Dopo la drammatica vicenda dell’innominato, con la conseguente discesa nel regno delle tenebre e della crudeltà; dopo avere attraversato l’arido deserto di un’anima priva di scrupoli morali, ora Manzoni ci guida «in più spirabil aere», su un terreno pianeggiante ed erboso, vicino a una fonte d’acqua zampillante, per riposare e ricreare l’animo «all’ombra di un bell’albero» accogliente e benefico:
«A questo punto della nostra storia, – scrive Manzoni – noi non possiam far a meno di non fermarci qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po’ di tempo all’ombra d’un bell’albero, sull’erba, vicino a una fonte d’acqua viva. Ci siamo abbattuti in un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque tempo, alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un senso giocondo di simpatia»[1].
A tal proposito, è plausibile l’ipotesi che Manzoni abbia tratto questa immagine del «bell’albero» da Vincenzo Monti che, nella Quinta lezione di eloquenza, tenuta all’Università di Pavia nel 1802, l’aveva dedicata a Socrate.
Infatti, il molto bistrattato e poco conosciuto Monti così scrive:
«Coloro che d’estate viaggiano per discoperte e arse campagne, se incontrano lungo la via un qualche bell’albero pieno d’ombra, ringraziano la fortuna e, stesi sull’erba, si ristorano del loro penoso cammino, per riprenderlo quindi più rinfrancati e allegri. E noi pure viaggiamo per campi arenosi e sterili; e poiché oggi la sorte ci presenta una bella pianta e un bel fonte a cui rinfrescarci – la compagnia di un grandissimo personaggio – io credo che faremmo cosa da stolti se non ci arrestassimo a godere di questa gioconda ventura»[2].
D’altronde, si può anche ragionevolmente ipotizzare che in Manzoni risuoni l’eco del profeta Geremia, che assume a simbolo di fede un albero bello e rigoglioso:
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamerisco nella steppa;
non vedrà venire il bene,
dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo,
le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,
non smette di produrre frutti»[3].
Qui il profeta ricorre a due alberi per simboleggiare due tipi di uomini: da una parte, c’è l’uomo senza Dio, l’uomo che confida esclusivamente nell’uomo e che pone il suo sostegno in valori puramente carnali e terreni che, in quanto tali, sono effimeri, transeunti, caduchi; dall’altra, c’è l’uomo che confida nel Signore e che nel Signore pone la sua fiducia.
Comunque sia, il «bell’albero» di Manzoni rappresenta il cardinal Federigo Borromeo che, nel romanzo manzoniano, è l’unico personaggio che può stare a fronte del personaggio dell’innominato, accogliendolo benignamente, accompagnandolo con dolce fermezza nel cammino della conversione, favorendo la sua trasformazione da crudele artefice del Male a paladino del Bene, a difensore dei poveri e degli oppressi.
Il grande scrittore milanese ce lo presenta così:
«Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume»[4].
Troppo facile cogliere il rispetto, la simpatia, diciamo pure la devozione, che lo scrittore milanese nutre apertamente per la figura del cardinale. Ma qui abbiamo bisogno di sottolineare il triplice ruolo di Federigo Borromeo nello sviluppo del romanzo manzoniano.
In effetti il cardinale è, in primo luogo, un personaggio del romanzo, una creatura artistica, plasmata dalla fantasia poetica manzoniana; in secondo luogo, egli è un personaggio storicamente esistito, con il suo importante ruolo nella Chiesa della Controriforma e, in particolare, nella Chiesa milanese che fu di Ambrogio e di Carlo Borromeo; in terzo luogo, egli rappresenta per Manzoni una non trascurabile fonte di materiale storico per la descrizione di tragici accadimenti come la peste del 1630.
In quest’ultimo caso, basta osservare questo particolare: nell’opera scritta in latino da Federigo Borromeo sulla peste di Milano del 1630, De pestilentia quæ Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit, viene riportato un aneddoto che ispirerà il Manzoni per creare la bellissima scena della madre di Cecilia.
Ecco l’episodio riportato da ciascuno dei due:
«Una bambina di nove anni – scrive il cardinal Federigo – morì dinanzi alla madre; questa, non sopportando che la figlia fosse toccata dai monatti, volle metterla lei sul carro. Poi voltatasi di nuovo ai monatti, “voi” disse, “questa sera, porterete via anche me”. Così detto, rientrò in casa e si affacciò alla finestra. Stette a contemplare quelle esequie, e poco dopo spirò»[5].
Ecco la stessa scena che, nella trasfigurazione artistica del Manzoni, diventa un capolavoro di rara bellezza e di potente intensità emotiva, dove la “madre di Cecilia” viene innalzata a mater dolorosa, in una Milano in preda alla peste e alla morte.
Vale la pena leggerla tutta:
«Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete”. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così”. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri”. Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi,” disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola”»[6].
Sunt lacrimæ rerum. In questa commovente scena, tutto il dolore delle umane vicende avvolge il lettore. E lacrime inarrestabili scorrono silenziose sul viso di chi contempla questa madre morente, che porta in braccio il corpicino della sua bambina di nove anni, della sua Cecilia, stroncata dalla peste; lacrime di chi contempla questa donna di “sangue lombardo”, che ancora non si arrende alla morte, che parla alla sua bambina come se fosse viva, perché è viva nel suo cuore materno, e la adagia con cura e delicatezza in quel lurido carro dei monatti, che lei trasforma in un solenne altare dell’amore, in una splendida ara amoris.
Tutto parla di morte e di lutto nella Milano della peste; ma, in fondo, la “madre di Cecilia” ci fa amare la vita; e ci parla di vita, ci parla di speranza in un’altra vita, di fede nella risurrezione, di amore cristiano che vince la morte.
Di fronte a questo immenso dolore e a questo sublime gesto d’amore, ecco la preghiera di un giovane popolano, la preghiera più gradita a Dio, la preghiera umile e sincera di Renzo: “O Signore!” esclamò Renzo: “esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!”.
Ma torniamo ora alla figura del cardinal Federigo storicamente esistito. Nato a Milano, il 18 agosto 1564, Federigo Borromeo è il rampollo di una delle più potenti casate nobiliari milanesi non solo per la linea paterna – il padre Giulio Cesare Borromeo era zio del futuro cardinale Carlo Borromeo – ma anche per parte della madre, Margherita, che apparteneva alla potente e ricca famiglia milanese dei Trivulzio.
D’altronde, a testimoniare la grande potenza della famiglia Borromeo basterebbe sottolineare che Federigo, oltre ad essere cugino del cardinale Carlo Borromeo e del cardinale Guido Luca Ferrero, è anche imparentato con i cardinali Alessandro Farnese e Marcus Sittikus von Hohenems.
Rimasto orfano di padre a soli tre anni, il piccolo Federigo ha come guida spirituale suo cugino Carlo, già allora arcivescovo di Milano e maggiore rappresentante del casato Borromeo. Così, nel 1579, Carlo invia il quindicenne Federigo all’Università di Bologna per coltivare gli studi umanistici.
Ma, a Bologna, il giovanissimo Federigo non si entusiasma tanto per gli studi, quanto piuttosto per la Compagnia di Gesù. A quel punto il cardinale Carlo, che se ne intende abbastanza del mondo in generale e del mondo dei gesuiti in particolare, richiama a Milano il nostro Federigo, gli toglie ogni voglia di fare il gesuita, lo avvia verso il clero diocesano, e lo invia a Pavia presso l’Almo Collegio Borromeo per conseguire la laurea in teologia.
A Pavia, Federigo soggiornerà per circa cinque anni, dall’ottobre 1580 sino al conseguimento della laurea nel maggio 1585. Ma la morte del cugino Carlo – avvenuta un anno prima della laurea, il 4 novembre 1584 – sembra per un attimo sconvolgere il progetto che il defunto arcivescovo di Milano aveva in mente per il giovane Federigo.
In un primo tempo, infatti, pare che Federigo voglia optare per una vita ritirata, fatta di studi e di tranquillità. Ma, per riportarlo alla sua carriera ecclesiastica, i membri più autorevoli della sua famiglia (e anche molti prelati legati alla memoria del defunto Carlo) lo inducono a trasferirsi a Roma, dove egli avrebbe potuto contare sulla benevolenza del neoeletto papa Sisto V e sull’appoggio di potenti cardinali suoi parenti.
Così, a soli 23 anni, il 18 dicembre 1587, Federigo Borromeo viene creato cardinale da papa Sisto V.
A 31 anni, il 24 aprile 1595, il cardinal Federigo viene nominato arcivescovo di Milano da papa Clemente VIII.
In verità, il giovane cardinale aveva opposto una forte resistenza a questa sua nomina ad arcivescovo di Milano per due principali motivi: da un canto, per evitare l’enorme responsabilità che sempre grava su ogni governo pastorale; dall’altro, per timore di non saper fronteggiare adeguatamente le enormi difficoltà che lo attendevano a Milano dove, malgrado la rigida riforma disciplinare attuata da san Carlo Borromeo, si era verificata una fase di grave rilassamento nel clero milanese durante l’episcopato di Gaspare Visconti, successore di san Carlo.
A questi due motivi bisogna aggiungerne un terzo, forse il più importante, e cioè: di fronte all’eredità morale e pastorale del defunto cugino Carlo, il giovane cardinal Federigo si sente un nano all’ombra di un gigante. Invero, agli occhi di Federigo, il cugino Carlo costituisce non solo un nobile modello di santità e di zelo pastorale, ma anche un ideale perfetto, irraggiungibile e sproporzionato, rispetto alle sue energie e alle sue capacità.
Ma, dopo aver fugacemente considerato Federigo Borromeo come autorevole personaggio storicamente esistito nel secolo XVII, accostiamoci ora al cardinal Federigo come personaggio creato dal genio di Manzoni nei Promessi Sposi.
Nella nostra prospettiva, tutto questo ci aiuterà a conoscere meglio non tanto il Borromeo, quanto piuttosto il Manzoni e la sua Weltanschauung cristiana, a scoprire alcuni reconditi recessi della visione morale e religiosa del romanziere milanese, a definire meglio le categorie filosofico-religiose che sorreggono determinati suoi giudizi sugli uomini e sulle vicende storiche.
E, soprattutto, tutto questo ci aiuterà a gustare le sue eccellenti qualità di moralista. In questo caso, infatti, Manzoni è un degno erede dei grandi moralisti francesi del Seicento – come François de La Rochefoucauld, Jean de La Bruyère, Blaise Pascal e Charles Dufresny – un degno erede, insomma, nella vivace ed efficace rappresentazione del costume di un’epoca, nell’abbozzo di un carattere, nello scavo psicologico dell’individuale e del collettivo.
In altri termini, tenteremo di conoscere Manzoni attraverso il cardinal Federigo. E perciò, osservando il ritratto del Personaggio-Federigo, cercheremo di cogliere, in filigrana, la cifra di alcuni caratteri dell’Autore-Manzoni.
Ora, a tal fine, torniamo senza indugio alla presentazione manzoniana del cardinale e, innanzi tutto, alla prima parte della biografia di Federigo:
«Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione»[7].
Scultoreo è, in questo brano, l’inciso manzoniano sulle parole e le massime morali «sentite o non sentite ne’ cuori», sempre presenti alle labbra e non sempre presenti nel cuore di coloro che trasmettono di generazione in generazione l’insegnamento della religione. Scultoreo e velatamente polemico verso quei maestri di cristianesimo a parole, senza intima adesione e senza coerenza.
Comunque balza subito evidente tutto il valore che Manzoni – rigoroso cattolico giansenista – attribuisce alle parole, a tutte le parole, a cui debbono corrispondere i fatti; ma specialmente risplende il valore attribuito al vocabolario assiologico cristiano, a cui deve corrispondere una prassi, una condotta, una vita da cristiano.
E nel vocabolario di Federigo spiccano due parole che esprimono due virtù cristiane: l’abnegazione e l’umiltà. La prima indica un particolare tipo di dedizione, un darsi all’altro, una disposizione a superare l’egoismo e a praticare la virtù cristiana di mettere in atto l’amore verso Dio e verso il prossimo. La seconda – l’umiltà, l’humilitas, che compare pure nello stemma dei Borromeo – sta alla base di un’autentica vita cristiana.
Purtroppo il superbo scambia l’umiltà con l’umiliazione, perché è tutto pieno di sé ed è stoltamente convinto di essere principio e fine del proprio essere. Perciò è bene ascoltare le parole del Siracide:
«Quanto più sei grande, tanto più fatti umile,
e troverai grazia davanti al Signore.
Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,
ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.
Perché grande è la potenza del Signore,
e dagli umili egli è glorificato»[8].
In verità, essere umili non significa sottovalutarsi o vivere da persone frustrate e insoddisfatte, ma significa raggiungere una piena consapevolezza di sé stessi. E, beninteso, mediante la consapevolezza di sé si raggiunge la verità, si comprende cioè la nostra natura di creatura infinitamente piccola rispetto all’infinitamente grande, che è il Creatore.
Ecco perché il cistercense san Bernardo, fondatore dell’Abbazia di Clairvaux, paragona l’umiltà a una scala di dodici gradini: la si sale un gradino alla volta, finché non si arriva al massimo grado dell’umiltà (summæ humilitatis). Ed è qui che si trova finalmente la verità, per amore della quale si è salita l’intera scala.
E ci riferiamo anche a santa Teresa d’Avila, secondo la quale l’umiltà è verità, è camminare nella verità e realizzare la verità, pensando che tutto ciò che finisce è vanità.
Il superbo non coglie la verità, perché non sa valutare correttamente e onestamente sé stesso e gli altri. Perciò san Paolo ci ammonisce: «Io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato»[9].
Si aggiunga che il superbo soffre di una specie di sindrome dell’umbilicus mundi, una tendenza patologica a collocarsi al centro di ogni cosa, e a immaginare di essere ben più importante di quanto egli non sia in realtà. Dominato da una grave forma di egocentrismo, il superbo si comporta come se gli altri esistessero solo per lui.
E dall’egocentrismo si può scivolare nell’antropocentrismo, quando il superbo vanta una superiorità di specie rispetto alle altre specie non umane e alla natura in generale. Allora la superbia antropocentrica porta a “usare” ciecamente e stoltamente la natura, anzi ad “abusare” della natura. Sicché si può fondatamente temere che, mentre gli antichi Egizi ci lasciarono le piramidi, noi lasceremo ai posteri ben più gigantesche piramidi di spazzatura e di ignorantaggine.
L’umile, invece, né si sopravvaluta né si sottovaluta; l’umile conosce e valuta correttamente sé stesso, con i propri pregi e i propri difetti, le proprie luci e le proprie ombre. Insomma, humilitas significa smettere di confidare unicamente in sé stessi. L’umiltà è saggia e santa consapevolezza che non sei solo e non sei il Tutto, che nella vita non ti salvi da solo, perché hai bisogno dei tuoi simili e di Dio.
Ma torniamo alla biografia del giovane Federigo e al valore delle parole secondo Manzoni:
«Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa»[10].
Qui è chiaro l’ammonimento manzoniano a vivere con coerenza la religione cristiana. Infatti, Federigo Borromeo «prese sul serio» quelle parole e quelle massime cristiane che «trovò vere», e coerentemente le adottò. Per contro, egli respinse “sul serio” quelle parole e quelle massime non vere, che purtroppo, mescolate a quelle vere, sono tutte accozzate e tramandate da tantissimi “cristiani” «con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra».
In altri termini, la scelta di Federigo è ispirata alla semplice e rigorosa morale evangelica, da distinguere e porre in antitesi al suo opposto, cioè al vangelo del mondo, a quel vangelo che insegna ad essere superbi e furbi, a pensare più a sé stessi che agli altri o a Dio, a idolatrare i beni del mondo e a trascurare il Bene.
Questa scelta di vita del giovane Federigo si fonda sul convincimento che «la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego». In altri termini, la vita non dev’essere né una lugubre tragedia per molti, né una commedia leggera per alcuni, perché la vita è, per tutti, un dramma che abbraccia in sé e il pianto e il riso, e il negativo e il positivo. E, in questo dramma, la vita è destinata ad essere «per tutti un impiego».
Da questo punto di vista, tutti nella vita – ciascuno secondo i propri talenti e le proprie possibilità – siamo chiamati ad «un impiego», ossia ad essere utili a noi stessi e agli altri, ad adoperarci in aiuto del prossimo, in modo da rendere la vita «utile e santa»: cioè utile agli uomini e benedetta da Dio.
E questo concetto manzoniano di vita «utile e santa» trova un suo pilastro nelle ormai colpevolmente neglette parole della Seconda lettera di san Paolo ai Tessalonicesi:
«Sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità»[11].
A proposito di tante facili e comode critiche verso queste parole di san Paolo, è utile ed onesto precisare innanzi tutto che l’Apostolo dice: “chi non vuole lavorare non mangi”; e non dice affatto “chi non può lavorare”.
Spazzato via questo equivoco, è bene tener presente che Paolo propone una severa “etica del lavoro” non solo fabbricando tende con le sue mani[12], ma soprattutto ribaltando e rivoluzionando il tradizionale rapporto che i Romani teorizzavano fra otium e negotium. Nel mondo romano, infatti, l’otium assumeva un carattere altamente positivo, riservato ai benestanti, come tempo libero dedicato agli studi, ai dialoghi, alla stesura di scritti. Il negotium, invece, era l’opposto dell’otium, e rappresentava il complesso delle attività politiche, militari, economiche.
Nel ribaltamento del rapporto otium-negotium, Paolo annette una straodinaria importanza al lavoro, a qualunque lavoro, perché è in esso che l’uomo trova la dignità e l’umiltà. L’ozio assume, invece, un carattere assolutamente negativo, come grave forma di disordine morale, di parassitismo che espande i suoi micidiali effetti dal parassita sfruttatore sino agli sfruttati. In altri termini, un ozioso parassita non può appellarsi al suo “diritto” al dolce far niente, giacché ha il dovere di essere “utile” a sé e agli altri.
Nessuna tolleranza, quindi, per l’atomismo sociale o per il soggettivismo morale: il cristiano non è un atomo e neppure un tutto; il cristiano è membro di una ἐκκλησία, fondata da Gesù; e, in quanto membro, trae vita dalla ecclesia e ha il dovere di dare il proprio contributo, di svolgere un qualunque lavoro, all’interno dell’unità organica della ecclesia.
Ecco perché l’Apostolo detta la regola secondo cui ciascuno deve guadagnarsi il pane lavorando. E tante volte, non solo nel brano sopra citato, Paolo pone il suo modo di vivere operoso come modello di laboriosità e di carità:
«Non ho desiderato né argento né oro né il vestito di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!”»[13].
Ma torniamo a seguire il giovane Federigo a Pavia.
Chi, come me, ha soggiornato anche per pochi giorni nell’Almo Collegio di Pavia, fondato da san Carlo Borromeo nel 1561, porta con sé un’esperienza indimenticabile. Varcare la soglia di quel grandioso palazzo realizzato in stile manieristico, che ti cala vorticosamente fra il Rinascimento e il Barocco, significa sentire un alito divino soffiare nei corridoi e nei saloni. E ogni pietra ti parla di Dio; e ogni pietra ricorda la gloria cristiana di san Carlo e la potenza della famiglia Borromeo.
Qui soggiornò Federigo; qui, stando alla narrazione del Manzoni, il giovane Borromeo «applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà; e furono d’insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’infermi».
Ecco le due norme che Federigo aggiunge a quelle relative alla vita del Collegio: da un canto, insegnare la dottrina cristiana ai poveri e derelitti; dall’altro, consolare e soccorrere gli infermi.
Due norme del giovane Federigo; due norme che, in generale, appartengono a una Chiesa della Controriforma, che non fu solo Inquisizione o Indice dei libri proibiti, ma fu anche lotta senza quartiere contro il malcostume che aveva per troppo tempo divorato tanti chierici – a partire da alcuni papi sino a tantissimi preti e monaci – e fu infine grandioso sforzo di riannodare i rapporti di dottrina e di carità con le fasce sociali più umili e diseredate.
Una Chiesa, quella del Concilio di Trento, che ebbe fra i suoi modelli di vescovo un san Carlo Borromeo. Questi, nominato arcivescovo di Milano il 12 maggio 1564, diede prova di rigore morale e di zelo religioso nel por mano alla “bonifica” dell’arcidiocesi di Milano che, da almeno mezzo secolo, era decaduta in una condizione di abbandono spirituale e materiale.
A tal proposito basti pensare che, prima della venuta del cardinale Carlo, la Chiesa milanese era stata nelle mani indegne del cardinale Ippolito II d’Este, figlio di Lucrezia Borgia, a sua volta figlia del famoso o famigerato papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, un papa universalmente noto per libertinismo e nepotismo.
Questa, purtroppo, era la Chiesa prima della Controriforma. Questa era la Chiesa prima del Concilio di Trento, quando era alquanto probabile imbattersi, fra cardinali e vescovi, non già nei successori degli Apostoli, bensì in loschi affaristi, in luridi simoniaci, in scellerati che avevano l’animus di un mercenario capitano di ventura e non quello di un pastore di anime. E questo clero prima della Controriforma pullulava di mecenati cultori forse della bellezza artistica, ma sicuramente cultori della bellezza femminile.
In questo ambiente ecclesiastico, che Lutero definirà un “porcaio”, era nato e cresciuto il suddetto cardinale Ippolito II d’Este che, fra i principali responsabili della decadenza della Chiesa milanese, si era opposto vigorosamente alla nomina di Carlo Borromeo alla guida dell’arcidiocesi di Milano.
D’altronde, i due cardinali – Ippolito II d’Este e Carlo Borromeo – rappresentano plasticamente la contrapposizione storica di due Chiese, anzi la conflittualità di due antitetici modi di essere episcopusnella cristianità: il primo è un cardinale protagonista della Chiesa prima della Controriforma; il secondo è un cardinale protagonista della Controriforma.
A tal proposito, ecco un paragone che non vuol essere né frivolo né pettegolo: il cardinale Ippolito II d’Este ebbe relazioni amorose con donne di ogni tipo ed ebbe una figlia, Renata, che sposò il conte Lodovico Pico della Mirandola. Per contro, il cardinale Carlo Borromeo usò molta prudenza nel trattare con le donne, sia per evitare possibili tentazioni o insinuazioni, sia perché intendeva mantenere il voto di castità. E quando era necessario parlare con persone di sesso femminile, il cardinale Carlo faceva sempre in modo che al colloquio fossero presenti dei testimoni.
E sia ben chiaro, quando in queste pagine io uso il termine “Controriforma” non mi riferisco certo all’Inquisizione, alle torture, ai roghi e alle varie manifestazioni di intolleranza, che certamente ci furono (e non soltanto nel campo cattolico), ma mi riferisco a quella “Riforma nella Controriforma”, a quella gigantesca opera di moralizzazione del clero, a quello sforzo di riprendere i contatti con Dio e con il popolo dei fedeli, a quella inaugurazione di meritorie opere di carità verso i poveri e di cura verso gli infermi, insomma a quell’opera di rinnovamento religioso e morale che animò la Chiesa Tridentina, la Chiesa del Concilio di Trento.
In questo caso e in questo senso, possiamo ben parlare di Carlo e di Federigo Borromeo come di due modelli positivi della Controriforma, ossia come di due importantissimi protagonisti della “Riforma nella Controriforma”.
Ecco brevemente una prova riguardante il cardinale Carlo: una volta insediatosi nell’arcidiocesi di Milano, nella quale da circa ottant’anni mancava un arcivescovo residente e nella quale si era instaurato un pesante degrado, il giovane Carlo Borromeo si prodigò subito per fronteggiare le varie forme di anarchia, rimuovendo i prelati indegni, ristabilendo la disciplina ecclesiastica nel clero diocesano e nei monasteri.
Inoltre, a fronte di una certa opacità liturgica, Carlo curò il rispetto della liturgia secondo i canoni del Concilio di Trento. Ma c’è di più: egli ebbe a cuore in modo esemplare la formazione culturale dei presbiteri, aprendo diversi seminari, tra cui l’Almo Collegio Borromeo di Pavia.
Adesso, chiedendo venia al lettore per il nostro zigzagare, torniamo al Federigo Borromeo descritto dal Manzoni con molta devozione e con una certa idealizzazione.
Fin dal periodo del suo soggiorno nell’Almo Collegio, il giovane Federigo diede motivo di “preoccupazione” se non di “scandalo” presso i suoi parenti e i suoi istitutori.
E costoro non avevano tutti i torti! Infatti, in un secolo di formalismo spagnoleggiante, dove le rigidissime regole del cerimoniale asburgico dominavano la vita delle corti e dell’alta società di mezzo mondo, dove la pomposa etichetta controllava i segni esteriori dell’alto clero; in quel Seicento di enorme vanità e di profonda ingiustizia, dove un tracotante nobile si poteva parare innanzi a te, ritto e minaccioso, con le braccia conserte, con lo sguardo a terra e il mento in aria; in quella «età sudicia e sfarzosa»[14], tutta cappe, spade e collari inamidati; ecco, in quel secolo tu trovi un Federigo Borromeo che opera una scelta di povertà (scandaloso!) sia nel vestiario sia nel cibo, costringendo i suoi “poveri” e potentissimi parenti a lamentarsi perché le esagerazioni pauperistiche del giovane Federigo degradavano la dignità della casata Borromeo.
Ma c’è anche un altro fronte di guerra tra Federigo e gli istitutori, i quali curavano l’istruzione e la disciplina dei giovani del Collegio; una guerra, o meglio una guerriglia, che Manzoni ci descrive con una pennellata di ironia e di polemica:
«Un’altra guerra ebbe a sostenere con gl’istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s’invanisce e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi»[15].
Con la scusa di descrivere i motivi per cui gli istitutori tentavano d’introdurre nella vita di Federigo qualche segno di superiorità, Manzoni delinea tre caratteri di varia umanità, anzi tre tipologie di angustia intellettuale e di grettezza d’animo: in primo luogo, quelli che, per captatio benevolentiæ, cercano con blandizie e adulazioni di guadagnare la simpatia dei potenti; poi quelli che per «svisceratezza servile», per eccesso di devozione e di servilismo, si compiacciono e si gonfiano dell’altrui potenza. E, dulcis in fundo, i «prudenti», quelli che vivono nel terrore degli eccessi, e predicano l’etica del giusto mezzo interpretata a modo loro, e finiscono con l’individuare il punto giusto della virtù proprio là dove stanno loro, dove a loro fa comodo.
Indubbiamente, su questo tema il grande Aristotele, nel libro II dell’Etica nicomachea, aveva sentenziato che «il mezzo è la cosa migliore» [μέσον τε καὶ ἄριστον]. E nel mondo romano possiamo citare sia la definizione di Cicerone: «Quasi in tutto la via di mezzo è la migliore» [In omnibus fere rebus mediocritatem esse optumam][16]; sia quella di Orazio: «La virtù è il punto medio fra due difetti, equidistante da entrambi» [Virtus est medium vitiorum et utrimque reductum][17].
Insomma, da Aristotele in poi questa teoria di ordine morale stabilisce che la virtù è il giusto mezzo tra due opposti errori o vizi, l’uno dei quali pecca per difetto e l’altro per eccesso. Ad esempio, il coraggio è il punto medio virtuoso fra il vizio della pavida viltà e il vizio della spericolata temerarietà. Ovviamente, il giusto mezzo non si può stabilire astrattamente e una volta per tutte, ma bisogna determinarlo in una situazione concreta di un concreto individuo.
In verità, la critica di Manzoni si appunta sull’errata interpretazione che i «prudenti» operano del giusto mezzo, giacché costoro collocano il punto medio non già tra due opposti vizi, bensì tra l’estremo della virtù e l’estremo del vizio. Sicché il giusto mezzo virtuoso risulterebbe assurdamente equidistante rispetto al vizio e rispetto alla virtù, riducendosi così ad una mostruosità morale, ad una sorta di ircocervo metà vizio e metà virtù. Un errore, questo, che produce effetti nefasti sia nella filosofia morale sia nella prassi morale.
Ad ogni modo, con tale critica manzoniana cade la maschera dell’uomo prudente e si manifesta il volto dell’uomo moralmente meschino. E, fra i tanti prudenti-meschini, non può non apparire il povero don Abbondio che, per tutta la vita, sceglie il giusto mezzo che gli fa comodo. Quel don Abbondio che, dopo l’incontro dell’innominato pentito con il cardinal Federigo, e dopo essere stato incaricato dall’arcivescovo di andare assieme all’innominato a prendere Lucia, si abbandona a riflessioni di “prudenza”, condannando le “esagerazioni” e le “imprudenze” di gente come don Rodrigo, l’innominato e lo stesso cardinal Federigo, tre «faccendoni» che non sanno star quieti e fanno sempre rumore.
Che hanno in comune questi tre individui agli occhi sempre spaventati e sospettosi di don Abbondio? I primi due, secondo il metro del nostro curato, appartengono alla categoria dei “birboni”; il terzo, ossia Federigo, appartiene alla categoria dei “santi”. Insomma, nulla di più antitetico. E tuttavia hanno qualcosa in comune: i tre hanno l’argento vivo addosso e, quel che è peggio, tirano in ballo e coinvolgono la gente pacifica come don Abbondio:
«È un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l’argento vivo addosso, e non si contentino d’esser sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, e tirarmi per i capelli ne’ loro affari: io che non chiedo altro che d’esser lasciato vivere!»[18].
E parliamo di «quel matto birbone di don Rodrigo». Costui, ricco, giovane, rispettato, temuto, potrebbe tranquillamente godersi la vita; e invece va cercando guai per sé e per gli altri, e per giunta fa il donnaiolo, fa «il mestiere di molestar le femmine», che è «il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo»:
«Quel matto birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l’uomo il più felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri. Potrebbe far l’arte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo»[19].
Arriviamo ora al peggiore dei “birboni”, a quello smodato dell’innominato che non ha misura sia nel male sia nel bene, che fa tanto fracasso sia nel crimine sia nel pentimento, se mai si sia pentito veramente (aggiunge il sospettoso e pauroso don Abbondio). E poi, parliamoci chiaro, la penitenza si può fare a casa propria, senza chiasso, senza dare spettacolo, e soprattutto senza dare fastidio al prossimo, cioè a quel galantuomo di un vecchio curato:
«Costui, – va rimuginando dentro di sé don Abbondio – dopo aver messo sottosopra il mondo con le scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione... se sarà vero. Intanto tocca a me a farne l’esperienza!... È finita: quando son nati con quella smania in corpo, bisogna che faccian sempre fracasso. Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com’ho fatt’io? No signore: si deve squartare, ammazzare, fare il diavolo... oh povero me!... e poi uno scompiglio, anche per far penitenza. La penitenza, quando s’ha buona volontà, si può farla a casa sua, quietamente, senza tant’apparato, senza dar tant’incomodo al prossimo»[20].
Infine accostiamoci a quell’esagerato “imprudente” del cardinal Federigo Borromeo, il quale eccede in santità, precipita le cose, prende decisioni in fretta, senza pensare alle possibili conseguenze.
Senza indugio, all’istante, il cardinale accoglie a braccia aperte il famigerato innominato, come fosse un vecchio e buon amico. Neppure un briciolo di prudenza! E caro amico di qua, e amico caro di là; e facciamo presto di qua, e facciamo presto di là, il cardinale non riesce a mitigare i suoi slanci di santità con un po’ di calma e di prudenza. E per giunta coinvolge un povero curato come don Abbondio, quando invece un vescovo santo, com’è lui, dovrebbe risparmiare e proteggere i suoi curati.
«E sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico caro; stare a tutto quel che gli dice costui, come se l’avesse visto far miracoli; e prendere addirittura una risoluzione, mettercisi dentro con le mani e co’ piedi, presto di qua, presto di là: a casa mia si chiama precipitazione. E senza avere una minima caparra, dargli in mano un povero curato! questo si chiama giocare un uomo a pari e caffo. Un vescovo santo, com’è lui, de’ curati dovrebbe esserne geloso, come della pupilla degli occhi suoi. Un pochino di flemma, un pochino di prudenza, un pochino di carità, mi pare che possa stare anche con la santità... E se fosse tutto un’apparenza? Chi può conoscer tutti i fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? A pensare che mi tocca a andar con lui, a casa sua! Ci può esser sotto qualche diavolo: oh povero me! è meglio non ci pensare»[21].
Insomma, con le loro smanie e le loro imprudenze, son tutti nati per dare fastidio al nostro povero don Abbondio.
Persino Lucia, la vittima innocente di quei due birboni scellerati; persino Lucia riesce sempre ad arrecare fastidio alla vita di un pacifico galantuomo come don Abbondio.
E diciamolo pure: questa poverina è nata per la rovina del suo curato!
«Che imbroglio è questo di Lucia? Che ci fosse un’intesa con don Rodrigo? che gente! ma almeno la cosa sarebbe chiara. Ma come l’ha avuta nell’unghie costui? Chi lo sa? È tutto un segreto con monsignore: e a me che mi fanno trottare in questa maniera, non si dice nulla. Io non mi curo di sapere i fatti degli altri; ma quando uno ci ha a metter la pelle, ha anche ragione di sapere. Se fosse proprio per andare a prendere quella povera creatura, pazienza! Benché, poteva ben condurla con sé addirittura. E poi, se è così convertito, se è diventato un santo padre, che bisogno c’era di me? Oh che caos! Basta; voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla scampata grossa; sa il cielo cos’ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia rovina»[22].
Alla fine di queste pagine, senza voler fare la morale ad alcuno, desidero offrire un qualche spunto di bonaria riflessione.
Secondo la tradizione, nel tempio di Apollo in Delfi c’era scolpito il motto μηδὲν ἄγαν [nulla di troppo]. Era un ammonimento ad evitare le esagerazioni, ad adottare la necessaria moderazione in ogni cosa. E a Roma la stessa esortazione si trova in Terenzio, nella forma del ne quid nimis: «Non avevi torto; nella vita, dico io, la regola giusta è: nulla di troppo»[23].
Ebbene, uno dei galantuomini del «nulla di troppo» è certamente don Abbondio. Ma tanti di noi militano nella falange del ne quid nimis, del «nulla di troppo», sempre pronti a criticare, a dire agli altri “ma chi te lo fa fare”, “che t’importa?”, “non hai altro a cui pensare?”. Così stabiliamo noi dove comincia il “troppo”. E con questo nostro metro siamo pronti a censurare gli altri, ora per il “troppo”, ora per il “troppo poco”.
Ma, chiedo venia, che ne è stato del cardinal Federigo? Che ne è stato di quel grande arcivescovo che Manzoni ha paragonato a un «bell’albero», alla cui ombra trovarono riparo tanti afflitti? Diciamo soltanto che quel «bell’albero» fu un luminoso esempio di carità cristiana sia durante la carestia del 1628, sia durante la peste del 1630.
Purtroppo, dopo aver visto la fine della peste, quel «bell’albero», quasi travolto da un’immane tempesta di dolore e di fatica, cadde spezzato per sempre.
Federigo Borromeo morì il 21 settembre 1631, a sessantasette anni. La sua salma fu sepolta nel Duomo di Milano, di fronte all’altare della Madonna dell’Albero.
Una mirabile coincidenza! Così, senza che nessuno avesse fatto caso, il «bell’albero» tornò a vivere accanto alla Madre di tutti i cristiani, che non poteva non chiamarsi “Madonna dell’Albero”.
[1] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXII, 74-84.
[2] V. Monti, Opere, V, Milano 1841.
[3] Geremia 17, 5-8.
[4] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXII, 85-90.
[5] F. Borromeo, De pestilentia quæ Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit, cap. VIII.
[6] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXXIV, 317-353.
[7] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXII, 90-95.
[8] Siracide 3, 18-20.
[9] San Paolo, Lettera ai Romani, 12, 3.
[10] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXII, 95-102.
[11] San Paolo, Seconda lettera ai Tessalonicesi, 3, 10-12.
[12] Atti degli Apostoli, 18, 1-3.
[13] Atti degli Apostoli, 20, 33-35.
[14] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXII, 172-173.
[15] Ivi, cap. XXII, 119-127.
[16] Cicerone, Tusculanæ disputationes, IV, 20, 46.
[17] Orazio, Epistole, I, 18, 9.
[18] A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXIII, 421-425.
[19] Ivi, cap. XXIII, 426-433.
[20] Ivi, cap. XXIII, 434-442.
[21] Ivi, cap. XXIII, 442-453.
[22] Ivi, cap. XXIII, 453-465.
[23] Terenzio, Andria, atto I, 60-61.