Il 3 maggio 1938, Hitler e i vertici del Terzo Reich (il delfino di Hitler, Rudolf Hess; il numero due del nazismo, Hermann Göring; il ministro degli esteri, Joachim von Ribbentrop; il capo supremo delle SS, Heinrich Himmler) visitano l’Italia fascista che ha conquistato un impero in Africa.
Hitler rimarrà sino al 9 maggio, visitando Roma, Napoli e Firenze. E sarà un trionfo di fasci littori e di svastiche, di scene suggestive, di scenografie e di sceneggiate.
A Napoli, tutto s’incentra sul coup de théâtre della parata navale della marina militare italiana, la quale è l’immaginario pilastro dell’immaginario dominio del mar Mediterraneo, a scapito della Mediterranean Fleet di sua maestà britannica.
L’anno dopo, quasi per un fatale presagio, Luciana Dolliver canterà Illusione, dolce chimera sei tu.
Quante illusioni fra gli “strateghi” italiani, in testa lo “stratega” Mussolini, sull’inesorabile declino della flotta britannica in mano a un popolo ormai in decadenza! Fra qualche anno, il fiore della gioventù italiana verrà inghiottito dalle acque del Mediterraneo, pagando con la vita gli errori, le viltà e le facilonerie altrui.
Nella civilissima Atene, “strateghi” di tal fatta avrebbero subìto almeno un processo, con tutti i pesanti annessi e connessi.
Ovviamente, la visita di Hitler non può far sparire i dissapori tra la Corona e Mussolini. Anzi si approfondisce il solco, e si mugugna che quel piccolo re abbia volutamente e caparbiamente tenuto la scena di primissimo piano, in quanto Capo dello Stato italiano. Insomma, i due veri protagonisti sono Hitler e Mussolini, ma quest’ultimo deve ingoiare il rospo e fare la parte del numero due in presenza del re, che non arretra mai e mai si dà assente, pur consapevole di essere indigesto sia ai fascisti sia ai nazisti.
E, a tal proposito, risulta quanto mai rivelatore ciò che scrive Ciano: «La Corte, che non ha voluto minimamente abdicare, si è rivelata di una ingombrante inutilità. All’arrivo il popolo ha provato grande delusione nel vedere che il fondatore della potenza politica italiana non era al fianco del Führer nel trionfo delle vie imperiali, da lui concepite e realizzate. I tedeschi l’hanno forse sentito quanto noi. Ed è anche successo qualche incidente sgradevole a Napoli, a causa dell'insipienza dei cerimonieri. Tutto l'ambiente è ammuffito: una dinastia che è vecchia di mille anni, non ama l'espressione di un regime rivoluzionario. Ad un Hitler, che per loro non è altro che il parvenu, preferiscono un qualsiasi reuccio, magari di Danimarca o di Grecia, con un pezzo di corona ed un numero imprecisato di quarti. Quando Ribbentrop ha riferito gli incidenti, l'ho fatto parlare col Duce. E questi ha detto: “Dite al Führer di portare pazienza. Sono sedici anni che paziento io...”. Ribbentrop ha risposto che l'unica cosa buona fatta dalla social-democrazia in Germania è stata di liquidare per sempre la monarchia».
Fra non molto, però, il camerata Ciano avrà parecchi dubbi sul “regime rivoluzionario” fascista e sulla bontà del patto con i camerati tedeschi. E si accorgerà che l’ultima speranza risiede proprio in quella corte “ammuffita”, in quella “dinastia che è vecchia di mille anni”, in quel piccolo re che lavora sottoterra come una talpa, e come una talpa aspetta il momento buono per tornare in superficie.
Ad ogni modo, il duetto re-duce finisce con il solito refrain: il duce farebbe sfracelli contro la monarchia, ma poi dice che bisogna aspettare, bisogna pazientare!
Tra l’altro, la permanenza di Hitler come ospite al Quirinale offre il destro a Vittorio Emanuele III, per scoprire e diffondere alcuni caratteri non certo normali della personalità di Hitler come “degenerato psico-fisiologico”.
Su ciò valga la testimonianza di Ciano che a caldo, il 7 maggio 1938, riporta alcune note gustose: «Il Führer ha avuto più successo personale di quanto io non credessi. […] Il Re gli rimane sempre ostile e tende a farlo passare per una specie di degenerato psico-fisiologico. Ha narrato al Duce ed a me che la prima notte di soggiorno a Palazzo Reale, Hitler, verso la una del mattino, chiese una donna. Grande emozione. Spiegazione: pare che non riesca a prendere sonno se non vede con i suoi occhi una donna rifargli il letto. Fu difficile trovarla, ma poi venne una cameriera d'albergo e il problema fu risolto. Se il fatto fosse vero sarebbe interessante e misterioso. Ma, sarà vero? O non piuttosto una malignità del Re, che ha anche insinuato che Hitler si fa iniezioni eccitanti e di stupefacenti?».
Sarà vero? Non sarà vero? Maliziosamente Ciano racconta tutto e sputtana Hitler, anche se poi, alla fine del racconto, salva la sua pelle con alcuni punti interrogativi che lasciano il tempo che trovano.
Sta di fatto, però, che fa una certa impressione pensare che le sorti della Germania, e per riflesso del mondo, stiano nelle mani di uno che, nel cuore della notte, si sveglia, si alza, perché ha bisogno di una donna…per rifargli il letto!
Si aggiunga che lo stesso Ciano, il quale riporta le inquietanti impressioni del re su Hitler, non esita a riferire che «Mussolini crede che Hitler si metta il rossetto sulle guance per nascondere il pallore». Annamo bene … proprio bene! – direbbero nella città di Rugantino. Ma questa è un’altra storia, quella con la s minuscola. Perciò torniamo alla Storia con la S maiuscola.
Insomma, qualcosa di titanico, di omerico, fu quella visita di Hitler in Italia!
Dalla commedia brillante passiamo alla tragedia. Nello stesso 1938, il 29 e il 30 settembre, si accorre a Monaco per salvare la pace, messa a rischio dalle mire tedesche sulla Cecoslovacchia. Si incontrano il premier inglese Neville Chamberlain (fratello minore del grande Joseph Austen Chamberlain); il primo ministro francese Édouard Daladier; Adolf Hitler e Benito Mussolini.
Da notare, tutti vanno in Germania, a Monaco; tutti vanno ai piedi di Hitler.
A Monaco, l’Impero britannico sacrifica sull’altare della pace la povera Cecoslovacchia (che addirittura non ha il permesso di partecipare all’incontro e all’accordo), nella speranza, risultata poi vana, di garantire una solida e duratura tranquillità allo scacchiere europeo.
Neville Chamberlain, un sincero uomo di pace, torna in Inghilterra, sventolando all’aeroporto una copia del trattato firmato da Hitler. E riceve accoglienze trionfali.
Se il povero Chamberlain avesse potuto ascoltare il giudizio di Vittorio Emanuele III sul valore della parola dei tedeschi, che «mancano sempre di lealtà e sono mentitori costanti», forse avrebbe stracciato quell’inutile pezzo di carta.
Ma, in compenso, Chamberlain dovrà ascoltare la severa condanna che Winston Churchill, il 5 ottobre 1938, pronuncia su quel disonorato e disonorante patto con Hitler: «Dovevate scegliere tra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra».
E purtroppo Churchill fu profeta.
Il premier britannico Chamberlain ha voluto tentare l’ultima carta per salvare la pace. Ma si sa, si sente, si teme, che Hitler sta correndo cinicamente verso la guerra. Lo sanno benissimo i nazisti e i fascisti, tant’è che, alla vigilia dell’incontro di Monaco, il ministro degli esteri Galeazzo Ciano mette in evidenza che «Hitler ritiene ancora che Francia e Inghilterra non marceranno. Ma se invece dovessero farlo, è pronto al conflitto. Aggiunge anzi che la situazione militare e politica è tanto favorevole all'Asse, che forse varrebbe la pena di giocare adesso una partita che si dovrà, un giorno, inevitabilmente giocare».
In sintesi, questa è l’idea di Mussolini in partenza per Monaco: «Il Duce ci riceve nel treno presidenziale. È severo e sereno. […] Espone il suo punto di vista: la Francia non marcerà, perché l'Inghilterra non si schiererà con lei. Se il conflitto, invece, dovesse generalizzarsi, noi ci porremo a fianco della Germania, subito dopo l'entrata in guerra dell'Inghilterra. Non prima, per non giustificare la sua guerra. Anche il Duce ha ripetuto la sua piena convinzione nella nostra vittoria: forza delle armi, forza irresistibile dello spirito».
Tutto previsto, tutto facile, tutto a portata di mano.
E mentre i ragazzi della storia con la s minuscola cantano, con Alberto Rabagliati, Bambina innamorata, e sognano un avvenire felice, e cercano l’amore, e fanno progetti; allo stesso tempo, i “grandi” della Storia con la S maiuscola sognano la guerra, le travolgenti avanzate, gli immancabili trionfi.
Così i “grandi” giocano a preparare la guerra e a preventivare la morte di milioni di giovani, quando non c’è pace nelle case italiane, perché piangono trepidanti le madri, le mogli, le sorelle, le fidanzate, di quei ragazzi che andranno a morire per la Storia con la S maiuscola.
Al ritorno da Monaco, Mussolini è soddisfatto di sé e si lancia in uno spericolato giudizio sulla decadenza britannica, sulle manìe inglesi, sulle insoddisfazioni sessuali delle donne inglesi.
«In viaggio – annota Ciano – il Duce è molto di buonumore. Pranziamo insieme e parla con grande vivacità di ogni argomento. Critica duramente la Gran Bretagna e la sua politica. “Quando in un paese si adorano le bestie al punto di far per loro cimiteri, ospedali, case; quando si fanno dei lasciti ai pappagalli è segno che la decadenza è in atto. Del resto, oltre le tante ragioni, ciò dipende anche dalla composizione del popolo inglese. 4 milioni di donne in più. Quattro milioni di insoddisfatte sessualmente, che creano artificialmente una quantità di problemi per eccitare o placare i loro sensi. Non potendo abbracciare un uomo solo, abbracciano l'umanità”».
Tra l’altro, in Italia non si spegne la polemica con la Monarchia. Un’occasione di attrito è offerta dalla celebrazione del 4 novembre 1938, quando, durante le cerimonie all’Altare della Patria, presenti il re e il duce, non viene suonata, per “una dimenticanza occasionale”, la Marcia Reale che è l’inno nazionale.
«Il Duce – scrive Ciano – parla delle difficoltà che presenta sempre più la “diarchia” del fascismo e della monarchia. Pare che ieri, durante le cerimonie all'Altare della Patria, le cose si siano messe male tra lui e il Re, perché la folla invocava il Duce e perché non è stata suonata la Marcia Reale al momento dell'Elevazione. Il Re lo ha rimarcato. Il Duce ha risposto trattarsi di una dimenticanza occasionale. Il Re ha ribattuto, in tono secco, che in otto secoli erano sempre stati resi gli onori ai Sovrani di Casa Savoia. Il Duce commenta la situazione con asprezza e lascia intendere che se l'occasione si presenterà per liquidare questo stato di cose, non se la lascerà sfuggire».
E le “regine”? Cosa fanno le donne che stanno accanto al potere e ai potenti d’Italia? Per brevità, ne ricordiamo fugacemente, ma molto fugacemente, solo alcune.
La regina Elena vive sempre accanto al marito (cosa più unica che rara, in casa Savoia, come in tutte le case regnanti), circondandolo di affetto e di premure (sentimenti ricambiati da Vittorio Emanuele III) e seguendolo fedelmente sia nei giorni del successo, sia in quelli della sconfitta e dell’esilio.
Donna di grande polso e di grande tempra morale, emerge indignata in alcune occasioni molto gravi.
Ad esempio, quando Mussolini inflisse alla Monarchia l’umiliazione del Maresciallato dell’Impero, che sanciva la diarchia paritaria del re e del duce nel comando supremo delle forze armate, la regina Elena trovò modo di far conoscere indirettamente al duce la sua indignazione e la sua solidarietà verso il marito.
«È venuto a vedermi Buffarini – scrive Ciano il 5 aprile 1938 –. Mi ha raccontato che ieri la Regina dopo aver molto criticato il prof. Bastianelli per la sua opera medica, disse questa frase: “Mandatelo via. Magari fate Maresciallo anche lui, ma mandatelo via”. Ciò prova che il Maresciallato dell'Impero al Duce non è ancora digerito in Casa reale. Non mi sbagliavo a dire che è una questione che attende ancora gli sviluppi».
Agli antipodi si colloca la principessa Maria José, moglie dell’evanescente e chiacchierato erede al trono, principe Umberto di Savoia.
Nata e cresciuta in un ambiente familiare molto più aperto di casa Savoia, la principessa si muove autonomamente e spregiudicatamente fra i grandi personaggi del tempo, giocando a volte un ruolo più grande di lei fra politici fascisti e antifascisti. Per i gusti di Vittorio Emanuele III, la principessa parla troppo e troppo si agita, dimenticando che in casa Savoia, dice lui, si comanda uno alla volta.
Basti pensare a quel che scrive Ciano sulle confidenze di Maria José, il 20 giugno 1938: «La Principessa di Piemonte cercava di avere notizie circa la questione monarchica. Ha detto che se lei non fosse quello che è, sarebbe contraria alle dinastie. A suo figlio insegnerà molti mestieri, perché pensa che un giorno il ragazzino dovrà lavorare e vivere del suo lavoro. I Savoia credono nel diritto divino. Lei no. Ha riconosciuto alle dinastie il solo merito di non cercare di far denari ed in ciò era una chiara punta antifascista. Diffida di Starace che sente nemico. Ho smentito ed ho cercato di placare queste inquietudini dicendo che non vi è alcuna ragione di preoccuparsene».
«Se lei non fosse quella che è», la nostra principessa sarebbe contraria a tutto il vecchiume delle teste coronate. Peccato che lei è quella che è! Cioè la figlia del re del Belgio, la nuora del re d’Italia e la moglie del futuro re Umberto. Che peccato! E quanta invidia cova in cuor suo la principessa, nei confronti delle commesse, delle sartine, delle operaie e delle contadine che, libere e spensierate, dispongono gioiosamente della loro vita, senza il peso dell’etichetta e dei gioielli!
Coraggio! La pianta profumata del radical chic è sempre esistita. Esisteva già nel giardino dell’Eden. Da Eva in poi, di questo profumo democratico Chanel n. 5, per gran signori travestiti da proletari, fecero uso tanti nobili prima ancora di tanti borghesi. Basti pensare al marchese di La Fayette e alle sue collezioni di rivoluzioni in America e in Francia.
Ed ora si profuma di Chanel radical chic la nostra democratica principessa Maria José: «A suo figlio insegnerà molti mestieri, perché pensa che un giorno il ragazzino dovrà lavorare e vivere del suo lavoro».
Un bel programma, non c’è che dire. Però, se pensiamo al figlio di Maria José, al frutto della sua pedagogia, a quel broccolone di Vittorio Emanuele che, negli anni Settanta, occuperà le cronache mondane e giudiziarie italiane, dobbiamo ammettere sconsolati che la democratica mamma-principessa non ebbe la mano felice!
Tra l’altro, Maria José lancia messaggi cifrati a Ciano, perché li riferisca a Mussolini. E va ad ascoltare un concerto di Toscanini a Lucerna (peccato che al concerto non ci siano operai!), salvo poi a fare l’ingenua pentita con Ciano, perché sa quanto il grande Toscanini sia detestato dal fascismo: «La Principessa di Piemonte mi ha riferito sul suo viaggio in Francia e in Inghilterra. Niente di molto importante. Ma soprattutto voleva giustificarsi per avere assistito, la scorsa estate a Lucerna, a un concerto di Toscanini. Non aveva calcolato la portata politica del gesto, cui è stata indotta da alcuni amici milanesi».
Il gioco si fa sempre più rischioso, quando Maria José abborda Mussolini e solletica la sua vanità, per fargli scoprire le carte sul futuro della monarchia in Italia: «Il Duce – scrive Ciano l’11 febbraio 1939 – ha fatto un elogio dell'attività assistenziale svolta dalla Principessa di Piemonte in Alto Adige. Dice che la Principessa ha un sacrosanto timore di lui [i maschi abboccano sempre di fronte alle donne che fingono di tremare!] e che va spesso a chiedergli istruzioni. Una volta tirò fuori un libriccino e segnando col dito un capoverso domandò al Duce cosa significa il fatto che il Gran Consiglio deve pronunciarsi in materia di successione della Corona. Il Duce rispose che ciò avverrebbe in caso di mancanza di continuità della linea diretta o per vicende eccezionali. Lei parve soddisfatta. Ma la domanda prova che la preoccupazione del futuro alberga nel petto dei membri di Casa Reale».
Vien da chiedere: ma alla democratica principessa, che non crede alle dinastie e vuole che suo figlio viva del suo proprio lavoro, che cosa importa della successione della Corona?
Alla fine del 1939, mentre la Germania ha già scatenato la guerra, la principessa Maria Josè ha un lungo colloquio con Ciano per avere notizie in merito al destino del Belgio e della sua regale famiglia. Chiede notizie, a costo di svelare a un estraneo (e che estraneo! il genero di Mussolini!) particolari intimi sul ménage con suo marito Umberto, e persino sulle modalità naturali o artificiali di concepimento del nascituro.
«Lungo colloquio con Maria [José] di Piemonte. È soprattutto inquieta per la minaccia di invasione tedesca del Belgio. Le ho lasciato capire, che secondo le nostre più recenti informazioni, la cosa adesso sembra assai probabile. Ne informerà subito il Re Leopoldo. Siamo rimasti intesi che qualora io abbia ulteriori informazioni, le porterò a sua conoscenza per il tramite di persona fidata. Ha voluto sapere molti particolari sulla mia azione a Salisburgo e dopo, e mi ha detto cose amichevoli e simpatiche. Odia i tedeschi con tutto l'animo: li chiama bugiardi e porci. Parla bene del Principe di Piemonte [suo marito Umberto]: dice che in lui si è operato un improvviso e completo revirement d'animo e di costumi, e mi ha lasciato intendere che il figlio che nascerà è di lui, senza intromissione di medici e di siringhe».
In questa nostra rapidissima carrellata diamo infine uno sguardo a una grande donna di sangue romagnolo, che non nasce in una casa regnante, ma in una casa di umilissimi contadini a Predappio.
Si tratta di Rachele Guidi, moglie di Mussolini, generalmente conosciuta come “donna Rachele”. Si può dire certamente che lei fu la moglie fedele di un marito infedele; a lui saldamente legata al di sopra di tutto e di tutti, persino al di sopra dei figli, quando gli eventi la costringeranno a scegliere tra il marito e i figli.
E se è vero che Claretta Petacci amò Mussolini sino al punto di sacrificare la vita assieme a lui, è anche vero che donna Rachele sacrificò ogni giorno la sua vita per Mussolini.
Energica, severa – autoritaria forse più del marito – donna Rachele restò sempre lontana dai salotti e dalla vita mondana, pur non rinunciando a intervenire su questioni politiche. Basti pensare che, durante il processo di Verona, si oppose irriducibilmente contro ogni atto di clemenza nei confronti di suo genero Ciano, che verrà condannato a morte e fucilato.
Un atteggiamento spietato, difficilmente comprensibile, che la porterà a una guerra con la figlia Edda, moglie di Ciano. Un atteggiamento spietato, che trova forse la sua spiegazione (non la giustificazione) solo nella sete di punire il tradimento di Ciano nei confronti di Mussolini, suo marito.
Ma è interessante leggere una pagina del Diario di Ciano, risalente al 25 gennaio 1941, in piena guerra, in cui emergono da un canto i sentimenti di reciproca antipatia fra suocera e genero, e dall’altro l’ira di donna Rachele contro tutti quelli che vanno abbandonando Villa Torlonia (Mussolini) per andare verso Villa Savoia (il re).
«Nel pomeriggio ho visto Donna Rachele. È molto allarmata del come vanno le cose. Com'è nella sua modesta natura, corre dietro ai pettegolezzi ed alle maldicenze, specialmente su questioni di denaro e non ha un senso esatto delle proporzioni. Comunque sente che il barometro segna tempesta ed afferma che tutto e tutti puntano direttamente contro il Duce. Ha un certo spirito. Si lamentava che gli storni – che lei ama cacciare – abbiano disertato i pini di Villa Torlonia: “Con l'aria che tira anche loro hanno cambiato direzione: se ne vanno sugli alberi di Villa Savoia”».
Ma, andiamo nel cuore della vecchia Roma, e precisamente lungo una piccola strada che da largo Argentina porta a piazza Vidoni. Ora entriamo nella Chiesa del Santissimo Sudario, dove normalmente si svolgono tutti i riti sacri della famiglia Savoia.
È l’11 marzo 1942, la guerra regna sovrana, e nell’unica navata di questa chiesa si svolge una funzione religiosa in suffragio del Duca d’Aosta, l’eroe dell’Amba Alagi. È una cerimonia riservata alla famiglia Savoia, a pochi intimi della Corte e ad alcune personalità. Addirittura la famiglia reale prende posto in una tribuna appartata e nascosta.
Mentre inizia la cerimonia, si apre la porta della chiesa, ed entra in solitudine e in lutto una donna del popolo, non vecchia ma invecchiata, coperta di nero dalla testa ai piedi, curva sotto il peso di un dolore indicibile.
È la copia vivente, questa donna vestita di nero, della “Pietà” che troneggia sull’altare maggiore della Chiesa del Sudario.
È donna Rachele, che prende posto in un banco qualsiasi e, sola nel suo dolore, piange per tutto il tempo della cerimonia. Poi, all’uscita, respinge ogni tentativo di accompagnarla, e si avvia a piedi a casa.
Questa figura del lutto, questa Mater dolorosa, un anno prima aveva perso in guerra il suo ragazzo di ventitré anni, il tenente Bruno Mussolini, morto in un incidente col suo aereo.
Bisogna dire, a tal proposito, che il dolore e il lutto non risparmieranno nessuno, neppure i “grandi”. Basti pensare che in casa Mussolini si avrà, oltre alla morte di Bruno, la fucilazione di Galeazzo Ciano, marito di Edda Mussolini.
E, in casa Savoia, l’eterno antitedesco Vittorio Emanuele III subirà dai nazisti affanni, dolori e lutti. Nel 1943, Maria Francesca, la più piccola delle figlie del re, fu deportata in un campo di concentramento vicino a Berlino, con il marito e due dei suoi figli. Nel 1944, la secondogenita Mafalda fu arrestata dai tedeschi con un tranello e poi deportata nel lager di Buchenwald, dove morì il 28 agosto 1944.
Ma scendiamo nel girone infernale della seconda guerra mondiale, non già per elencare eventi ben noti, ma per formulare qualche considerazione.
A Mosca, il 23 agosto 1939, viene stipulato il famigerato patto di non aggressione fra la Germania nazista e la l’Unione sovietica comunista. È il patto Hitler-Stalin o Ribbentrop-Molotov (rispettivamente ministro degli esteri nazista e ministro degli esteri comunista).
Un patto col diavolo? Niente affatto. È un patto fra due diavoli, giacché l’uno aveva in precedenza demonizzato l’altro e viceversa, straparlando sempre di lotta senza quartiere al bolscevismo e, dall’altra sponda, di lotta senza quartiere al nazifascismo. Da entrambe le parti avevano combattuto ed eliminato anche fisicamente quei “traditori”, che avevano osato uscir fuori seppur di un millimetro dall’ortodossia. Quante persecuzioni contro i socialdemocratici sbrigativamente etichettati come “socialfascisti”; quante persecuzioni contro gli anarchici!
Ora, invece, i due più potenti totalitarismi del mondo si mettono d’accordo. Per la pace? Ipocrisia e menzogna. Si mettono d’accordo con il classico patto di non aggressione che, guarda caso, prevede un “Protocollo segreto” in cui si stabilisce dettagliatamente una politica di invasione, di annessione e di spartizione sulla pelle di popoli innocenti e di nazioni indifese.
E precisamente: l’Unione sovietica di Stalin si assicura l’annessione della Polonia orientale, dei Paesi baltici (Estonia, Lituania e Lettonia) e della Bessarabia; la Germania di Hitler si accontenta di poco: l’annessione della Polonia occidentale. Si accontenta di poco rispetto a Stalin? Senza dubbio, tanto i due dittatori sanno che quel pezzo di carta sarà stracciato al momento opportuno, e molto presto.
A una settimana dal Patto fra il camerata Hitler e il compagno Stalin, alle ore 4,45 del 1º settembre 1939, la Germania scatena la guerra contro l’eroica Polonia, invadendola e travolgendola con operazioni militari strabilianti.
È l’inizio della seconda guerra mondiale.
Due giorni dopo, il 3 settembre 1939, Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania.
Due settimane dopo, il 17 settembre, in base a quanto previsto dal patto Hitler-Stalin, l'Unione sovietica aggredisce la Polonia da est, con buona pace del pacifismo proletario e comunista.
Stretta in una morsa, la martoriata Polonia cessa di esistere.
A differenza di quanto si poteva pensare, e auspicare, in merito a un immediato attacco francese contro la Germania, quanto meno per frenare lo slancio delle truppe tedesche in Polonia, bisogna dire che una vera e propria mossa strategica francese non ci fu. Sicché la Francia si chiuse sostanzialmente in difesa e in attesa dietro la linea Maginot, dando agio a Hitler di portare a compimento i suoi piani di guerra secondo i tempi e le modalità di Berlino.
Pertanto, il 9 aprile 1940, la Germania si lancia nell’invasione della Danimarca e della Norvegia.
Il 10 maggio 1940, mentre la Francia sta ferma dietro la Maginot, la Wehrmacht sferra l’offensiva sul fronte occidentale attaccando simultaneamente Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo. Una cavalcata delle Valchirie; una marcia trionfale sulla pelle di piccoli paesi neutrali.
Il 5 giugno 1940, le truppe tedesche, dopo avere aggirato la linea Maginot, danno inizio alla battaglia per la conquista di Parigi.
Cinque giorni dopo, il 10 giugno 1940, l’Italia – impreparata, disorganizzata e fondamentalmente neutralista nella coscienza degli italiani – entra in guerra a fianco della Germania.
Per avere una piccola idea sulla disorganizzazione, sull’impreparazione e sul pressappochismo militare e politico dell’Italia prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, leggiamo cosa scrive Ciano il 2 maggio 1939: «Il generale Carboni, che ha fama di studioso profondo di cose militari, conferma stamani che la situazione dei nostri armamenti è disastrosa. Da troppe parti ricevo queste informazioni per non dare loro peso. Ma il Duce che fa? Si concentra piuttosto in questioni di forma: succede l'ira di Dio se il presentat'arm è fatto male o se un ufficiale non sa alzare la gamba nel passo romano, ma di queste deficienze che conosce a fondo non sembra preoccuparsi oltre un certo limite».
L’importante, per vincere una guerra mondiale, è il passo romano fatto a regola d’arte!
Rispetto allo stato confusionale e altalenante di Mussolini, che la mattina è pronto ad abbandonare i tedeschi traditori (“ogni volta che Hitler prende uno Stato mi manda un messaggio”), e la sera ritorna filotedesco (“Noi non possiamo cambiare politica perché non siamo delle puttane”), Vittorio Emanuele, invece, è fermo e costante. Come al solito, fa la talpa ed è più che mai antitedesco. E, quando parla col duce, non ha paura di pigiare sul tasto dell'insolenza e della doppiezza germaniche, esaltando invece la correttezza inglese e definendo i tedeschi “mascalzoni e straccioni”.
E sa bene il re che, dato il filo diretto fra Mussolini e Hitler, parlar male dei nazisti comporta rischi enormi di vendette e rappresaglie.
Lo stesso Ciano, il 27 marzo 1939, sottolinea la grande capacità del re di fare imbestialire un Mussolini alquanto depresso e confuso, ossia l’abilità di quel piccolo re che non esita a porgere al duce, con malcelata soddisfazione, l’amaro calice di verità scomode e sgradite.
«Il Duce era stamani molto risentito col Re il quale ha trovato modo di dirgli tre cose sgradevoli: 1) non era d'accordo sulla politica albanese poiché non trovava opportuno rischiare una grossa avventura per “prendere quattro sassi”; 2) che l'offerta fatta da Acquarone di concedere qualche onore al Duce in occasione del ventennale era determinata dal desiderio di “mettere le mani avanti per impedire che i fascisti ripetessero con un gesto inatteso, l'umiliazione” che fu inflitta al Re con la nomina a sua insaputa del Duce a Maresciallo dell'Impero, umiliazione ch'egli ancora sente; 3) che Corrado di Baviera gli aveva detto che Mussolini è chiamato a Monaco in alcuni ambienti “il Gauleiter [una sorta di governatore per conto di Hitler] per l'Italia”. Il Duce commentava amaramente queste parole del Re. Ha detto che se “Hitler avesse avuto tra i piedi una testa di c... di Re non avrebbe mai potuto prendere l'Austria e la Cecoslovacchia” e ha continuato affermando che la Monarchia non ama il Fascismo perché è un partito unitario “mentre desidererebbe avere il Paese diviso in due o tre fazioni da sballottare sempre l'una contro l'altra e dominare senza compromettersi”».
In verità, se parliamo di fazioni, il fascismo ne produsse ben più di due o tre.
Il 18 agosto 1939, qualche settimana prima di quel maledetto 1° settembre, in cui Hitler precipiterà il mondo nella fornace della seconda guerra mondiale, Mussolini è ancora altalenante, ancora lacerato fra la speranza che non scoppi la guerra e la paura di una vendetta di Hitler.
«Nella mattinata – scrive Ciano – colloquio col Duce con la solita sua altalena di sentimenti. Egli ritiene ancora possibile che le democrazie non marcino e che la Germania possa a buon mercato fare un ottimo affare dal quale non vuole escludersi. Poi teme l'ira di Hitler. Pensa che una denunzia – o qualche cosa di simile – del Patto, possa indurre Hitler ad abbandonare la questione polacca, per saldare il conto dell'Italia. Tutto ciò lo rende nervoso e inquieto: i miei suggerimenti durano pochi secondi. Ormai sospetta anche me di ostilità all'Asse, di partito preso e anche la mia influenza in materia – purtroppo – sembra declinare».
Ma Ciano non desiste dai suoi disperati tentativi di sottrarre il duce all’abbraccio mortale coi nazisti. E cerca una sponda nel re, il quale si accontenterebbe della neutralità italiana, che almeno darebbe respiro e possibilità di valutare meglio l’andamento che assumerà la guerra ormai alle porte.
Il 21 agosto 1939, Ciano aggancia ancora una volta Mussolini. Supera il suo timore reverenziale verso il duce e, pur sapendo che suo suocero non si fida più di lui perché non lo asseconda passivamente, gli propone di stracciare il Patto d’Acciaio con la Germania, perché Hitler ha tradito mille volte l’alleanza con l’Italia.
Addirittura, a un duce stanco, confuso e intimorito, Ciano offre la sua persona per andare da Hitler e denunciare il Patto e fare chiarezza. Poi, quasi a farsi coraggio e a fare coraggio al duce, gli dice che certamente non si farà trattare dal Führer con la stessa insolenza con la quale trattò il povero cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg, quando lo convocò per una sorta di ultimatum, maltrattandolo in ogni modo.
«Oggi ho parlato chiaro: ho bruciato ogni mia cartuccia. Quando sono entrato nella stanza, Mussolini ha confermato la sua decisione di marciare con i tedeschi. “Voi, Duce, non potete e non dovete farlo. La lealtà con cui vi ho servito nella politica dell'Asse mi autorizza a parlarvi chiaro. Andai a Salisburgo per trattare una linea comune: mi trovai di fronte ad un diktat. I tedeschi – non noi – hanno tradito l'alleanza, per cui noi dovremmo essere stati soci e non servi. Stracciate il Patto, gettatelo in faccia a Hitler e l'Europa riconoscerà in voi il Capo naturale della crociata antigermanica. Volete che vada io a Salisburgo? Ebbene, vado e saprò parlare ai tedeschi come conviene. A me Hitler non farà spengere la sigaretta, come fece con Schuschnigg”. Queste ed altre cose gli ho detto. Ne è stato molto scosso ed ha approvato la mia proposta».
«I tedeschi – non noi – hanno tradito l'alleanza», è questo il ritornello che viene ripetuto non solo da Ciano. Ma una fatale catena di paure immobilizza tutti e tutto: i capi militari e i politici borbottano, ma hanno paura del duce; il duce borbotta, ma ha paura di Hitler!
Frattanto, Vittorio Emanuele non ha perso la testa. Egli continua a tessere la sua tela antitedesca; esamina le forze del regno; effettua (a 70 anni suonati!) ben trentadue ispezioni nella zona di frontiera italo-francese; si convince che i francesi potrebbero travolgerci con facilità, e prende atto che l’esercito è “in uno stato pietoso”.
Egli ha orecchie per intendere la vox populi che parla male dei tedeschi, e che desidera la neutralità. Addirittura, quel piccolo re, che passerà alla storia solamente come colui che abbandonerà la capitale, ora, nell’imminenza della guerra, vuol essere presente a Roma se la situazione dovesse precipitare.
Il 24 agosto 1939, tre giorni dopo il concitato colloquio con Mussolini, Ciano va a trovare il re che si trova a Sant'Anna di Valdieri in Piemonte, riportando interessanti impressioni.
«A Sant'Anna di Valdieri per conferire col Re. L'opportunità è stata data dalla visita di ringraziamento per il Collare [il Collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, onorificenza concessa dal re nel 1939 a Ciano]. Ma di Collare si parla ben poco. Vuole notizie sulla situazione. Lo metto rapidamente al corrente di quanto è avvenuto, ma con lui non ho bisogno di attaccare i tedeschi poiché è già in uno stato d'animo di aperta ostilità. Mostro i quattro punti concordati col Duce circa il nostro contegno. Egli approva, soprattutto, il terzo: quello cioè della neutralità. A suo giudizio non siamo assolutamente in condizioni di fare la guerra: l'esercito è in uno stato "pietoso", la rivista e le manovre hanno rivelato appieno la triste condizione di impreparazione delle nostre grandi unità. Anche la difesa della frontiera è insufficiente: egli ha compiuto trentadue ispezioni ed è convinto che i francesi possono passare e anche con molta facilità. Gli ufficiali sono scadenti, i mezzi vecchi e inadatti. A ciò si deve aggiungere lo stato d'animo del paese nettamente antitedesco: i contadini vanno alle armi, maledicendo quei "buggeroni di tedeschi". Bisogna quindi, a suo avviso, restare con le armi al piede in attesa degli eventi. Sei mesi di neutralità, ci danno una grande forza. Comunque, se decisioni supreme dovessero essere prese, desidera trovarsi a Roma per "non essere tagliato fuori"».
Poi, il 1° settembre 1939, Hitler appicca l’incendio della seconda guerra mondiale, e l’Italia dichiara la sua neutralità. Anzi la sua “non belligeranza”, perché il tic del politicamente corretto esisteva già allora.
D’altra parte, un popolo guerriero, guidato da un duce guerriero, non può mai essere “neutrale” mentre tuona il cannone in Europa. E allora ci soccorre l’eterna Bisanzio, con le sue sottigliezze e le sue cavillosità, e ci fa dire che noi non siamo “neutrali”, bensì “non belligeranti”. Suona meglio, no?
E che la stirpe guerriera sia in crisi in questi giorni di “non belligeranza”, lo testimonia Ciano in una pagina del 9 ottobre 1939: «Il Duce stamani era depresso, come mai l'ho visto. Ormai si rende conto che la prosecuzione della guerra è cosa inevitabile, e sente tutto il disagio di doverne rimanere fuori. Cosa eccezionale in lui, si è sfogato con me. "Gli Italiani, ha detto, dopo aver per diciotto anni ascoltato la mia propaganda guerriera, non si rendono conto di come io possa – adesso che l'Europa è in fiamme – divenire l'araldo della pace. Non vi è altra spiegazione tranne quella dell'impreparazione militare del Paese, ma anche di questa si fa risalire a me la responsabilità, a me che ho sempre proclamato la potenza delle nostre forze armate". Se l'è presa con Hitler che l'ha messo in una situazione tale da "travolgere molti uomini e da incrinare anche un uomo come il Duce". Ha ragione. Non c'è niente da obiettare. Nel Paese si mormora contro tutto e tutti, lui compreso. Ma lui è sempre stato in buona fede: è stato mistificato da quattro o cinque individui ch'egli ha avuto il torto di mettere troppo in alto e quello di non averli ancora duramente colpiti».
Fra questi “quattro o cinque individui” (sono invece una legione!) che hanno adulato e aizzato Mussolini, un posto d’onore occupa l’ineffabile Achille Starace, che adotta una rigorosa analisi socio-politica per spiegare la voglia di guerra delle donne italiane: «Starace – scrive Ciano – è arrivato, nella sua pochezza intellettuale e morale, a dire a Mussolini che le donne italiane sono felici della guerra perché ricevono sei lire al giorno e si levano i mariti dai piedi. Che vergogna! Il popolo italiano non merita l'insulto di tanta volgarità».
Alla fine del 1939, mentre la fortuna militare arride a Hitler, Mussolini è sempre più nervoso, incoerente, oscillante, irascibile con tutti, sospettoso di tutti.
A tal proposito, sommamente indicativo è il colloquio di Ciano con il potentissimo capo della polizia Arturo Bocchini, il quale addebita gli sbalzi di umore del duce a una recrudescenza della sifilide, auspicando che Mussolini si sottoponga a una forte cura antiluetica.
«Lungo colloquio con Bocchini. Si è soprattutto lagnato dell'inquieto umore del Duce – cosa notata da tutti i collaboratori – ed è persino arrivato a dire che sarebbe bene ch'egli facesse un'intensa cura antiluetica, poiché Bocchini attribuisce ad una recrudescenza del vecchio male il suo stato psichico. Mi ha molto sorpreso – e rincresciuto – che Bocchini abbia detto questo, benché anch'io debba riconoscere che adesso l'incoerenza di Mussolini è veramente disorientante per chi deve lavorare con lui».
Bocchini, il quale sa tutto di tutti, forse non ha torto nel diagnosticare una recrudescenza della sifilide in Mussolini che, mentre l’Italia è in preda alla confusione e alla disorganizzazione, e mentre la Germania miete vittorie a destra e a manca, esce fuori con questa folle affermazione sui tedeschi: «Devono farsi guidare da me, se non vogliono cadere in gaffesimperdonabili. In politica, è fuori discussione che io sono più intelligente di Hitler».
Più seri e più concreti i colloqui fra il re e Ciano. I due – il 5 marzo 1940, tre mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia – sanno bene che stanno facendo un gioco estremamente pericoloso; e sono consapevoli di stare entrambi in cima alla lista di coloro a cui i nazisti presenteranno un conto salatissimo.
E tuttavia entrambi restano saldamente in sella contro la Germania: «Lungo colloquio col Re. L'ho trovato indispettito per l'atteggiamento inglese, ma senza che ciò abbia per niente mutato il suo fondo di pervicace antitedesco. “Io sono nel libro nero della Germania” ha detto. “Sì, Maestà. Al primo posto. E se permettete l'audacia, io vi figuro subito dopo”. “Lo credo anch'io. Ma ciò onora entrambi nei confronti dell'Italia”. Tale il tono dei nostri discorsi. Non ho esitato a dirgli che considererei la vittoria tedesca come il più grande disastro per il nostro Paese. Mi ha domandato cosa potremmo ottenere dagli alleati. “Salvare la libertà dell'Italia, che l'egemonia germanica comprometterebbe per secoli”. Era d'accordo».
C’è indubbiamente della fierezza e della lucidità in questo colloquio, che si svolge mentre tutto lascia intendere che la Germania sta per chiudere la partita della guerra con una rapida e schiacciante vittoria finale.
Infatti, Ciano e quel piccolo re sono lucidamente consapevoli del rischio mortale che stanno correndo; sono fieramente convinti che «ciò onora entrambi nei confronti dell'Italia»; sono d’accordo nel ritenere che bisogna «salvare la libertà dell'Italia, che l'egemonia germanica comprometterebbe per secoli».
Ma c’è di più: Vittorio Emanuele non demorde e, il 14 marzo 1940, lancia un ulteriore segnale a Ciano. Infatti, a dieci giorni da quel colloquio, egli invia presso Ciano il conte Acquarone, per fargli sapere, in via confidenziale e riservata, che Sua Maestà potrebbe intervenire anche con la più netta energia, visto il crescente disagio che circola in Italia.
«Al Golf mi avvicina il Conte Acquarone, Ministro della Real Casa. Parla apertamente della situazione in termini preoccupati, e assicura che anche il Re è al corrente del disagio che perturba il Paese. A suo dire, Sua Maestà sente che da un momento all'altro potrebbe presentarsi per lui la necessità di intervenire per dare una diversa piega alle cose; è pronto a farlo ed anche con la più netta energia. Acquarone ripete che il Re ha verso di me "più che benevolenza, un vero e proprio affetto e molta fiducia". Acquarone – non so se d'iniziativa personale o d'ordine – voleva portare più oltre il discorso, ma io mi sono tenuto sulle generali».
Insomma, tramite Acquarone, Vittorio Emanuele III lancia un messaggio a Ciano. Ma a questo punto il gioco, se fosse scoperto, diventerebbe troppo pericoloso. Per cui Ciano ascolta, ma non si sbilancia.
Si aggiunga che quel piccolo re – il quale sta risalendo la china e sta riconquistando la fedeltà delle forze armate – continua anche nell’operazione neutralista verso lo stesso Mussolini, il quale invece ha ormai fretta di entrare in guerra: «Mussolini stamani era scuro in volto. Tornava da un colloquio col Re che non lo aveva soddisfatto. Ha detto: "Il Re vorrebbe che entrassimo solo per raccogliere i pots cassés. Basta che prima non ce li rompano in testa. Poi è umiliante stare con le mani in mano mentre gli altri scrivono la storia. Poco conta chi vince. Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento magari a calci in culo. Così farò io. Non dimentico che nel '18 in Italia c'erano 540.000 disertori. E se non cogliamo questa occasione per misurare la nostra marina con quelle franco-britanniche, perché dovremmo avere 600.000 tonnellate di naviglio? Basterebbero dei guardiacoste e dei panfili per portare a passeggio le signorine"».
Inutile il tentativo del re. Inutile e pericoloso, perché Mussolini ha ormai deciso di “scrivere la storia” assieme agli altri belligeranti. Che fare? Per il duce basta poco. Basta mandare al combattimento il popolo italiano “a calci in culo”.
E poi – diciamocelo una volta per tutte – che stiamo a fare vigliaccamente con le mani in mano, quando abbiamo una marina da guerra che vanta 600.000 tonnellate di naviglio?
Purtroppo, nella sua voglia di “scrivere la storia”, Mussolini sottovaluta la flotta inglese. E soprattutto trascura che una flotta non si misura solo a colpi di tonnellaggio, perché esistono altri fattori parimenti importanti come, ad esempio, la perizia e l’esperienza dei comandanti, il livello degli equipaggi, la qualità dei materiali e la rete degli approvvigionamenti. Senza nafta, ad esempio, le 600.000 tonnellate di naviglio non si muovono!
E la prova di ciò verrà inesorabilmente cinque mesi dopo la nostra entrata in guerra contro l’Impero britannico. Infatti, nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940, gli inglesi attaccheranno la flotta italiana alla fonda a Taranto, colando a picco la corazzata Conte di Cavour e danneggiando gravemente la Caio Duilio e la Littorio.
Ad aggravare le responsabilità di questo disastro, bisogna dire che il maresciallo Badoglio aveva già sostenuto che, attaccando la Grecia, bisognava spostare la flotta da Taranto, perché non più sicura.
(continua)