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La storia

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Giuseppe Pezzino, nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale nell'Università di Catania. Ma soprattutto (cosa a cui tiene di più!) è stato professore di Filosofia e Storia nei Licei Statali. Ha fondato la Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha inoltre fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica". È membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; e dell'associazione "Les Amis de Bossuet".

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Giuseppe Pezzino

Passeggiando fra gli alberi della storia - Seconda passeggiata

2025-01-03 16:29

Prof. Giuseppe Pezzino

albero, Nuovo Testamento, Gesù, ricerca, giustizia,

Passeggiando fra gli alberi della storia - Seconda passeggiata

Anche nel Nuovo Testamento balza evidente il richiamo all’albero, come nella parabola della pianta di fico: «Dalla pianta di fico imparate...

Anche nel Nuovo Testamento balza evidente il richiamo all’albero, come nella parabola della pianta di fico:

 

«Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno»[1].

 

Inoltre, nel vangelo di Giovanni, Gesù rivela a Natanaele di averlo visto seduto sotto l’albero di fichi, che indica il suo desiderio di verità:

 

«Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea; trovò Filippo e gli disse: “Seguimi!”. Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro. Filippo trovò Natanaele e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret”. Natanaele gli disse: “Da Nazaret può venire qualcosa di buono?”. Filippo gli rispose: “Vieni e vedi”. Gesù intanto, visto Natanaele che gli veniva incontro, disse di lui: “Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità”. Natanaele gli domandò: “Come mi conosci?”. Gli rispose Gesù: “Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi”. Gli replicò Natanaele: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!”. Gli rispose Gesù: “Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!”. Poi gli disse: “In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo”»[2].

 

Stare seduto sotto l’albero di fichi, come fa Natanaele, significa riflettere, studiare, cercare la verità. Perciò, se egli rimane con il divino Maestro, la sua ricerca sarà appagata. E infine Gesù, per indicare ai discepoli che avranno prove ben più grandi sulla sua divinità, allude al sogno di Giacobbe riferito in questo stesso brano:

 

«Giacobbe partì da Betsabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese là una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco, il Signore gli stava davanti e disse: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco. A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato. La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra. Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto”»[3].

 

Ma, per il nostro tema, molto significativo ed efficace è il riferimento ad un altro albero di fichi, quello sterile, quello che non dà frutto e che merita la maledizione di Gesù.

Ecco come, con una pennellata, l’evangelista Marco dipinge la scena:

 

«La mattina seguente, mentre uscivano da Betania, ebbe fame. Avendo visto da lontano un albero di fichi che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie. Non era infatti la stagione dei fichi. Rivolto all’albero, disse: “Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!”. E i suoi discepoli l’udirono»[4].

 

Questa pianta di fico assomiglia a parecchi di noi, pieni di fogliame e senza frutto. Assomiglia a tanti di noi che abbondano di parole, di riti, di professioni di fede sia politica sia morale sia religiosa, ma difettano di opere. E perciò l’apostolo Giacomo giustamente ammonisce:

 

«A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? […] Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. […] Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta»[5].

 

Tanti, purtroppo, mettono boriosamente in mostra le loro toghe, le loro uniformi, le loro ricchezze, i loro titoli accademici, nobiliari, militari, ecclesiastici, per abbagliare la gente, per intimorire i subalterni, per nascondere il vuoto o il marciume interiore. Avvicinatevi a questi individui – come Gesù si accostò all’albero di fico –, scostate pazientemente l’abbondante e vistoso fogliame, frugate minuziosamente, cercate attentamente qualche frutto, e troverete il nulla.

Beninteso però: non tutti gli alberi sono sterili; anzi tantissimi alberi producono frutti buoni o frutti cattivi. «Dai loro frutti li riconoscerete», scrive l’evangelista Matteo. E, sia ben chiaro, accanto o di contro a coloro che generano frutti cattivi stanno anche quelli che generano frutti buoni:

 

«Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li riconoscerete [Igitur ex fructibus eorum cognoscetis eos]».

 

Alcuni sfoggiano toghe rosse o nere nei tribunali o nelle università; altri indossano ermellini come gatti impellicciati; altri marciano pettoruti con armi scintillanti; altri portano al petto medaglie o croci (la croce di Cristo o quella di cavaliere, di commendatore); e poi? E poi sono come quel fico sterile, coperto di inutile fogliame e senza buoni frutti; o, peggio ancora, qualcuno è come quei sepolcri imbiancati, che fuori ostentano ipocritamente un grande rigore morale, e poi dentro nascondono soltanto un orrendo ossame di vizi e di malefatte.

Tutti così? Assolutamente no. Accanto o di contro a questi tipi di “alberi cattivi”, ci stanno tantissimi “alberi buoni” che indossano le toghe o le uniformi con dignità e onore. Quindi vale sempre l’antica massima di “non fare di tutta l’erba un fascio”. E questa massima vale sia per distinguere, sia per non confondere le acque a favore dei malvagi e a scapito dei buoni.

Perciò Gesù – sempre pronto a insegnarci a porgere l’altra guancia e a perdonare persino i propri carnefici – stavolta Gesù, di fronte a certa marmaglia, scaglia la sua maledizione: «Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!».

E tu, che hai patito mille ingiustizie; tu che hai dovuto baciare mille mani che meritavano di essere mozzate; tu che non hai voluto credere che la Misericordia divina fosse tanto di manica larga da abolire la distinzione fra l’uomo giusto e il peccatore, fra la vittima e l’assassino; tu che hai creduto con fede che in Dio la Misericordia non annulla la Giustizia, e che alla fine il buon Dio non ci riserverà la bella sorpresa di un Inferno “chiuso per cessata attività” o “per mancanza di clienti”; allora tu vai a leggere il Vangelo:

 

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. […] E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna»[6].

 

Ecco: sono eterne parole che parlano di «supplizio eterno», per le capre, e di «vita eterna», per le pecore.

Quando tu, povero diavolo, subisci un’ingiustizia da un potente o da un prepotente o, peggio ancora, da un viscido impotente, allora tu ti rivolgi al giudice del tuo paesello per ottenere giustizia. E magari perdi tempo, denaro e dignità, per poi vedere trionfare l’ingiustizia ad opera di un giudice corrotto.

E allora tu – come disse il mugnaio al re di Prussia – griderai: «Ci sarà pure un giudice a Berlino!». E perciò ti recherai fiducioso a Berlino, per trovare un giudice giusto che ti renda giustizia.

E se anche a Berlino faranno strame del tuo diritto, allora non ti resta che sperare in Dio, in un Dio sommamente giusto, in un Dio che non dimostra la stessa grazia ai malfattori e alle vittime, insomma in un Dio che magari non pagherà il sabato, ma un bel giorno pagherà!

Perciò nell’Apocalisse si legge che non tutti avranno diritto all’«albero della vita»:

 

«Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine. Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città. Fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!»[7]

 

In altri termini, è vero che «Dio è amore» [Deus caritas est; Ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν] [8], come ci ricorda l’apostolo Giovanni nella sua Prima Lettera; è anche vero che Dio è Creatore perché è Amore, e addirittura per amore offre il suo Figlio unigenito sulla croce per la salvezza degli uomini macchiati dal peccato originale; ma Dio è anche Giustizia sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento.

A tal proposito, basterebbe la parabola evangelica della zizzania:

 

«Espose loro un’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”»[9].

 

Secondo Gesù, dunque, bisogna distinguere e separare il grano dalla zizzania, ossia il grano-bene – che è opera di Dio e che va conservato nel granaio di Dio – dalla zizzania-male – che è opera del diavolo e va bruciata. E subito dopo il divino Maestro si sofferma a spiegare con meravigliosa chiarezza questa parabola:

 

«Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!»[10]

 

Il male, dunque, non proviene da Dio, ma dal Maligno, che è astuto e semina il male in mezzo al bene, in modo tale che risulti poi difficile distinguerli e separarli. I servitori sono impazienti di estirpare la zizzania, ma Dio li frena, perché è misericordioso e sa aspettare. Aspetta perché, come ci spiega sant’Agostino, «molti in un primo tempo sono zizzania e solo più tardi diventano buon grano»[11].

A questo punto, però, bisogna porre due postille: la prima è che Dio aspetta e perdona non già tutti i peccatori indistintamente, bensì i peccatori che si pentono, quelli che da zizzania diventano grano. Al contrario, per coloro che non si pentono, per i peccatori incalliti sino alla morte, ci sarà alla fine del mondo la «mietitura», ossia il giudizio finale in cui Dio «manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti».

La seconda postilla riguarda il perdono. E qui ci soccorre l’evangelista Matteo, che dipinge questa miniatura:

 

«Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”»[12].

 

Perdonare fino a settanta volte sette! Ma – attenzione! – non sempre e neppure in qualunque caso. A tal proposito, riflettiamo sull’episodio dell’adultera riportato dall’evangelista Giovanni:

 

«Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”»[13].

 

«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei [Qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat]». Chi non ricorda queste bellissime parole di Gesù Maestro e Legislatore? Gli scribi e i farisei – gente che ben conosce la legge di Mosè – chiedono a Gesù come comportarsi con una donna sorpresa in adulterio, un peccato che nella legge di Mosè (che è la Legge di Dio) era castigato con la pena di morte per lapidazione.

La scena è quanto mai drammatica: infatti, nelle mani di Gesù c’è la vita di quella donna, ma c’è anche la sua, perché può essere accusato di incitare alla trasgressione della legge mosaico-divina.

Mentre ascolta gli scribi e i farisei che lo tentano per poi accusarlo, Gesù si mette a scrivere per terra con un dito. E qui il Maestro è anche il Legislatore!

Non è forse vero, infatti, che Dio scrisse la legge con il suo dito su tavole di pietra? «Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio»[14].

Ebbene – lo ribadiamo – qui Gesù è il Legislatore, è la Giustizia in persona. Ma Gesù non viola affatto né intende modificare la Legge mosaica; egli vuole portarla a compimento, trasferendola dall’esteriorità vuota e ipocrita all’interiorità sostanziale:

 

«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento [non veni solvere, sed adimplere]. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto»[15].

 

Sulla base della Legge, Gesù Maestro e Legislatore divino, che conosce il cuore di ogni uomo, stende la mano pietosa verso l’adultera, e la perdona: «Neanch’io ti condanno». Beninteso, però, con questa sentenza Gesù perdona e salva la peccatrice, ma condanna fermamente il peccato congedando l’adultera con queste parole: «Va’ e d’ora in poi non peccare più».

A tal riguardo, risulta illuminante quel che disse Benedetto XVI sul perdono di Gesù all’adultera: «Queste parole sono piene della forza disarmante della verità, che abbatte il muro dell’ipocrisia e apre le coscienze ad una giustizia più grande, quella dell’amore, in cui consiste il pieno compimento di ogni precetto. È la giustizia che ha salvato anche Saulo di Tarso, trasformandolo in san Paolo»[16].

Orbene, dopo l’ebbrezza di una lettura che rischia di scivolare nel “perdono universale”, ossia nel perdono per tutti e a prezzi stracciati, bisogna ritornare alla sobrietà del giudizio e ricordare che nemmeno Gesù riesce a perdonare i mercanti nel tempio, che egli caccia con un impeto di sdegno e a suon di frustate:

 

«Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”»[17].

 

E non c’è perdono neppure per «gli scribi e i farisei ipocriti», che sono definiti «serpenti e razza di vipere». Ecco, infatti, la famosa e devastante invettiva di Gesù:

 

«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti [Væ vobis, scribæ et pharisæi hypocritæ], che pagate la decima sulla menta, sull’aneto e sul cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità»[18].

 

Senza alcun dubbio, Gesù viene per redimere i peccatori, per salvare la pecorella smarrita, per sanare gli infermi. Ma, se la pecorella diventa un testardo montone, che persevera irrimediabilmente nel peccato per tutta la vita sino alla morte, allora difficilmente potrà sfuggire alla condanna della Geenna.

E questa considerazione mira a far comprendere che la visione distorta di un perdono divino universale – sempre e per tutti, senza distinzione fra il giusto e il peccatore, fra l’onesto e il disonesto – favorisce oggettivamente una morale rilassata e un magistero confusionario e lassista.

E sia ben chiaro: una cosa è l’idea di un Dio giusto e insieme misericordioso; altra cosa è invece l’idea di un Dio che abbandonerebbe la giustizia, per far prevalere unicamente una misericordia rilassata e complice dei più incalliti peccatori.

Ribadisco: nessuno vuol negare la misericordia di Dio, che è Amore infinito che accoglie il peccatore, lo perdona e lo salva. Ma l’accoglienza esige la Misericordia divina, da un canto, e il sincero pentimento del peccatore, dall’altro.

A tal proposito, così il sommo poeta fa parlare l’anima di re Manfredi, figlio dell’imperatore Federico II di Svevia:

 

Poscia ch’io ebbi rotta la persona

di due punte mortali, io mi rendei,

piangendo, a quei che volontier perdona.

 

Orribil furon li peccati miei;

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei[19].

 

Sconfitto dall’esercito di Carlo d’Angiò, Manfredi era caduto sul campo di battaglia a Benevento, il 26 febbraio 1266. Prima di esalare l’ultimo respiro, egli, piangendo, si rivolge e si affida a Dio, a colui «che volontier perdona». E qui, dinanzi a Dante, si manifestano la confessione e il pentimento del monarca: «Orribil furon li peccati miei».

Ora, con l’ammissione della colpa e col pentimento, la bellezza fisica e la nobiltà di lignaggio di re Manfredi («biondo era e bello e di gentile aspetto») s’illuminano di spiritualità e si tramutano nell’indicibile bellezza e nella superiore nobiltà della conversione di chi, accolto misericordiosamente da Dio, scioglie un inno di lode all’infinita bontà divina «che prende ciò che si rivolge a lei».

Ed ora un altro grande, molto più grande di Manfredi, ci viene presentato dal Manzoni nell’ode Il cinque maggio: si tratta dell’imperatore Napoleone Bonaparte. Alla notizia della morte di costui, il poeta compone un’ode in cui, tra l’altro, si fondono meravigliosamente il Manzoni poeta, il Manzoni storico e il Manzoni credente:

 

Fu vera gloria? Ai posteri

L’ardua sentenza: nui

Chiniam la fronte al Massimo

Fattor, che volle in lui

Del creator suo spirito

Più vasta orma stampar[20].

 

Con una domanda retorica, il Manzoni lascia ai futuri storici «l’ardua sentenza» sulle glorie terrene (militari e politiche). Ora, quel che invece preme al poeta è l’esaltazione della conversione di Napoleone prima di morire e, nel contempo, la celebrazione della misericordia di Dio.

«Tutto ei provò»: la gloria del trionfo, ma anche l’umiliante fuga dopo la sconfitta (nella catastrofica campagna di Russia del 1812 e nelle successive battaglie di Lipsia e di Waterloo), l’esultanza della ritornata vittoria, e infine l’esilio a Sant’Elena.

Di fronte alla grandezza di Napoleone, viene ridimensionata la gloria di un Annibale, di uno Scipione o di un Giulio Cesare:

 

Ei si nomò: due secoli,

L’un contro l’altro armato,

Sommessi a lui si volsero,

Come aspettando il fato;

Ei fe’ silenzio, ed arbitro

S’assise in mezzo a lor.

 

«Ei si nomò». Ovverosia, egli si impose da sé la corona imperiale, che aveva conquistato e meritato da grande stratega politico e militare. Perciò fu faber fortunæ suæ, fu artefice del proprio destino. E due secoli – il Settecento e l’Ottocento, la Rivoluzione francese e la Restaurazione – a lui guardarono con sottomissione e deferenza come a un giudice indiscusso.

E tuttavia Napoleone è pur sempre un uomo. Un uomo che, nell’esilio e nella solitudine di un’isola circondata e inghiottita dalle acque dell’Oceano Atlantico, viene tormentato dai fantasmi dei ricordi e dal vuoto dell’inoperosità e dell’isolamento.

Perciò cade nella disperazione: lui che era stato tutto, ora è nulla; lui che come un Titano aveva scalato l’Olimpo delle teste coronate, ora è precipitato nel sottosuolo degli Inferi; lui che si era creduto un dio, ora è un homme sans Dieu, un misero uomo senza Dio.

Ma la misericordia divina scende su di lui, che si converte e muore in grazia di Dio:

 

E disperò: ma valida

Venne una man dal cielo,

E in più spirabil aere

Pietosa il trasportò.

 

È un miracolo. È il miracolo della Grazia divina che scende consolatrice a infondere amore e speranza in una vita ultraterrena. È il trionfo dell’Albero della vita, del legno della Croce piantata sul Golgota che, scandalo e follia per gli uomini legati ai valori terreni, accoglie, salva e redime ogni anima che ha sete di eternità e desiderio di Dio.

È il miracolo di Dio «che atterra e suscita, che affanna e che consola»; di Dio che non disdegna il vegliare accanto al letto di una larva d’uomo che muore in solitudine. E quest’uomo – che ora giace sul letto di morte – è un grande uomo non già per le effimere glorie politico-militari, ma per la gloria autentica ed eterna della Croce.

 

 

 

 


 

[1] Matteo 24, 32-35; ed anche Marco 13, 28-31, e Luca 21, 29-33.

[2] Giovanni 1, 43-51.

[3] Genesi 28, 10-15.

[4] Marco 11, 12-14.

[5] Giacomo 2, 14.

[6] Matteo 25, 31-33 e 46.

[7] Apocalisse 22, 12-15.

[8] 1Giovanni 16.

[9] Matteo 13, 24-30.

[10] Matteo 13, 36-43.

[11] Agostino, Diciassette questioni sul Vangelo di Matteo, 11.9, in https://www.augustinus.it/italiano/index.htm

[12] Matteo 18, 21-22.

[13] Giovanni 8, 1-11.

[14] Esodo 31, 18.

[15] Matteo 5, 17-18.

[16] Papa Benedetto XVI, Angelus, 21 marzo 2010, in https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/angelus/2010/documents/hf_ben-xvi_ang_20100321.html

[17] Giovanni 2, 13-16. Lo stesso episodio viene riportato nei tre vangeli sinottici: Matteo 21, 12-13; Marco 11, 15-17; Luca 19, 45-46.

[18] Matteo 23, 23-28.

[19] Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, canto III, 118-123.

[20] A. Manzoni, Il cinque maggio, 31-36.

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VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Quinta ed ultima parte)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 10:41

Ma torniamo al re che, il 1° giugno 1940, a dieci giorni dalla nostra entrata in guerra, appare a Ciano rassegnato, ma non disperato. Egli, infatti, m

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte IV)

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte IV)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 10:38

Il 3 maggio 1938, Hitler e i vertici del Terzo Reich (il delfino di Hitler, Rudolf Hess; il numero due del nazismo, Hermann Göring; il ministro degli

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte III)

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte III)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 10:37

In un primo momento sembra, si spera, che il delitto Matteotti possa travolgere il governo Mussolini. Ma storicamente dobbiamo prendere atto che è una

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte II)

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte II)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 10:33

Dopo anni di guerra, dopo la vittoria del 1918, si aspettava la pace. Si vagheggiava un avvenire di ricostruzione e di concordia nazionale. E invece V

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte I)

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte I)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 10:32

«Viviamo proprio in un bel porco mondo», disse amareggiato il vecchio re Vittorio Emanuele III al suo aiutante di campo. Era il 23 dicembre 1947, a du

OGGI, 25 LUGLIO 2020

OGGI, 25 LUGLIO 2020

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 10:31

Oggi, 25 luglio 2020, ore 16, 30, mentre mi vado collassando nella mia stanza senza condizionatore né ventilatore, penso a Mussolini nel fatidico 25 l

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte III) BENEDETTO CROCE: PIETRA DELLO SCANDALO

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte III) BENEDETTO CROCE: PIETRA DELLO SCANDALO

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 10:30

Con la scomparsa di Giovanni Gentile, il 15 aprile 1944, e di Benito Mussolini, il 28 aprile 1945, potrebbe sembrare che Benedetto Croce, avendo perdu

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte II) LA MACELLERIA MESSICANA

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte II) LA MACELLERIA MESSICANA

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-17 10:29

Dopo la significativa presenza di Giovanni Gentile al ministero dell’Istruzione (dal 1922 al 1924), ovvero dopo la Riforma Gentile realizzata in due a

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte I)

TRA I MISTERI DEL MINISTERO (Parte I)

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-16 12:37

Con finta ingenuità mi chiedi perché mai io ricorra all’espressione “Manicomio Italia”, quando debbo affrontare seriamente le questioni del nostro «be

Il Male di vivere

Il Male di vivere

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-16 12:36

Oggi tu mi chiedi – con malcelata ironia – dove sia finito l’uomo prometeico che sfidava gli dèi, l’uomo sicuro di sé, della sua scienza e della sua t

VANITAS

VANITAS

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-16 12:35

Hai ragione da vendere, cara Myriam, nel lamentare la forzata separazione sociale in questi dolorosi e interminabili giorni di emergenza planetaria. Q

VECCHIO, DIRANNO CHE SEI VECCHIO

VECCHIO, DIRANNO CHE SEI VECCHIO

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-16 12:34

Ieri eravamo quattro amici al bar, e mi han detto che un noto comico prestato alla politica aveva partorito non già una barzelletta, bensì una bella p

DOLCETTO O SCHERZETTO

DOLCETTO O SCHERZETTO

Prof. Giuseppe Pezzino

2023-06-02 12:32

Fanno tenerezza queste generazioni evergreen, che giocano a santificare e adorare la zucca vuota. Per loro fortuna, non hanno conosciuto la morte nell