Dopo la strage di tutti i Proci per mano di Odisseo, il dio Hermes-Mercurio conduce le loro anime [psycái; ψυχαί] agli Inferi. Beninteso, qui, per il poeta dell’Odissea, le anime sono soltanto ombre o immagini [eidola; εἴδωλα] dei morti. E proprio qui, negli Inferi, i Proci trovano le ombre di numerosi eroi greci che si erano coperti di gloria nella guerra di Troia.
Entra allora in scena l’atrìde Agamennone, per un dialogo-confronto con il pelìde Achille. Ovviamente, nulla di simile allo scontro feroce fra Achille e Agamennone avvenuto in vita e descritto nell’Iliade. Qui l’ombra di Agamennone amaramente mette a confronto le grandiose onoranze funebri che furono riservate ad Achille, durante l’assedio di Troia, con l’ignobile trattamento che invece riservarono a lui – una volta tornato a casa come capo vittorioso dell’esercito greco – l’infedele sua moglie Clitennestra e l’amante di lei, Egisto:
«Tu nemmeno dopo la morte hai perso la tua fama, ma sempre
insigne fra tutti gli uomini sarà la tua gloria, Achille.
Ma per me che piacere è questo, che dipanai il gomitolo della guerra?
Al ritorno per me Zeus mi tramò misera morte
per mano di Egisto e della funesta mia moglie»[1].
Si nota bene come immutati restino in Agamennone i sentimenti di dolore, di vergogna e di rancore, per essere stato tradito e assassinato da Clitennestra ed Egisto. E quando – in assenza di Odisseo, che è ancora vivo – l’ombra di uno dei Proci parla dell’impeccabile comportamento di Penelope, allora l’infelice Agamennone non può esimersi dall’effettuare un paragone fra Clitennestra e Penelope: un paragone che ovviamente va a tutto vantaggio della seconda. Da qui il solenne discorso di Agamennone rivolto a Odisseo assente [allocutio in absentia], al fine di lodare Penelope, figlia di Icario:
«Beato figlio di Laerte, Ulisse dalle molte risorse,
sì, dunque, tu hai fatto tua una sposa dotata di grande virtù:
tanta saggezza di mente ha l’irreprensibile Penelope,
figlia di Icario, così presente ebbe nella sua mente Ulisse,
suo legittimo sposo. Per questo mai perirà la fama
della sua virtù, e fra gli uomini sulla terra splendido canto
creeranno gli immortali per la saggia Penelope»[2].
Agamennone scioglie così un inno alla «grande virtù» [megále areté; μεγάλη ἀρετή] dell’«irreprensibile» [amúmon; ἀμύμων] Penelope. Sicché imperitura sarà la «fama» [cléos; κλέος] della saggia moglie di Odisseo. Ma – e qui continua il paragone fra le due figure femminili – a Clitennestra, figlia di Tindaro, è riservata una pessima fama[3].
Quindi, nell’Odissea, risalta ancora l’opposizione fra fedeltà [pístis; πίστις] e infedeltà [apistía; ἀπιστία]. E se in precedenza tale opposizione si sviluppava nella reggia di Odisseo tra i servi fedeli e i servi infedeli, ora balza evidente l’opposizione tra la fedeltà di Penelope e l’infedeltà di Clitennestra.
Ma, in fondo, chi è Penelope? Innanzi tutto diciamo che Penelope è cugina di Clitennestra e di Elena. Infatti Icario, padre di Penelope, era fratello di Tindaro che, a sua volta, era padre di Clitennestra, di Elena, e dei due Dioscuri: Càstore e Pollùce.
Rispetto alle due sorelle (Clitennestra ed Elena), la cugina Penelope sta agli antipodi. Quest’ultima, infatti, è il simbolo della fedeltà coniugale, dell’amore per il marito e per il figlio, e della cura per la casa [oikos; οἶκος]; laddove Clitennestra ed Elena simboleggiano l’infedeltà, il tradimento e la morte.
Se poi ci riferiamo al famoso catalogo di stereotipi femminili – il Biasimo delle donne [jógos gunaicòn; ψόγος γυναικῶν] – tramandatoci dal poeta greco Semonide di Amorgo, possiamo ben dire che Penelope corrisponde al modello della “donna-ape”; mentre Elena e Clitennestra corrispondono a quello della “donna-cagna”.
Perciò, secondo Semonide, è beato colui che sposa la donna-ape:
«Questa, dall’ape. L’uomo che le càpita
è pur beato! A lei soltanto, biasimo
mai non s’appiglia, e prosperosa e florida
per lei divien la vita. Amata invecchia
con lo sposo ch’ella ama, e bella ed inclita
è la sua stirpe, insigne è tra le femmine
tutte, e la cinge una divina grazia»[4].
La donna-cagna, invece, è per l’uomo un’inesauribile fonte di guai. Essa, infatti, è donna doppia, falsa, finta, instabile, infedele e insopportabile:
«Una dal mare, e questa anima ha duplice.
Un giorno ride, è tutta lieta, e l’ospite
che la vedesse, ne farebbe elogio:
“Altra donna non v’è che questa superi,
fra quante sono, o piú piena di grazia!” –
Un altro giorno, invece, è insopportabile,
non la puoi né guardar, né presso fartele,
ma furïando va, come ai suoi cúccioli
la cagna intorno, orrendamente, ed ispida
con gli amici e i nemici, ed antipatica»[5].
A tal proposito, la dice lunga il fatto che, nel canto VI dell’Iliade, la bella e infedele Elena, rivolgendosi al cognato Ettore, definì se stessa come una «cagna funesta, lurida». Una cagna che non seppe invaghirsi di un uomo veramente valoroso, ma soltanto di quel bellimbusto di Paride, insensibile al biasimo degli uomini e alla vergogna:
«Cognato mio, davvero ch’io sono una cagna funesta,
lurida! Oh, se quel giorno che a luce la madre mi diede,
una maligna procella di venti m’avesse rapita,
o sovra un’alpe, o fra l’onde, fra i mille frastuoni del mare,
che m’inghiottissero i gorghi, che tanta sciagura non fosse!
Ma poi che tanti mali volean che seguissero, i Numi,
deh!, fossi almeno stata la sposa d’un uomo più prode,
non come questo, sordo degli uomini al biasimo e all’onta!»[6].
Elena, portatrice di morte [tanatefóros; θανατηφόρος] oltre che infedele, non ha saputo resistere alla tentazione dell’eros; e così ha tradito non solo il marito Menelao, ma anche la casa [oikos; οἶκος], dove lei avrebbe dovuto regnare come moglie e come madre.
Senza dubbio, questi accenti anti-femminili ci ricordano la Sesta Satira di Giovenale, dove il tema non è tanto quello delle “donne”, quanto piuttosto quello delle “mogli” e della loro impudicitia, ossia della loro infedeltà coniugale. Mogli che tradiscono i mariti con attori e gladiatori, e son capaci di seguire i loro amanti fino in capo al mondo, abbandonando casa e figli; o capaci persino di farsi prostitute sotto falso nome, pur di soddisfare la propria lussuria. Tra queste spicca Messalina, la moglie dell’imperatore Claudio:
«Quando la moglie si accorgeva che il marito dormiva,
osando l’Augusta meretrice mettersi dei cappucci da notte
e preferire al talamo del Palatino una stuoia,
lo abbandonava, con non più di una ancella come compagna.
Così, mentre una parrucca bionda nasconde i capelli neri,
entra nel caldo lupanare dalle tende vecchie
e nella stanzetta vuota, tutta per lei; allora nuda con i capezzoli
dorati si prostituisce inventando il nome di Licisca
e offre, o nobile Britannico, il tuo ventre.
Accoglie generosa chi entra e chiede il prezzo
e di continuo, sdraiata, assorbe i colpi di tutti.
Poi, quando il lenone manda via le sue ragazze,
triste se ne va e, l’unica cosa che può fare, per ultima chiude
la stanza, ardendo ancora per l’eccitazione della sua vulva turgida,
e, spossata dagli uomini ma non sazia, se ne va,
con le guance scure e sporca per il fumo della lucerna
porta l’ignobile odore del lupanare nel talamo nuziale»[7].
Beninteso, in questa galleria dell’impudicitia, Messalina – «spossata ma non sazia» – non è sola. Costei, secondo Giovenale, sta in buona compagnia perché le donne – libere dal bisogno economico, dalle preoccupazioni e dai doveri – si danno ai piaceri. E cedono agli eccessi; e si ubriacano; e si eccitano tra loro; e copulano con gli schiavi. Tra l’altro, fra le donne che popolano la notte, la fellatio è un esercizio diffuso, quasi un gioco facile, sbrigativo e rilassante:
«Dapprima il denaro osceno
ha introdotto i costumi stranieri,
e la ricchezza che genera mollezza
ha fiaccato con turpe lusso i tempi.
Che ritegno può avere una donna sbronza?
Ignora la differenza tra il basso ventre e la bocca
quella donna che ingoia ostriche giganti in piena notte,
quando il vino Falerno schiuma di profumi,
quando si beve da una conchiglia,
quando il soffitto cammina per il capogiro,
la tavola si alza con le luci che paiono doppie»[8].
Si aggiunga che, per Giovenale, impudicitia non significa soltanto infedeltà coniugale, ma anche omosessualità e prostituzione. E perciò non manca l’amore lesbico:
«Vai ora e stai lì a chiederti
con quale smorfia Maura aspira l’aria
quando passa davanti al vecchio altare di Pudicizia,
o cosa dice Tullia,
sorella di latte della malfamata Maura.
Qui di notte fermano le lettighe,
qui urinano e inondano
coi loro lunghi zampilli la statua della dea,
e si cavalcano tra loro e si eccitano,
chiamando la Luna a testimone»[9].
Dopo aver ricordato che Giovenale sta parlando delle matrone romane, e non già delle donne di oggi – ragion per cui i miei quattro lettori non stiano a equivocare tirando maliziosamente in ballo innocenti discoteche o pacifici rave parties – torniamo alla dialettica fedeltà/infedeltà a proposito di Penelope e di Elena.
Su quest’ultima figura femminile grava l’accusa di essere stata infedele verso il marito Menelao, e di avere così provocato la tremenda Guerra di Troia.
Perciò Eschilo, nella tragedia Agamennone, non lesina giudizi feroci contro Elena infedele e mortifera. Addirittura lo stesso nome “Elena” è presagio [symbolon; σύμβολον] di sciagura e distruzione, o meglio, per dirla in latino, è un vero e proprio nomen omen [il nome è un presagio]:
«Chi mai scelse il nome d’Elena[10],
nome nunzio di sciagura –
fu tal, certo, ora visibile
prova n’hai, che, la ventura
preveggendo, il dir fatidico
spinse verso verità –
per la donna che a tante contese
fu segno, cui pronube
fûr l’aste, che, come è palese,
navigli e guerrieri a sterminio
condusse, a sterminio città?»[11].
Per Eschilo, inoltre, Elena è una donna in preda alla stoltezza [paránoia; παράνοια], una donna che provoca la morte di moltissimi uomini sotto le mura di Troia:
«Ahimè, Elena, Elena stolta,
che tante e tante anime, sotto
le mura di Troia, tu sola, hai perdute!»[12].
E il giudizio negativo su Elena continua. Basti pensare che, nell’Oreste di Euripide, Elena è definita una donnaccia, una «cattiva donna» [kaké gyné; κακή γυνή], che merita di essere uccisa. Perciò, Elettra esclama:
«Uccidetela, uccidetela, sterminatela,
la spada a doppio taglio con valida
mano vibrate contro la femmina
che padre e sposo tradì, sterminio
fece degli Elleni,
che presso al fiume pugnando caddero,
dove per opera di ferree cuspidi
sempre su lagrime cadevan lagrime
dello Scamandro lunghessi i vortici»[13].
A onor del vero bisogna dire che, nell’antichità, alcune voci si levano a difesa di Elena. Ad esempio, Stesicoro sostiene che in realtà Elena non andò mai a Troia e che al suo posto partì con Paride un fantasma, ossia una immagine [eidolon; εἴδωλον). Ovviamente, sulla base di ciò, Stesicoro scagiona Elena dall’accusa di avere provocato infiniti lutti con la Guerra di Troia.
Su questa linea “innocentista” si pone anche il filosofo sofista Gorgia che, nell’Encomio di Elena, deresponsabilizza la moglie di Menelao. In breve, Elena non ha colpa, perché non è responsabile. E non è responsabile, perché è vittima del fato, nonché vittima del potere erotico di Afrodite e del potere affascinante della parola di Paride. Insomma, come un provetto avvocato, Gorgia pigia sul tasto del vittimismo e della deresponsabilizzazione, per difendere la sua “cliente” Elena di fronte al Tribunale della Storia.
Per contro, schierandosi sulla linea “colpevolista, Dante condanna Elena collocandola nell’Inferno, fra i lussuriosi[14]. E non è il solo. Infatti, non meno severo è il giudizio di William Shakespeare nei confronti di Elena. Basti pensare che, nella tragedia Troilo e Cressida, il grande drammaturgo inglese arriva a presentare Elena come una svergognata prostituta.
A tal proposito, notevole e significativo è il dialogo shakespeariano fra Diomede e Paride, dove l’eroe greco ha sdegnose parole di fuoco sia per Menelao, che è insensibile alla vergogna dell’infedeltà della moglie; sia per Paride, che è indifferente al disonore che reca con sé la disonorata e disonorante Elena. E addirittura – secondo lo shakespeariano Diomede – il povero Menelao, marito tradito e gemente, sarebbe disposto a riprendersi Elena, bevendo sino all’ultima goccia l’«impuro vino» che gli fu sottratto. E il bel Paride, disonesto adultero, accetta di generare figli dentro i «fianchi contaminati» di Elena, che è «una meretrice»[15].
D’altronde, ricorrendo ad alcune categorie estetiche shakespeariane, si può ben dire che Elena è l’archetipo della dark lady, della “dama tenebrosa”, della donna seduttrice, spregiudicata e infedele, sensuale e intrigante. E Shakespeare, nei suoi Sonetti, descrive la dark lady come «my female evil»[16], la mia femmina diavolo, la mia diavola.
A differenza del modello di bellezza bionda, la dark lady è scura di pelle e di capelli, ed è pure la fascinosa figura del male:
«Sei tu tirannica, così quale tu sei,
come son quelle che beltà fa altere e crude;
e sai che al mio cuor smaniante, tu sei
la gemma più preziosa e più rara.
Eppure, dicono alcuni, in fede guardandoti,
che il tuo viso non fa gemere d’amore;
a dir che s’ingannano, non son sì ardito,
ma che così sia io giuro a me solo.
Ad esser poi certo che non giuro il falso,
mille sospiri, se solo penso al tuo viso,
l’un sull’altro accalcandosi, testimoniano
che il tuo nero è chiarissimo, a mio giudizio.
In niente tu sei nera se non negli atti,
donde, come credo, quella calunnia procede»[17].
Bisogna aggiungere che la greca Elena è pure l’archetipo della femme fatale, della donna fatale, della mangiatrice di uomini che, nella modernità, trova un suo eccellente cantore in Gabriele D’Annunzio. Infatti, nel romanzo d’annunziano Il Piacere, il giovane aristocratico Andrea Sperelli perde la testa per la nobildonna Elena Muti (il nome Elena, che ricorda quello dell’antica Elena amante di Paride, non è scelto a caso da D’Annunzio!). E qui Elena Muti rappresenta la femme fatale, il cui corpo è desiderato ardentemente da Andrea.
Fisicamente, costei non assomiglia affatto alla shakespeariana dark lady, che era una sorta di femmina-diavolo prepotentemente scura negli occhi e nella pelle. Elena Muti – pallida nel viso e rosea nell’incarnato – ha qualcosa di angelico che cattura gli uomini con la malizia di un’abile seduttrice.
Ma non indugiamo ancora! Portiamoci con D’Annunzio a Roma; entriamo nel maestoso Palazzo Farnese; e qui dirigiamo i passi nel lato del Palazzo che dà sulla suggestiva via Giulia. Perché mai? Perché, su quel lato, scopriamo la famosa Galleria con gli affreschi di Agostino Carracci. In questa Galleria si tiene una festa danzante, a cui è stata invitata tutta l’alta nobiltà romana.
Ad un tratto, mentre tutti danzano e tutto sembra aver raggiunto l’acme della bellezza, della gioia e del piacere, ecco entrare in scena Elena Muti, che maliziosamente procede lenta e tutta «avvolta dallo sguardo degli uomini»:
«Ella s’avanzava nell’istoriata galleria del Caracci, dov’era minore la calca, portando un lungo strascico di broccato bianco che la seguiva come un’onda grave sul pavimento. Così bianca e semplice, nel passare volgeva il capo ai molti saluti, mostrando un’aria di stanchezza, sorridendo con un piccolo sforzo visibile che le increspava gli angoli della bocca, mentre gli occhi sembravan più larghi sotto la fronte esangue. Non la fronte sola ma tutte le linee del volto assumevano dall’estremo pallore una tenuità quasi direi psichica. Ella non era più né la donna seduta alla mensa degli Ateleta, né quella al banco delle vendite, né quella diritta un istante sul marciapiede della via Sistina. La sua bellezza aveva ora un’espressione di sovrana idealità, che meglio splendeva in mezzo alle altre dame accese in volto dalla danza, eccitate, troppo mobili, un po’ convulse. Alcuni uomini, guardandola, rimanevan pensosi. Ella metteva anche negli spiriti più ottusi o più fatui un turbamento, una inquietudine, un’aspirazione indefinibile. Chi aveva il cuor libero imaginava con un fremito profondo l’amore di lei; chi aveva un’amante provava un oscuro rammarico sognando una ebrezza sconosciuta, nel cuore non pago; chi recava entro di sé la piaga d’una gelosia o d’un inganno aperta da un’altra donna, sentiva ben che avrebbe potuto guarire. Ella s’avanzava così, tra gli omaggi, avvolta dallo sguardo degli uomini»[18].
Da esperta femme fatale, Elena Muti giunge in notevole ritardo, quando le danze sono già cominciate, tenendo così sulle spine i molti suoi ammiratori, e soprattutto il giovane Andrea, tremendamente ansioso di vederla apparire. Ma c’è di più: quel ritardo voluto e sapientemente studiato le permette di distinguersi e di spiccare sulle altre dame che, nel vortice della danza, appaiono scomposte, «accese in volto dalla danza, eccitate, troppo mobili, un po’ convulse».
E se le altre dame mostrano energica vitalità, rapite come sono dalla musica e dalla danza, Elena Muti mostra invece un che di spossamento e di languore, che a stento le permettono di abbozzare un sorriso in risposta agli omaggi che la circondano.
Vestita con raffinata semplicità, Elena Muti – lei pallida, lei vestita di bianco – nasconde dietro l’apparente purezza del broccato bianco le arti di una consumata ammaliatrice.
Consapevole della propria bellezza, la languida Elena è la donna fatale che incarna l’erotismo lussurioso, il corpo desiderato ardentemente da Andrea, e non solo da Andrea. In effetti, questa femme fatale non risparmia nessuno; e nessuno resta indifferente al suo fascino. Essa è capace di suscitare negli uomini una vasta gamma di emozioni: «un turbamento, una inquietudine, un’aspirazione indefinibile».
Ma ora basta! Sat prata biberunt, i prati bevvero abbastanza – ci direbbe Virgilio.
Torniamo quindi alla figura di Penelope come simbolo di purezza e fedeltà coniugale; torniamo, cioè, alla diffusissima linea interpretativa secondo cui, come canta il poeta Francesco Petrarca, Penelope è «casta mogliera»[19].
Come ben si sa, la fedele consorte di Odisseo viene generalmente associata allo stratagemma della tela, fatta di giorno e disfatta di notte. Ma già in questo episodio bisogna operare una necessaria distinzione, perché nello stesso poema dell’Odissea esistono due diverse e contrapposte letture da parte di due personaggi: da un canto, Antinoo, il più importante dei Proci; dall’altro, la stessa Penelope.
Già all’inizio dell’Odissea, Antinoo, parlando con Telemaco, descrive e critica lo stratagemma della tela, mettendo in evidenza la doppiezza di Penelope, una donna astuta che inganna, una bugiarda che promette e illude, e che dice una cosa e ne fa un’altra[20].
In maniera diversa lo stratagemma della tela è presentato da Penelope, quando parla con Odisseo che ancora si cela sotto le mentite spoglie di uno straniero [xénos; ξένος]. In questo caso, il racconto di Penelope serve a dimostrare che lei tentò di reagire e cercò di prendere tempo in attesa di un sempre più lontano ritorno di Odisseo:
«Costoro affrettano le nozze, io invece aggomitolo inganni.
Per prima cosa, un dio mi ha ispirato nell’animo
di impiantare nella mia casa un grande telaio e di tessere,
un tessuto sottile e smisurato. […]
E allora, durante il giorno tessevo la grande tela,
ma la notte, sistemate accanto le torce, la disfacevo»[21].
Se, a proposito dello stratagemma della tela, stiamo alle due narrazioni (quella di Antinoo e quella di Penelope) ci accorgiamo che la regina di Itaca non ha nulla da invidiare a suo marito Odisseo in fatto di astuzia, di accortezza e di spregiudicatezza.
Odisseo rimane famoso per lo stratagemma del Cavallo di Troia? Ebbene, Penelope rimane famosa per lo stratagemma della tela. Ciascuno dei due ricorre all’inganno, alla finzione, all’espediente particolarmente abile, per risolvere una questione difficilissima e per raggiungere un determinato fine.
E mentre i pretendenti dilapidano il patrimonio di Odisseo e mirano a possedere Penelope, costei, avendo sempre nel cuore il marito, prende tempo, li fa sperare, li svia, «aggomitola inganni», senza mai dare una risposta né affermativa né negativa: «Ma – ha detto Penelope allo straniero – rimpiangendo Ulisse nel mio cuore mi struggo. Costoro affrettano le nozze, io invece aggomitolo inganni».
Ma, a ben vedere, c’è dell’altro nello stratagemma della tela. In effetti, quel fare e disfare la tela rappresenta la dialettica perenne del divenire nel tempo e nella storia; rappresenta l’opposizione dialettica di essere e di non-essere, di vita e di morte. E Penelope, nel fare e disfare la tela, mostra la capacità di conoscere e dominare il divenire di una determinata situazione storica, qual è quella di Itaca senza Odisseo.
Ragion per cui non giova collocare staticamente Penelope nella nicchia della fedeltà, quasi a farne un’ipostasi della virtù femminile o una “santa” da contemplare come moglie devota.
In verità, come ogni virtù, la fedeltà non è uno status posseduto per natura, una volta per tutte e per sempre. La fedeltà è un esercizio continuo; è un combattere le tentazioni che provengono sia dall’esterno sia dall’interno. Insomma, la fedeltà è una conquista mai definitiva nella battaglia mai definitiva contro le passioni, che possiamo fronteggiare, moderare, persino dominare, ma giammai estirpare.
E Penelope lo sa. Sa che la virtù è bella, ma costosa. Perché costa moltissimo reggere da sola, senza avere Odisseo accanto, l’assalto dei pretendenti (i Proci) che ti offrono una nuova vita; perché costa moltissimo mettere a tacere i tuoi sogni e i tuoi bisogni di donna, quando tutto sembra negare ogni speranza del ritorno di Odisseo.
Diciamola tutta: nell’arco di millenni, la “Penelope sposa devota” ha preso il sopravvento sulla “Penelope scaltra” [perifron; περίφρων]. E così abbiamo trascurato la grande capacità “politica” di una donna che è regina senza re, e che da sola riesce a tenere alla larga dalla sua persona e dal trono di Odisseo un centinaio di giovani aristocratici, avidi e ambiziosi.
E la solitudine? Quella maledetta solitudine che assale Penelope, e che incombe su di lei per ben vent’anni? Essa è la solitudine di una donna, che deve destreggiarsi fra le pretese dei suoceri, del figlio Telemaco e dei Proci.
Penelope non sta soltanto al telaio. Penelope è una figura poliedrica. Penelope è un bellissimo diamante dalle mille sfaccettature; un meraviglioso crogiolo in cui si fondono mille contraddizioni, perché ricca di contraddizioni è la vita.
Invero, è questa la Penelope che ci piace, che ci è vicina, che ci è sorella, che ci assomiglia, perché è viva, perché è contraddittoria: proprio così, fragile e forte; devota e scaltra, apparentemente immobile e pur sempre plasticamente in movimento; esteriormente fredda e interiormente innamorata.
Innamorata la nostra Penelope? Certamente. Giovanissima sposa, lei è innamorata di Odisseo. Ma poi scoppia la guerra contro Troia, e Odisseo sparisce per vent’anni. Vent’anni: una vita! Una vita trascorsa ad attendere l’amato assente. Ma come è possibile? Forse Penelope ama l’assenza dell’amore, come faranno Tristano e Isotta? Assolutamente no. Penelope è sempre innamorata di Odisseo, anche quando egli è assente, perché è innamorata dell’amore.
Ebbene, vediamo la sua reazione quando la vecchia e fedele nutrice Euriclea corre ad avvertirla che finalmente è tornato Odisseo (sotto l’aspetto del vecchio straniero) e che ha sterminato tutti i Proci e tutta la servitù infedele. A quel punto, Penelope vorrebbe andare a stringere a sé l’amato Odisseo, e «baciargli la testa e le mani». Ma poi prevale il senno e la prudenza di una donna che ha imparato a non fidarsi né degli uomini né degli dèi. Perciò va a sedersi a distanza da Odisseo, in silenziosa attesa di un segno decisivo.
E al figlio Telemaco, che non capisce e non approva la freddezza della madre verso lo sposo, Penelope risponde:
«Figlio mio, il mio animo nel petto è stupefatto,
e non riesco a rivolgergli il discorso né fare domande,
e nemmeno guardarlo diritto nel viso. Ma se davvero
lui è Ulisse e alla sua casa è giunto, certo noi due
anche meglio ci riconosceremo fra noi: ci sono dei segni
che gli altri non sanno e siamo solo noi due a saperli»[22].
Penelope, quindi, attende da Odisseo un segno [sema; σῆμα]. Un segno assolutamente decisivo; un segno intimo, fondato su un segreto che soltanto loro due conoscono. Solo così può realizzarsi il “riconoscimento” – l’agnizione dei latini, la ἁναγνώρισις dei greci – ovvero il riconoscimento di Odisseo, che svelerà apertamente e definitivamente la propria identità.
Degno di nota è il fatto che, alla richiesta di segni da parte di Penelope, Odisseo sorrida[23]. Il suo primo ed unico sorriso in tutta l’Odissea! E in quel sorriso leggiamo la complicità, la comprensione e l’approvazione dell’Itacese per l’amata Penelope.
Ma poi quel sorriso si spegne; e per la prima volta Odisseo si rivolge direttamente a Penelope accusandola di essere fredda, spietata e incomprensibile. Dopo di che, egli ordina alla vecchia Euriclea di preparargli il letto, dove dormirà solo.
Mirabile è, a questo punto, la corrispondenza di sentimenti fra Odisseo e Penelope. Costei, rivolgendosi a Odisseo (per la prima volta gli dà del tu!), lo rimprovera di non capirla: infatti, a lei non basta la prova degli occhi, perché gli occhi possono ingannare e perché colui che appare come Odisseo può essere invece un dio ingannatore.
Lei vuole un segno segreto, il suo segno, il loro segno! E poiché Odisseo continua a non capire, lei decide di lavorare di astuzia, di un’astuzia ancor più efficace di quella di Odisseo, perché è astuzia femminile.
Sicché lei si rivolge a Euriclea e le dice di portare all’aperto il letto coniugale, dove da vent’anni egli non dorme[24].
Ormai è chiara l’intenzione dell’astuta Penelope: lei sta mettendo alla prova Odisseo. Infatti, a quelle parole di Penelope, che ordina di portare fuori il letto nuziale costruito dallo stesso Odisseo, l’Itacese rimane sconvolto e insospettito. Chi potrà mai spostare quel letto? Il vero letto di Odisseo e di Penelope non potrà mai essere spostato, perché è ben radicato nella terra.
«Donna, fa male al cuore il discorso che hai detto.
Chi ha spostato il mio letto? Una cosa difficile sarebbe
anche per un esperto, se un dio non viene di persona
e facilmente, volendo, lui altrove lo sposta.
Ma per nessun uomo vivente, anche nel pieno di giovinezza,
sarebbe facile smuoverlo. Un segno importante c’è in quel letto
così ben fatto: fu mio il lavoro e di nessun altro»[25].
E qui torna prepotente l’albero di ulivo, la sacra pianta di Odisseo e della dea Atena-Minerva. L’Itacese, sposando Penelope, costruì segretamente il talamo nuziale sul ceppo ben radicato in terra di un ulivo secolare, elevando poi attorno a esso la stanza di pietra. E tutto ciò non meraviglia, perché la lavorazione del legno segna alcune tappe importanti nella vita di Odisseo: la costruzione del gigantesco Cavallo di legno sotto le mura di Troia; la preparazione di un palo aguzzo per accecare Polifemo; la costruzione di una zattera per lasciare la dimora di Calipso.
C’è del meraviglioso nelle vite parallele di Odisseo e di Penelope! Lui, orditore di audaci congegni, lavora il legno; lei, intelligente e scaltra, tesse con mani esperte una tela fatale.
Ma torniamo alla reazione di Odisseo. Questi non solo rivela il segreto di aver costruito il suo talamo nuziale, ma addirittura si sofferma su importanti particolari della costruzione:
«C’era dentro al cortile una pianta frondosa di olivo,
rigogliosa, fiorente, e massiccia come una colonna.
Io la cinsi di un talamo, che fui io a costruire, fino alla fine,
con pietre compatte, e con perizia feci la copertura.
Ci misi infine solidi battenti, strettamente connessi.
Poi tagliai via la chioma dall’olivo dall’esteso fogliame,
e il ceppo sgrossai fin dalla radice, e tutt’intorno con il bronzo
lo spianai con competenza e perizia, e a filo lo livellai,
creando con arte una base e tutto lo traforai con il trapano.
E poi, di seguito, spianando feci il letto. E così lo finii,
intarsiandolo d’oro e d’argento e d’avorio,
e vi tesi cinghie di bue, splendenti di porpora.
Ecco, questo è il segno che ti rendo manifesto; ma non so
se il mio letto è ancora al suo posto, o donna, o se qualcuno
l’ha già messo altrove, di sotto tagliando il ceppo d’olivo»[26].
Ingegnosa è la costruzione di questo letto sulla base di un tronco di ulivo; e dettagliata ne è la descrizione: tagliare, spianare, trapanare. Tre operazioni che, deviando l’immaginazione dal talamo ai primi incontri d’amore dei due giovani sposi, fanno presagire i momenti dell’amplesso.
Ad ogni modo, ora Odisseo ha finalmente svelato il segreto del talamo nuziale e, soprattutto, ha fornito la prova decisiva, il “segno” determinante, che Penelope aspettava:
«Così disse, e a lei lì si sciolsero le ginocchia e il cuore,
riconoscendo i segni sicuri che Ulisse le aveva detto»[27].
Profondo e vasto è il significato di questo verso omerico, quando ci dice che a Penelope «si sciolsero le ginocchia e il cuore». Invero, in questo grumo di immagini poetiche è racchiuso quel “venir meno”, che ti assale nell’amore, nel sonno e nella morte.
Il letto costruito nell’ulivo rappresenta per Penelope il segno sicuro, di cui può fidarsi. E lei piange; e finalmente getta le braccia al collo di Odisseo, e lo bacia e gli dice:
«Ulisse, no, non essere più adirato con me: anche per il resto
ti sei dimostrato il più saggio tra gli uomini. Pianto e dolore gli dèi
ci diedero, invidiosi che noi due, restando l’una all’altro vicino,
ci godessimo la giovinezza e alla soglia giungessimo di vecchiaia.
Ora dunque non arrabbiarti, non mi condannare, se io,
così come ti ho visto, subito con affetto non ti ho accolto.
Sempre a me il cuore nel petto rabbrividiva, che qualcuno,
qui venuto, con discorsi mi traesse in inganno:
molti infatti escogitano profitti di astuzie malvagie»[28].
Sublime è questa preghiera d’amore che, tra perle di lacrime liberatorie, sgorga dal cuore di Penelope. E, nel chiedere comprensione all’amato Odisseo, la regina di Itaca ricorda la sua lunghissima attesa (vent’anni!), un’attesa trapuntata di speranze, di lacrime, di triboli, di delusioni, di timore di cadere in tentazione o in inganno.
Bisogna, inoltre, osservare che in questa preghiera d’amore di Penelope c’è uno spunto importante, che riguarda l’«invidia degli dèi» [ftonos ton teon; φθόνος τῶν θεῶν]: «Pianto e dolore gli dèi ci diedero, invidiosi che noi due, restando l’una all’altro vicino, ci godessimo la giovinezza e alla soglia giungessimo di vecchiaia».
Due giovani – Odisseo e Penelope – si amano. Coronano il loro sogno d’amore, sposandosi. Sono meravigliosamente felici; e il loro amore bellissimo genera un figlio: Telemaco.
Hanno tutto, Odisseo e Penelope. Hanno troppo! Troppa felicità agli occhi degli dèi invidiosi che, per punire quell’eccesso che aveva oltrepassato la misura accordata ai mortali, decisero di separare i due giovani innamorati, allontanandoli per vent’anni e precipitandoli nel pianto e nel dolore.
Gli dèi puniscono l’eccesso di felicità, perché tutto ciò che è in eccedenza turba l’equilibrio universale e dev’essere ridotto a giusta misura. E qui le bellissime parole di Penelope precorrono un ideale antico che sta alla base del pensiero del legislatore ateniese Solone, e troverà in seguito vasta applicazione nella storiografia di Erodoto e nelle tragedie di Eschilo.
Comunque sia, ora Penelope è tornata fra le braccia dell’amato Odisseo. Ma la giovinezza non torna più! Una volta trascorsa, una volta perduta, la giovinezza è purtroppo un bene smarrito in modo irrevocabile. E di ciò è consapevole lo stesso Odisseo, che bagna di lacrime la sua sposa dalle «candide braccia».
Qui nasce l’occasione per gustare una delle più belle similitudini della letteratura di ogni tempo:
«Come desiderata appare la terra ai naufraghi
a cui Posidone nel mare ha squarciato la nave ben fatta,
che il vento incalzava e la turgida onda,
e pochi sfuggirono al mare canuto verso riva
nuotando e molta salsedine sul loro corpo fa crosta,
ma essi lieti a terra mettono piede, a sciagura scampati:
così ella con gioia lo sposo mirava,
né più dal suo collo staccava le candide braccia»[29].
Come appare desiderata la terra ai naufraghi che, dopo la tempesta, riescono felicemente a mettere piede sulla costa, così Penelope, finalmente abbracciata a Odisseo, non stacca più le sue braccia dal collo del suo amato.
La tempesta e il naufragio sono ormai un ricordo. Ora regna la gioia di avere fra le «candide braccia» il suo Odisseo, ovvero la felicità perduta da vent’anni.
In verità, l’Odissea è la storia di un sempre ripetuto naufragio, che solo ora si conclude a Itaca, accanto al letto d’ulivo. E, in quel letto e in quell’amore, si ha la meravigliosa sintesi del dolore e della felicità, della vita e della morte, del presente, del passato e del futuro.
A questo punto, il poeta dell’Odissea ci narra liricamente della notte d’amore trascorsa da Odisseo e Penelope, magicamente resi giovani dalla benevola dea Atena-Minerva.
Ma a noi piace immaginare i due maturi innamorati finalmente soli, finalmente abbracciati nel loro letto, non già travolti da passionali e giovanili amplessi, bensì cullati dalla dolcezza dei baci, delle carezze, delle tenerezze, dei ricordi certamente, ma anche dei progetti ancora da realizzare.
I due riassaporano il gusto dell’amore. E poi vivono un’altra gioia, quella del racconto. Ed entrambi si perdono l’uno negli occhi dell’altra; e rivivono, in un giardino di carezze, il loro passato di sofferenza e di dolore.
Poi si addormentano.
Atena-Minerva trattiene l’aurora, ferma il corso del tempo, e prolunga la notte, perché il tempo non passa mai quando si sta fra le braccia della persona amata.
Un giorno Odisseo rifiutò l’immortalità e l’eterna giovinezza che gli offrì la bellissima ninfa Calipso, pur di tornare a Itaca e trascorrere la vecchiaia con Penelope.
Se avesse accettato la proposta di Calipso, Odisseo avrebbe vinto il tempo grazie all’immortalità. Ma quella proposta di cambiare natura, di trapassare da mortale a immortale, fu da lui respinta. E perciò Odisseo soggiace definitivamente alla legge del tempo e ai suoi colpi spietati, che nel fisico lasciano segni sempre più pesanti.
E tuttavia, in quella notte d’amore con Penelope, il tempo si ferma. È la rivincita dei due amanti. Ora tutto avviene fuori dal tempo. E fugando il tempo con dolci effusioni d’amore, entrambi guardano indietro nel tempo alla loro vita martoriata, ai loro affanni e ai loro dolori. E perciò si vedono entrambi sfortunati, per avere avuto la fortuna di conoscere l’amore.
Così l’amore vince il tempo e dona la gioia della narrazione, di una narrazione che è catarsi [catarsis; κάϑαρσις], purificazione-liberazione dalle passioni e dagli affanni.
E noi amiamo Odisseo perché accetta la sfida del tempo, di quel tempo che porta consunzione e morte, ma anche di quel tempo che fa godere intensamente la vita, in un attimo di piacere, in un frammento di felicità.
[1] Odissea, XXIV, 93-97.
[2] Odissea, XXIV, 192-198.
[3] Vedi Odissea, XXIV, 199-202.
[4] Semonide di Amorgo, Frammenti, Donne cento cattive una buona, traduzione di E. Romagnoli, Zanichelli, Bologna 1932.
[5] Semonide di Amorgo, Frammenti, cit.
[6] Iliade, trad. E. Romagnoli, canto VI, 341-348.
[7] Giovenale, Satira VI, 116-133.
[8] Giovenale, Satira VI, 298-305.
[9] Giovenale, Satira VI, 306-312.
[10] Il nome di Elena, interpretato con etimologia un po’ fantastica, può significare “distruttrice di navi”.
[11] Eschilo, Agamennone, trad. E. Romagnoli, Terzo canto intorno all’ara, Coro, Strofe I, 677-687.
[12] Eschilo, Agamennone, cit., Lamentazione, Coreuta, 1535-1537.
[13] Euripide, Oreste, trad. E. Romagnoli, Stasimo IV.
[14] Divina Commedia, Inferno, canto V, 64.
[15] «Paride: Ditemi, nobile Diomede, schiettamente; parlate colla ingenuità dell’amicizia. Chi fra Menelao e me stimate voi più degno del possesso di Elena? Diomede: Entrambi egualmente. Ei merita di riaverla, egli che, insensibile alla vergogna della di lei infedeltà, la cerca con tanti disagi, e affronta per lei mille ostacoli. Voi del pari la meritate perché indifferente al suo disonore, la difendete a rischio della perdita immensa di tanti tesori e di tanti amici. Ei, sposo disonorato e gemente, berrebbe fino all’ultima stilla l’impuro vino che gli fu tolto; voi, adultero disonesto, ingenerate gli eredi vostri entro fianchi contaminati. Così pesati, i vostri meriti si bilanciano, ma egli come sposo la vince, sopportando tante pene per una meretrice. Paride: Voi siete troppo acre verso una bellezza del vostro paese. Diomede: È essa che acre è troppo pel paese suo. Uditemi, Paride, non v’ha una goccia di quel sangue che le empie le vene, che non costi la vita di un Greco; non v’è un poro di tutto il suo vil corpo che fruttato non abbia la morte a qualche Trojano: e dacché ha facoltà di parlare, ella non ha proferite tante buone parole, quante son le vittime greche e troiane che caddero per lei» (W. Shakespeare, Troilo e Cressida, trad. C. Rusconi, atto IV, scena I).
[16] W. Shakespeare, I Sonetti, a cura di T. Pisanti, Roma 1996, Sonetto 144.
[17] W. Shakespeare, I Sonetti, cit., Sonetto 131.
[18] G. D’Annunzio, Il Piacere, libro I, cap. III.
[19] «Quel sì pensoso è Ulisse, affabile ombra, che la casta mogliera aspetta e prega» (F. Petrarca, Trionfi, Trionfo d’Amore – Triumphus Cupidinis, cap. III).
[20] Vedi Odissea, II, 87-106.
[21] Odissea, XIX, 137-150.
[22] Odissea, XXIII, 105-110.
[23] «Così disse, e sorrise il molto paziente divino Ulisse» (Odissea, XXIII, 111).
[24] Vedi Odissea, XXIII, 177-180.
[25] Odissea, XXIII, 183-189.
[26] Odissea, XXIII, 190-204.
[27] Odissea, XXIII, 205-206.
[28] Odissea, XXIII, 209-217.
[29] Odissea, XXIII, 233-240.