell’animo in giorni angosciosi per ogni italiano e per adempiere un dovere civile, poiché altro non ne vedevo innanzi a me pensando a quell’Italia futura per cui ho lavorato tutta la vita».
Mostrando il dattiloscritto di questo suo libro a un suo amico, l’antifascista Mario Manlio Rossi, Gentile disse con fierezza e con un certo disdegno: «I vostri amici, se ora vogliono, possono uccidermi. Il mio lavoro nella vita è finito».
Cala la sera su Giovanni Gentile. Il vecchio leone è stanco; i suoi legami sociali si sono costantemente diradati; troppe ferite si porta addosso. L’anno prima, nel 1942, gli era morto, a soli trentacinque anni, il figlio Giovanni, un valente scienziato, professore di Fisica Teorica all’Università di Milano. Un colpo per qualunque padre. Una vera mazzata per il patriarca Gentile!
Su questo suo immenso lutto ebbe a scrivere a caldo: «Non ho perduto soltanto un figlio giovane, ho perduto il figlio che era il più amato dei miei scolari (più amato anche perché non mi ripeteva, e lavorava in campo diverso dal mio); ho perduto un compagno della mia vita e della mia fede, che da 35 anni mi era vicino a dividere le mie passioni e a fortificarle col suo lavoro, col suo carattere, con la sua parola, col suo stesso aspetto».
E scrivendo a un’amica una lettera forse intrisa di lacrime, egli apre il suo cuore: «Giovannino era un tesoro di sentimenti, di ingegno, di carattere; e io ero orgoglioso di lui come del meglio di me stesso […] Oh sì, troverò ancora la forza di vivere, anche per i due bambini bellissimi che egli mi ha lasciato, il secondo dei quali è il suo ritratto. Ho il dovere di vivere. Ma com’è fosca la sera imminente».
Purtroppo, il 1943 non riservò solo questo dolore a Gentile: il figlio Federico fu deportato in Germania dai nazisti; e l’altro figlio, Fortunato, fu colpito da un male incurabile.
Ma andiamo all’altro atto che nel 1943, oltre al libro Genesi e struttura della società, segnerà il destino del filosofo fascista: il suo Discorso agli Italiani, tenuto in Campidoglio il 24 giugno 1943, prima dello sbarco alleato in Sicilia e ovviamente prima della caduta di Mussolini.
Su ciò bisogna dire che se il libro Genesi e struttura della società fu il canto del cigno del filosofo, il Discorso in Campidoglio fu una triste e alquanto retorica, infelice e provocatoria, chiamata alla speranza e alla fede fascista per gli Italiani, i quali coltivavano una sola speranza: la caduta del fascismo e la fine della guerra.
Peggio ancora, quel Discorso fu l’inizio della fine di Giovanni Gentile.
Immediatamente, il 26 giugno, a soli due giorni dal Discorso gentiliano in Campidoglio, Radio Milano-Libertà trasmise un minaccioso commento di Palmiro Togliatti, che stava a Mosca: «No, signor filosofo, tra il fascismo e la grande massa degli italiani passa lo stesso rapporto che tra il bastone e colui che è bastonato […] Vogliamo la pace e la libertà, e con esse la nostra salvezza. Se il signor Gentile non lo capisce, peggio per lui. La santa rivolta della nazione contro i suoi tiranni ci libererà finalmente anche di questo filosofo venduto ai nemici della patria».
Qualche nota a margine di questo commento togliattiano. Sotto l’ombrello della feroce dittatura stalinista, Togliatti non solo ebbe l’ardire di predicare la pace e la libertà, ma addirittura osò impartire, con spocchiosa insolenza, lezioni di coerenza morale e politica sia a Gentile sia a Croce. Proprio lui, che ballò sempre docilmente ed entusiasticamente tutte le danze macabre stabilite da Stalin, ora contro i bolscevichi Kamenev, Zinov’ev e Bucharin, ora contro i socialisti condannati come social-fascisti, ora contro gli anarchici nella guerra di Spagna, ora contro la Polonia invasa e squartata da Hitler e da Stalin. E con la coerenza dell’astuto opportunista, totus politicus, ora fa il marxista sputando sui concetti “borghesi” di patria, di nazione, di Stato, per idolatrare la lotta di classe, l’internazionalismo e la superiorità del proletariato; ora, con l’agilità del consumato trapezista politico, parla di guerra patriottica di tutta la nazione (e la lotta di classe?), di rivolta della nazione (e la rivoluzione proletaria?) e di difesa della patria!
Proprio lui, che meritò un severissimo giudizio («mi fai pena!») da parte di un Antonio Gramsci che gli scrive indignato dal carcere; proprio lui, che a Mosca non mosse mai un dito in difesa di tanti sventurati comunisti italiani in Russia, eliminati dalla Ghepeù di Stalin; proprio lui, che a Mosca non fiatò e non mosse un dito neppure per difendere suo cognato Paolo Robotti!
Dopo la sentenza di morte pronunciata via radio da Togliatti contro Gentile («La santa rivolta della nazione contro i suoi tiranni ci libererà finalmente anche di questo filosofo venduto ai nemici della patria», siamo costretti a scendere a un livello più basso per scovare due maramaldi che fecero gli eroi antifascisti contro un Gentile tristemente ridotto a un fantasma di sé e di un passato politico troppo vicino e troppo pesante.
Alla caduta di Mussolini, Pietro Badoglio formò un governo in cui stava, come ministro dell’Educazione nazionale, Leonardo Severi. Costui era stato capo di gabinetto di Gentile nel 1922-24 e zelante collaboratore del filosofo nel realizzare la “fascistissima” Riforma Gentile. Costui, per protezione e intervento del fascista Gentile, era stato nominato consigliere di Stato, durante la dittatura fascista. Ebbene, una volta entrato nel governo Badoglio in qualità di ministro dell’Educazione nazionale, Leonardo Severi riceve una prima lettera di congratulazioni dal suo vecchio amico e protettore Gentile, il quale, coglie anche l’occasione per esprimere il desiderio che il proprio figlio Benedetto (gli aveva dato questo nome in onore di Benedetto Croce), restasse in Italia in quei giorni di tempesta. Per intenderci meglio, un altro figlio di Gentile, Federico, sarà deportato in Germania.
A questa lettera, il neoministro Severi risponde che Benedetto resterà in Italia e affettuosamente, da vecchio amico, conclude: «Il peso è grave, e da lei e da alcuni altri che mi vogliono bene si fa soverchio affidamento sulle mie modeste forze […] Mi ricordi all’Eccellenza Sua signora e a tutta la sua cara e simpatica Famiglia».
A questa lettera di un Gentile amico e padre, seguiranno altre tre lettere del Gentile professore al ministro Severi: concorsi universitari; segnalazione del valente storico fascista e poi comunista, Delio Cantimori, per dirigere la Normale di Pisa; e altre questioni universitarie riguardanti il ministero dell’Educazione nazionale. Nulla di indiscreto né di compromettente in quelle tre lettere, anche se alquanto inopportune, data la grave e caotica situazione nazionale.
A questo punto, esce fuori il Maramaldo che sonnecchiava nell’uomo Severi, tipico esemplare dell’italiano servile, devoto a tutti i regimi: insomma, all’insaputa del filosofo, appare sul “Giornale d’Italia” una lettera aperta del ministro Severi a Gentile: «Eccellenza, […] Lei mi dà consigli su diversi argomenti e nessuno più di me sa quale bisogno io abbia del consiglio di autorevoli persone. Ma, facendo forza ai personali sentimenti di gratitudine (io Le avrò imperitura gratitudine per il bene che mi fece e la fiducia che sempre mi dimostrò), sono costretto a dirLe per debito di sincerità che non posso accettare il Suo consiglio perché Lei dopo il 1924 e sino all’infelice discorso del 24 giugno di quest’anno non ha esitato a mettersi a servizio della tirannia – e quale tirannia – e con l’autorità allora indiscussa del Suo nome ha contribuito più che tanti altri a rafforzarla. I giovani, la scienza, la verità, sono stati traditi a tal punto che un ministro dell’educazione nazionale d’un governo che rispristina la libertà non può più averla fra i suoi consiglieri».
Insomma, dopo avere servito per vent’anni la tirannia – così la chiama lui stesso – il ministro Severi scopre la libertà e la dignità sulla via del treno Damasco-Badoglio; e impartisce pubblicamente, all’insaputa di Gentile, una nobile lezione di moralità e di civiltà a favore dei giovani, della scienza e della verità.
Mi chiedo: non sarebbe stato più dignitoso, e meno spietato, un “bel tacere”, troncando quindi i rapporti con Gentile, senza rispondere né privatamente né pubblicamente?
Vuoi per forza rispondere? Vuoi per forza maramaldeggiare contro un vecchio filosofo che non sa saltare sul carro dei nuovi vincitori, e non ha capito appieno come la morte più spietata e più crudele stia precipitando addosso all’Italia? Rispetta, a questo punto, i princìpi dell’onore e della riservatezza (allora non si chiamava privacy!), scrivendogli in privato una risposta la più severa possibile.
E invece no. Come l’italiano Fabrizio Maramaldo uccise l’italiano Francesco Ferrucci morente, così tu hai voluto umiliare un vecchio, hai voluto “uccidere un uomo morto”, con una lettera aperta veramente ignobile, con un documento scellerato che si addice a tutti gli scaltri servitori di due regimi.
Ma andiamo piuttosto all’ultimo dei Maramaldi che si servì, anch’egli, di una lettera aperta.
Il 24 febbraio 1944, il già comunista, poi fascista, e poi comunista prof. Concetto Marchesi pubblica sul quotidiano socialista di Lugano, “Libera Stampa”, un articolo dal titolo Rinascita fascista e concordia di animi. L’articolo di Concetto Marchesi si conclude così: «Quanti oggi invitano alla concordia, invitano a una tregua che dia temporaneo riposo alla guerra dell’uomo contro l’uomo. No: è bene che la guerra continui, se è destino che sarà combattuta. Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino. La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, finché l’ultimo traditore fascista non sia sterminato. Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!»
Il latinista prof. Marchesi, con lo stile retorico e tribunizio di quel tempo, fa sapere ai combattenti della Resistenza (questo articolo fu ripreso e diffuso da moltissimi fogli clandestini!) che il “popolo”, con cui lui aveva un filo diretto, aveva emesso la sentenza secca e inappellabile, giusta e sacrosanta, di condanna a morte del prof. Gentile.
Il catanese prof. Marchesi era stato sempre, a detta di Italo Calvino, il più pessimista e solitario di tutti i comunisti italiani. A dire il vero, Concetto Marchesi militò nel Partito comunista sin dalla sua fondazione. E a dire tutto il vero, egli da professore universitario giurò nel 1931 fedeltà al re e al regime fascista; poi giurò una seconda volta nel 1935, quando divenne socio dell’Accademia dei Lincei; e poi giurò ancora una terza volta nel 1939, quando divenne membro della fascistissima Accademia d’Italia istituita da Mussolini. Prenderà la tessera del Partito Nazionale Fascista, come ammetterà lui stesso, ai tempi della sua fuga in Svizzera, nel primo interrogatorio a Bellinzona (11 febbraio 1944).
A quanto pare, se è vero che il prof. Marchesi fu «il più pessimista e solitario di tutti i comunisti italiani», è anche vero che fu pure uno dei più confusi e confusionari e sconcertanti comunisti italiani, tante volte causa di “preoccupazioni” per i capi comunisti, e sempre pronto ora a giustificarsi con la disciplina di partito, ora a calpestarla in base alle sue considerazioni.
Ad ogni modo, la sentenza di morte per Giovanni Gentile fu eseguita. Il 15 aprile 1944, il vecchio filosofo venne assassinato da un gruppo di partigiani comunisti. Quella mattina, Gentile tornava, come spesso gli accadeva, dal Palazzo della Provincia di Firenze, per protestare contro alcuni arresti operati dai fascisti. Giunto al cancello di villa Montalto, messa a sua disposizione da un amico, si fermò in macchina in attesa che l’autista aprisse il cancello. In quel momento i giovani partigiani, fingendosi studenti, si accostarono alla macchina come per parlare col professore, che subito abbassò il vetro per ascoltarli. Invece, parlò solo una scarica di proiettili che colpirono mortalmente Gentile.
Riavutosi dalla sorpresa, mentre i partigiani si dileguavano, l’autista portò immediatamente in macchina il vecchio agonizzante all’ospedale. E poiché in questa tragedia, che si svolge all’interno della più grande tragedia italiana, nulla fu risparmiato a Gentile e alla sua famiglia, il filosofo siciliano spirò fra le braccia del figlio Gaetano, che era medico proprio in quell’ospedale.
Morire fra le braccia di un suo figlio fu forse l’unica consolazione per quel patriarca che nel 1917, in uno squallido condominio romano, distribuiva amore e minestra alla folla vociante dei suoi numerosi ragazzini.
A Gentile la “giustizia del popolo” non aveva perdonato i suoi continui appelli alla concordia nazionale. Ma la migliore rivincita di Gentile sulla “giustizia del popolo” fu quella che, all’immediato scatenarsi delle rappresaglie fasciste, la vedova e tutta la sua famiglia chiesero con chiara fermezza che non avvenissero rappresaglie. Per precisione, il figlio Benedetto fu inviato dalla famiglia Gentile a chiedere al capo della Provincia che non avvenissero rappresaglie o vendette, nello spirito di concordia nazionale diffuso da suo padre Giovanni Gentile.
Chiesi a suo tempo a mio nonno contadino e all’altro mio nonno operaio, se per caso loro facessero parte del tribunale del popolo che emise quella condanna a morte. Entrambi mi assicurarono che, pur non avendo avuto simpatie per il fascismo, nessuno li chiamò mai né in quella né in altre occasioni a far parte della giuria popolare. Eppure ne avrebbero dovuto far parte di diritto! Ci rimasi male. Non avevo da vantare i quattro quarti di nobiltà, ma almeno avrei potuto vantare l’appartenenza dei miei avi al tribunale del popolo!
Niente da fare! Peggio ancora, quando scoprii che le mie due nonne non fecero mai parte di quelle vecchie tricoteuses giacobine che, sferruzzando, assistevano con maligna soddisfazione alle esecuzioni sulla ghigliottina delle sentenze in nome del popolo. E, sferruzzando sferruzzando, videro passare il re, e poi Danton, e poi Robespierre, man mano ghigliottinati dalla giustizia del popolo.
Comunque sia, una certa approvazione se non istigazione a uccidere Gentile venne dagli inglesi. Da radio Londra, il colonnello Stevens definì Gentile «un filosofo arlecchino drappeggiato di croci uncinate». E poi, subito dopo l’assassinio, radio Londra considerò quel gesto «un atto di giustizia».
Purtroppo, nella giuria popolare che condannò a morte Gentile non solo non c’erano i miei nonni appartenenti al popolo italiano, ma non c’erano neppure tutti i componenti del CLN, Comitato di Liberazione Nazionale. Anzi, per dirla tutta, il CLN toscano si riunì e, con la sola astensione dei comunisti (non ebbero il coraggio di votare contro!), deplorò ufficialmente quel gesto.
La salma del più grande filosofo italiano tra Otto e Novecento fu tumulata nella Basilica di Santa Croce in Firenze, cioè nel «tempio dell’itale glorie» come lo definì Foscolo nei Sepolcri.
Un giovanissimo allievo fiorentino di Gentile, scrisse forse la cosa più bella e più equilibrata sul funerale del filosofo siciliano: «Nessun ministro o personaggio ufficiale ha sentito il bisogno immediato di rievocare alla radio o nei giornali l’opera e la figura di Giovanni Gentile, lasciandone l’incarico a un qualunque commentatore di Radio Roma; nessuna autorità ha avuto l’idea di dichiarare “lutto nazionale” la morte di Gentile [...]; infine la nostra propaganda non ha capito l’opportunità di trarre dal crimine inutile e ignobile quelle risonanze che a noi sembravano, per non dire legittime, ovvie, contribuendo così a suscitare, o se non altro a rinforzare, negli italiani onesti quello stato di calda tensione che è vitale per ogni rinascita. A supplire [...] a queste deficienze, ha provveduto il popolo di Firenze, che ha reso commosso omaggio a Giovanni Gentile, accompagnandone la salma all’ultima dimora». Il giovanissimo allievo di Gentile era il diciottenne Giovanni Spadolini.
Il grande Ferruccio Parri, piemontese serio e coraggioso, ben tre medaglie d’argento al valor militare nella prima guerra mondiale, leggendario capo partigiano delle Brigate Giustizia e Libertà col nome di battaglia Maurizio, la coscienza più pura della Resistenza italiana, presidente del consiglio dei ministri nel 1945, un uomo che aveva visto impavidamente scorrere fiumi di sangue nella prima guerra mondiale e poi nella lotta partigiana, sebbene favorevole alla condanna a morte di Mussolini, di fronte allo spettacolo disumano di Piazzale Loreto a Milano – dove si permise e si filmò e si fotografò lo scempio dei cadaveri appesi a testa in giù di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi fascisti – ebbe un moto di ribrezzo, di orrore e di repulsione, e parlò di “macelleria messicana”.
In verità, nella tempesta di violenza che tormentò l’Italia ininterrottamente dal 1915 al 1945, la “macelleria messicana” iniziò con l’uccisione di Gentile e si concluse a Piazzale Loreto.

                                             

                                                                                       (continua)
 

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